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Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne migranti

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Un Tribunale senza giuria ma con una Commissione di ascolto di avvocate, docenti di diritto, giuriste, esponenti politiche che cercheranno di coinvolgere le istituzioni a livello comunale e regionale, il parlamento e il governo

Casa Internazionale delle Donne, 27 maggio 2023

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Si è svolta il 27 maggio scorso, alla Casa Internazionale delle Donne, la prima seduta del “Tribunale delle donne per i diritti delle donne migranti” con le Testimonianze delle donne afghane arrivate in Italia. Dopo l’introduzione dell’avvocata Ilaria Boiano, dell’associazione Differenza Donna che ha illustrato il progetto, sono state ascoltate le testimonianze di otto donne afghane, alla presenza di un pubblico numeroso, attento e partecipe e di altrettanti collegamenti zoom.

Avevano tutte un gran bisogno di parlare, di raccontare le loro storie, per rimettere a fuoco quanto è successo e succede oggi in Afghanistan, perché interroga la responsabilità di tutte e tutti. Hanno subito, in quel tragico agosto del 2021, una frattura improvvisa delle loro vite; sono fuggite in vari e rocamboleschi modi, hanno perso relazioni familiari, posizioni di lavoro e di studio. Sono arrivate in Italia.

A differenza di donne di altre nazionalità, in base ai diritti previsti dalla legislazione internazionale, non hanno dovuto aspettare troppo il riconoscimento del diritto d’asilo. Sono state accolte, sì, ma oggi l’assistenza che ricevono sembra loro una concessione, e non un riconoscimento, una riparazione. Facilitare il riconoscimento dei loro titoli di studio, promuovere l’inserimento lavorativo in base alle loro competenze, consentire i ricongiungimenti familiari allargati, sono minime riparazioni per quanto hanno subito e subiscono. “Non voglio buttar via tutti i miei obiettivi, ma se non riconoscono le mie competenze di medico” dice Mahoba, oppure “la mia laurea, la mia esperienza, non riconoscono la mia dignità” dicono tutte, e “ci concedono solo di fare la badante o al massimo la mediatrice culturale”. E persistono difficoltà nell’inserimento scolastico, nell’accesso ai servizi, nel poter esercitare la proprio religione.

In questa strana seduta di un Tribunale, non c’era una Giuria, ma una Commissione di ascolto, composta da avvocate, docenti di diritto, giuriste, esponenti politiche che cercheranno di coinvolgere le istituzioni a livello comunale e regionale, il Parlamento e di incalzare il Governo. Ne è nata una rete, di donne afghane, di associazioni, di donne che per la loro collocazione potranno agire a sostegno dei loro diritti. Ma le protagoniste sono e saranno loro, queste meravigliose donne, coraggiose e risolute.

Le testimonianze delle Donne afghane

Le donne afghane che oggi porteranno la loro testimonianza hanno avuto accesso ai percorsi formali per ottenere l’asilo, ma queste stesse procedure sono la causa delle difficoltà e delle fatiche incontrate nell’ingresso in Italia e nella permanenza. Le ascolteremo e alla fine produrremo un documento che prevede forme di advocacy e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle problematiche che verranno segnalate.

Neelai Barekin Afghanistan lavorava in un’organizzazione internazionale ed era attivista per i diritti umani. È scappata il 22 agosto e qui in Italia ha dovuto ricominciare da zero, ha incontrato una lingua e una cultura differente, e per lei è stato complicato. Ma non ha subito alcuna discriminazione culturale, anzi è stata incoraggiata nel proseguire la sua attività per i diritti umani, per le donne e il popolo afghano. Frequenta un master all’università di Roma Trecon una borsa di studio. Anche in campo sanitario ha ricevuto tutte le cure per lei e il suo bambino.

Nazanin Barekzen. Ha dovuto lasciare l’Afghanistan due volte; la prima, con il governo dei talebani più di 20 anni fa: era bambina e con la sua famiglia si sono rifugiati in Pakistan, dove la parola migrante aveva un’accezione dispregiativa; ma la seconda volta, quando è arrivata in Italia, questa stessa parola non ha un valore negativo. Qui si sente una donna libera, frequenta un master in cooperazione internazionale. “Si emigra per la fame o per la guerra, ma nessuno vorrebbe lasciare la propria patria. Accettate le persone migranti con le loro differenze culturali, ma con gli stessi diritti dei cittadini europei”.

Mahboba Islami. Le sue qualifiche: chirurga, docente universitaria, attivista femminista di un’organizzazione a Kabul. Anche Mahboba era fuggita con il primo governo dei talebani, era andata in Iran dove ha subito molte discriminazioni in quanto donna e straniera. Nonostante gli ostacoli nell’accesso all’istruzione è riuscita a studiare ugualmente, e poi, di ritorno in Afghanistan ha continuato gli studi, anche per contrastare la discriminazione di genere. Nel 2011 partecipa a un movimento di donne chirurghe che viene formalizzato nel 2021. Lavorano con difficoltà come mediche in una società maschilista dove le donne sono di fatto e di diritto “secondo sesso”, e lo fanno con le persone più povere, con i bambini, con le donne; si trovano di fronte casi di torture subite, di violenza domestica contro donne che avrebbero leso l’onore della famiglia e della società. Resta in Afghanistan per continuare il suo lavoro, militando per la sua indipendenza e forza, perché le donne sono il motore dei grandi cambiamenti. Ma poi si accorge che non era più possibile restare, non c’era più alcuna libertà. In Italia è stata accolta e aiutata da Differenza Donna per tutte le procedure necessarie, ma non ha visto riconoscere tutti i suoi studi e la sua professionalità, le offerte di lavoro sono di badante o lavoratrice nei ristoranti o al massimo di mediatrice culturale. “Eppure, l’Italia ha bisogno di medici ma non sfrutta le nostre professionalità. Abbiamo lasciato il nostro paese perché non ci permettevano di studiare e lavorare e paradossalmente abbiamo trovato la stessa situazione anche qui in Italia”.

Maria Cristina Rossi, Cisda, Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane. Il Cisda è nato nel 1999 durante il primo governo dei Talebani per sostenere le donne afghane, che fin dagli anni 70 lottavano contro il fondamentalismo. Ci siamo collegate con l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) e da lì ha iniziato la nostra collaborazione, con un supporto reciproco. Molto abbiamo da imparare da loro Donne che hanno imparato a muoversi nella clandestinità per realizzare cliniche mobili, distribuzione degli aiuti, ecc. Anni difficili, eppure gli anni più felici, ci dice una rifugiata. Lasciare il proprio paese è sempre una esperienza terribile, una lacerazione profonda. Molto importante è la consapevolezza storica per capire il presente, per capire tutto ciò che ha impedito l’autodeterminazione del popolo afghano, le responsabilità dei fondamentalisti e di quell’Occidente che ha sostenuto i signori della guerra e ha favorito poi i talebani. È disponibile una video intervista a una giovane afghana arrivata in Germania dopo 5 anni di viaggio e di violenze lungo la rotta balcanica.

 P. R. Un saluto alle donne forti e coraggiose dell’Afghanistan! Il mondo guarda senza più reagire a quanto accade in Afghanistan. Le donne afghane sono scese in piazza, ma non c’è stata la stessa mobilitazione che c’è rispetto all’Iran e all’Ucraina. Non ci può essere una diversità tra donne afghane, iraniane o ucraine! La situazione in Afghanistan per le donne è terribile: non c’è accesso all’istruzione, non si può nemmeno uscire di casa senza il consenso dell’uomo, i talebani chiedono in moglie donne ancora bambine, anche se hanno altre mogli, oppure le stuprano, anche in gruppo, magari poi le uccidono e minacciano le loro famiglie terrorizzate. P. poi racconta la sua scelta di fuggire, nell’agosto 2021, in una situazione di caos e guerra civile, di andare in Pakistan e da lì chiedere asilo in vari paesi, tra i quali ha risposto anche l’Italia. Ha scelto l’Italia perché conosceva le attiviste afghane già residenti nel nostro paese che le raccontavano la solidarietà delle donne italiane.

Batool Haidari. Segnala l’esistenza di organizzazioni che presentano progetti per richiedenti asilo, dal viaggio alle operazioni post salvataggio, spesso facenti parte di reti mafiose, che utilizzano la legislazione europea e italiana per mere ragioni di sfruttamento e di loro ritorno economico. Segnala anche la violenza verbale anche a sfondo sessuale che subiscono, in silenzio, le ragazze afghane venute in Italia per studiare. Pensavamo che in Italia ci fosse sicurezza per le donne, ma ci sono questi episodi e dobbiamo sapere a chi rivolgerci per denunciarli. Gli afghani sono un popolo mite e laborioso, ma in Italia hanno perso la voglia di lavorare e di vivere, per tutte le difficoltà affinché la propria professione venga riconosciuta: si perde ogni fiducia. Sono risorse umane sprecate. Sono preoccupati per il loro futuro in Italia, c’è voglia di espatriare o addirittura tornare in Afghanistan.

Madina Hassani. Madina ha 27 anni, frequenta un master all’Università di RomaTre, e ha lavorato per Nove onlus in Afghanistan, il che le ha consentito di conoscere un po’ la lingua e la cultura italiana. Quindi per lei è stato più facile adattarsi, anche se era la prima volta che si trovava ad essere una migrante. Ingenerale ci sono molte difficoltà per le donne afghane di integrarsi nella società italiana, anche se è il Paese che hanno scelto. SI lascia alle spalle tutto ciò che si è costruito solo per ragioni di necessità e di sicurezza, e si deve ricominciare da zero. Qui c’è un’altra cultura, altri modi di vivere e di vestirsi. Le donne più anziane velate che frequentano i corsi di lingua o di formazione sono spesso oggetto di curiosità e di discriminazione, anche se dovrebbe essere normale vestirsi come si vuole.

Sakina Hosseini  È una rifugiata politica in Italia. “Sono qui perché costretta, per essere madre e al contempo padre di mia figlia”. Ha quarant’anni e quando stava in Afghanistan ha avuto incarichi importanti: negli organismi e istituzioni per la protezione della famiglia, contro la violenza contro le donne, per l’uguaglianza di genere. È stata scelta dal Ministero per la questione femminile e così, una tra le 10 donne scelte, ha avuto la possibilità di andare a studiare negli Stati Uniti. Anche qui in Italia continua la sua attività per essere la voce delle donne afghane che subiscono ogni forma di violenza in tutto il mondo. È emigrata due volte, ad ogni avvento dei talebani, ed ogni volta “è un dolore che ti brucia dentro”. La prima volta con la famiglia è andata in Iran e al ritorno il padre è stato arrestato in quanto hazara e sciita, liberato poi dalla madre, donna forte e coraggiosa. Ha sposato un ingegnere che in realtà faceva l’interprete in 5 lingue e il mediatore culturale; proprio quando lei ha partorito, è stato ucciso dai talebani. È rimasta comunque in Afghanistan anche per consentire alla propria figlia di continuare gli studi. Dopo gli accordi di Doha tra Stati uniti e Talebani le donne hanno continuamente chiesto alle forze internazionali di lasciare l’Afghanistan in modo graduale per consentire alle forze di sicurezza afghane di prepararsi alla resistenza, perché altrimenti era certa la vittoria dei talebani; ma non avvenne. Sakina, che stava nella lista delle persone da uccidere, è scappata indossando il burka da Herat a Kabul; l’alternativa era restare chiusa per sempre o rischiare. Elenca una serie di problematiche che incontrano le donne afghane in Italia: l’inserimento dei figli a scuola, non aiutati per i traumi che hanno subito; i limiti della ricongiunzione familiare a genitori e figli, che non contempla il resto della famiglia, sorelle, fratelli, ecc.; la discrepanza tra le istituzioni, Commissione, Municipio, rispetto alla concessione della protezione internazionale e all’assistenza; la discriminazione religiosa, che rende più difficile l’inserimento nel mondo del lavoro e la possibilità di celebrare matrimoni e funzioni funebri secondo il rito islamico. Ci dicono, dimenticate le vostre lauree, i vostri ruoli, il vostro passato, ricominciate dalla terza media, andate a fare le badanti. “Le donne in Afghanistan muoiono per le loro lotte, qui in Italia moriremo lentamente…”.

Shekiba Hajizada. Laureata in agricoltura, in Afghanistan ha lavorato al Ministero per l’Agricoltura e al Ministero delle Finanze. Ha sempre cercato posizioni e ruoli importanti nella società afghana, ma ha perso tutti questi obiettivi con la vittoria dei Talebani. Tra le difficoltà principali in Italia c’è la questione della lingua, una chiave di svolta per inserirsi nella società italiana. Anche Shekiba lamenta che i lavori che le si offrono non sono adeguati (come badante o nei ristoranti). Denuncia il fatto che suo figlio che studia in India, terminati gli studi non può restare in India, né tantomeno tornare in Afganistan – in quanto lei ha lavorato nel governo precedente – e non può venire in Italia, perché il ricongiungimento familiare non lo prevede, in quanto maggiorenne

 

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