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Svelare l’oppressione

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Le lotte silenziose delle donne afghane sotto la sorveglianza del ministero talebano

Tamana Rezaie, Hasht-E Subhcha, 23 dicembre 2023

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Quando i Talebani in Afghanistan hanno sostituito il Ministero per gli Affari Femminili con il Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, la repressione delle donne si è estesa anche alle strade che percorrono. 

Vestiti con abiti bianchi, gli agenti di questo gruppo osservano e giudicano meticolosamente l’abbigliamento e il comportamento delle donne. Ogni aspetto viene esaminato attentamente: gli abiti che indossano, il tono delle voci, le interazioni con gli uomini, il modo in cui si comportano, persino i veicoli che utilizzano, tutto sotto l’occhio vigile di questi agenti. Questa sorveglianza non è semplicemente passiva: è accompagnata da una danza crudele di violenza, umiliazione e insulti. 

A volte la brutalità di questi agenti di polizia morale trascende le semplici parole, trasformandosi in tortura e incarcerazione. Le strade, un tempo simbolo di libertà, sono diventate il palcoscenico degli atti più oscuri di oppressione contro le donne afghane.

 

Tutto sotto uno sguardo scrutatore

Il tormento inflitto alle donne va oltre il loro abbigliamento e comportamento: la polizia morale talebana ha eretto posti di blocco nelle strade, esaminando i veicoli e vietando alle donne di occupare i sedili anteriori.

I veicoli privati vengono fermati e vengono fatte domande invadenti sulla relazione tra la donna e l’autista. Agli autisti è vietato far viaggiare una donna sola senza il velo arabo. Qualsiasi deviazione da questi dettami comporta una punizione sia per la passeggera che per il conducente. Il Ministero talebano per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio vigila sulla vita quotidiana dei cittadini, ponendo soprattutto le donne sotto il suo sguardo scrutatore.

Shakila (pseudonimo) è una delle giornaliste che sotto il dominio dei Talebani lavora per uno dei media da loro controllati. Sebbene un numero significativo di giornaliste abbiano perso il lavoro a seguito dei cambiamenti politici, lei è tra le poche che, nonostante le leggi rigide e intransigenti dei talebani, continuano a lavorare. Ha più volte sperimentato l’amaro calvario delle molestie e delle persecuzioni da parte della polizia morale dei talebani durante il tragitto da casa all’ufficio e nel suo stesso lavoro.

Così descrive il suo ricordo di queste esperienze disastrose: “Un giorno stavo andando da casa al mio ufficio. La polizia morale aveva bloccato la strada, controllando l’abbigliamento delle donne che camminavano e mi hanno fermata. Ancor prima che aprissero bocca ero terrorizzata dal loro aspetto severo, dal comportamento violento e brutale nei confronti di tutti. Indossavo un completo nero, con pantaloni neri larghi che arrivavano sotto il ginocchio. Mi scrutarono dalla testa ai piedi con occhi sdegnosi, poi, con tono forte e aspro, uno di loro mi ha detto: “Perché non indossi l’hijab? Non ti permetteremo di passare”.

All’inizio ero perplessa, perché pensavo: “Indosso dei vestiti, tutto il mio corpo è coperto, il mio abito non è abbastanza attillato da rivelare i dettagli del mio corpo. Allora, come possono dire che non ho l’hijab?”. Poi ho capito che per hijab intendevano il velo in stile arabo. 

Volevo dire qualcosa e convincerli che il mio abbigliamento non era in contraddizione con l’Islam. Avrei voluto dire loro che dovevano cambiare la mentalità e gli atteggiamenti degli uomini nella società per sradicare la corruzione, ma sono rimasta in silenzio. Cosa si può dire a un gruppo ignorante che pratica il proprio odio verso il genere opposto sotto la maschera della religione? 

Il momento in cui la polizia morale dei talebani mi insultava con parole volgari e gli spettatori restavano a guardare la mia umiliazione è stato uno dei più vergognosi che abbia mai vissuto. Sono tornata a casa, ho indossato l’abbigliamento su cui avevano insistito e sono tornata nel mio ufficio, ma sono arrivato molto tardi. Sono stata segnata come assente. Quel giorno ero così furiosa che avevo deciso di lasciare il mio lavoro e di non uscire mai più di casa”.

 

Un’esperienza che si ripete spesso

Anche se Shakila non aveva dimenticato quei brutti momenti, qualche mese dopo visse nuovamente un esperienza simile. Racconta: “Un giorno tornando a casa dal mio ufficio, vestita in modo talebano, ovvero con un hijab nero in stile arabo e un chador nero, pensavo che la Polizia Morale dei Talebani non mi avrebbe dato fastidio. 

L’autista mi aveva suggerito, come alle altre passeggere donne, di sedermi nello scompartimento posteriore dell’autovettura, mentre gli uomini potevano sedersi comodamente davanti su sedili morbidi e comodi. Tuttavia, il mio orgoglio non mi permetteva di accettare di essere trattata come un oggetto, stipata nel vano posteriore di un’autovettura. Pagai il biglietto per due persone e mi sedetti sul sedile anteriore accanto all’autista. 

Avevamo raggiunto la zona di Kota Sangi quando all’improvviso qualcosa colpì ripetutamente il finestrino. Non appena l’autista si fermò per vedere chi era, la polizia morale in abito bianco apparve davanti all’autovettura. Mi fissavano con occhi sdegnosi, come se covassero anni di animosità. Con voce forte e aspra uno di loro disse: “Mettiti il ​​chador”. Sei seduta sul sedile anteriore vestita così?!” Portai rapidamente la mano alla testa, temendo che il mio chador fosse caduto senza che me ne accorgessi, ma invece era solo scivolato leggermente indietro, rivelando alcune ciocche dei miei capelli. Quello alzò di nuovo la voce, sostenendo che questo chador era sottile, e ordinandomi di buttarlo via. 

All’inizio ero terrorizzata, ma poi la paura si è trasformata in risentimento. Mi hanno accusata nonostante avessi il chador perfettamente a posto, l’hanno definito leggero per avere una scusa per molestarmi. Non tolleravano di vedere una donna seduta sul sedile anteriore dell’autovettura. Traevano piacere dall’umiliarci e tormentarci.

In quel momento mi ribolliva il sangue e volevo dire qualcosa, oppormi a quell’ingiustizia, per chiedere conto dell’oppressione che hanno inflitto a tutte le donne afghane e dei diritti che ci hanno tolto. Tuttavia mi sono ricordata di quella ragazza che i talebani avevano pubblicamente frustato per il suo abbigliamento; o di quella ragazza del nostro quartiere che le forze talebane hanno messo in un Ranger, portata alla loro base con la scusa del suo hijab e rilasciata dopo settimane di prigionia e torture. 

Mi hanno messa a tacere, nonostante i miei desideri. Ma credo che un giorno ci libereremo dall’oppressione di questo gruppo ignorante e il nostro Paese sarà libero. Tutte le donne afghane reclameranno i loro diritti naturali e islamici, tra cui l’istruzione e il lavoro”.

 

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