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La fuga di una vita

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Il racconto di una donna ex ufficiale dell’esercito fuggita dai talebani

Gholam-Hossein Elham, Zan Times, 12 settembre 2023

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La fuga di Mahbooba Mohammadi dai Talebani è stata così epica da evocare le “Sette prove di Rostam”. Originaria di Mazar-e-Sharif, aveva 20 anni quando si è arruolata nell’esercito nella primavera del 2016. Non avendo conoscenze o sponsor che potessero aiutarla a fare carriera, è finita nella sezione della riserva attiva e poi nella divisione di reclutamento dell’esercito, prestando servizio a Mazar-e-Sharif e Kabul. Mentre era nell’esercito, Mohammadi è diventata la custode della sua famiglia di sette persone, poiché i problemi mentali non consentivano al padre di svolgere questo ruolo.

 Anche se alcuni dei suoi colleghi maschi hanno disertato o abbandonato i loro incarichi quando il governo è crollato prima della presa di potere dei Talebani, lei ha continuato a lavorare. “Fino agli ultimi istanti della caduta del governo, a metà agosto 2021, non mi sono tolta l’uniforme militare”, racconta. A quel punto, il suo grado era di tenente, anche se lavorava come capitano.

Come la maggior parte degli afghani, Mohammadi è stata colta di sorpresa dalla caduta del governo, che ha sconvolto la sua vita.

Il giorno in cui la provincia di Balkh è caduta in mano ai Talebani, si trovava nel suo ufficio a Mazar-e-Sharif. La notizia l’ha talmente stordita che per giorni non è riuscita a credere che il governo fosse crollato. Essendo un ufficiale militare donna del vecchio governo, è rimasta a casa per paura di essere identificata o arrestata dai talebani. Se doveva uscire, indossava un velo integrale o un chador e a volte si spostava da sola o con la famiglia.

 

La fuga in Iran

Dopo tre o quattro mesi di clandestinità e paura sentì che non poteva più continuare a vivere in quel modo. Decise di andare in Iran, anche se la sua famiglia si opponeva alla sua decisione. Dopo tre giorni e tre notti di cammino, è arrivata nella provincia di Nimruz e, con altri, si è avvicinata al confine con l’Iran. Tuttavia, gli ostacoli al confine e gli spari delle guardie di frontiera iraniane li costrinsero ad abbandonare il tentativo di attraversamento e a tornare nella provincia di Nimruz.

“A causa del lungo cammino attraverso terreni rocciosi e difficili, i miei piedi e le mie mani erano completamente ricoperti di vesciche e le spine mi avevano trafitto tutto il corpo. In seguito ho dovuto estrarre le spine dal mio corpo per molto tempo”, racconta Mohammadi. È rimasta a Nimruz per tre settimane. Poi, temendo di essere identificata, è tornata a Mazar, dove ha tentato nuovamente di entrare in Iran.

Questa volta per ottenere un visto iraniano ha pagato una società di servizi di viaggio e visti. Il 26 febbraio 2022, pur temendo che i talebani riconoscessero il suo nome, si è recata all’aeroporto di Mazar-e-Sharif e si è imbarcata su un aereo per l’Iran.

Una volta lì, ha trovato lavoro in una fabbrica di scarpe e poi in un laboratorio di ricami. Non potendo trovare un riparo adeguato, Mohammadi dormiva di notte all’interno delle fabbriche e rioccupava lo spazio di lavoro prima dell’arrivo degli operai al mattino. Dopo cinque mesi in Iran, ha deciso di intraprendere un’altra strada rischiosa: entrare clandestinamente in Turchia. I trafficanti promettevano di portare lei e i suoi connazionali, alcuni con famiglia, in Turchia, con passaporti e visti falsi.

 

Le torture in Turchia

Hanno iniziato il loro viaggio dalla città iraniana di Qom. Dopo due o tre giorni di viaggio, trascorsi in tende allestite dai trafficanti in zone montuose, vengono trasferiti in cima a una montagna. Lì vengono consegnati ai curdi iraniani. “Noi siamo ladri e voi ci siete stati consegnati dai trafficanti. Se volete essere liberi, ognuno di voi deve pagarci 5.000 dollari”, racconta uno degli uomini.

“Siamo rimasti con questi ladri per circa due settimane. Ci picchiavano continuamente – soprattutto gli uomini – e non ci davano né acqua né pane, solo il necessario per non morire. Hanno persino versato il sangue delle nostre ferite da tortura nel cibo e nel pane e non ci hanno permesso di andare in bagno. In risposta alle nostre suppliche, hanno detto che riconoscevano solo il denaro”, spiega la donna. Mohammadi racconta che i sequestratori scattavano foto e video delle loro torture e le inviavano alle loro famiglie, minacciando di smembrarli e di vendere le loro parti del corpo se non avessero pagato.

Ha tentato di fuggire la mattina presto, mentre tutti dormivano, ma si è rotta il polso in una caduta. I rapinatori l’hanno catturata e sottoposta a ulteriori torture. La sua mano destra rimane gravemente menomata. “La mia mano è guarita malamente e non è completamente funzionante. Non posso nemmeno lavarmi o sollevare qualcosa. Devo lavare i vestiti con i piedi e se lavoro con la mano, la notte mi fa male e mi tiene sveglia”, racconta. Quando Mohammadi e i suoi compagni sono stati salvati dalle forze di sicurezza iraniane, non avevano più nulla. Dopo una settimana nel campo di Sefid-Sang, Mohammadi è stata deportata in Afghanistan, nonostante le sue suppliche perchè temeva per la sua vita.

Alla fine è stata mandata a Herat e, dopo aver trascorso due giorni in una struttura delle Nazioni Unite senza assistenza, è ripartita per Mazar-e-Sharif, da dove era partito il suo viaggio. Temeva di essere fermata dai talebani e sottoposta al rilevamento delle impronte digitali. Era il 19 luglio 2022.

 

Ora in Pakistan 

Dopo quasi un anno di vita a Mazar-e-Sharif, Mohammadi è fuggita ancora una volta. Ha chiesto un prestito e si è recata a Kandahar, dove ha pagato 30.000 rupie pakistane a un rispettabile contrabbandiere che le ha fatto attraversare il confine con il Pakistan. Alla fine di giugno 2023 è arrivata a Quetta, dove non conosceva nessuno. Dopo circa un mese, ha trovato un altro contrabbandiere che l’ha aiutata a raggiungere Islamabad. Ora, nonostante le molte difficoltà, vive in una buia stanza in affitto nella capitale del Pakistan.

Mahbooba Mohammadi si commuove quando parla della sua vita prima della caduta del governo. La sua voce trema quando dice: “Dove eravamo e dove siamo finiti?”. Sebbene sia un po’ sollevata per essere sfuggita alla minaccia sempre presente dei talebani, ora deve affrontare nuove sfide, tra cui l’impossibilità di lavorare, la mancanza di sicurezza, la non conoscenza della lingua e la lontananza dalla sua famiglia.

Anche se non è più la ragazza felice e impavida di un tempo, non rinuncia a lottare per raggiungere una destinazione migliore e più sicura.

Mahbooba è sopravvissuta alla serie delle sette prove, proprio come Rostam, ma ne rimane un’ottava: trovare una vita sicura e stabile in un nuovo Paese, lontano dai problemi della sua terra. La sua ultima ricerca potrebbe essere la più difficile: tornare a una parvenza di normalità.

 

*I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati. Gholam-Hossein Elham è un reporter afghano freelance in Pakistan.

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