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Essere specchio

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L’articolo è pubblicato sul N 1/2023 di MAREA : Trimestrale femminista sul tema del “CORAGGIO” ringraziamo Serena Castaldo che ci ha voluto coinvolgere nel progetto dedicato alle coraggiose donne di RAWA

MAREA N 1/2023, di Serena Castaldo in collaborazione con le attiviste CISDA  Marea 1 2023

 “Le donne Afghane sono leoni addormentati; quando si svegliano possono giocare un ruolo meraviglioso in qualsiasi rivoluzione sociale” (Meena Keshwar Kamal)

“Tante mi hanno detto: ‘Non è il momento di piangere, dobbiamo combattere.” Maryam, attivista di RAWA

Scrivere di coraggio, riflettere su una attitudine (o comportamento) potenzialmente universale, conduce immediatamente il pensiero a una biforcazione, sui sentieri della differenza tra maschile e femminile: esibizione muscolare, competizione, virtus, dispiegamento visibile della forza fisica e psicologica, prestazionale, sono le forme del coraggio che definiscono tradizionalmente il comportamento socialmente atteso per il maschio, talvolta rigonfiato di retorica di varia natura. Talvolta correlativo di prevaricazione, compagno stretto della sfida, base per l’eroismo. E opposto alla pavidità femminile (si dice ancora oggi ai bambini “Ti comporti come una femminuccia…”).

Il coraggio non entra invece nel bagaglio dei valori su cui si misurano i modelli di comportamento femminile, quelli che si insinuano anche subliminalmente nell’educazione delle bambine, tramite apprendimento diretto o tramite il lavoro indefesso svolto dai media, dal mercato, dai social. Il superamento del limite della paura, riconosciuto in un corpo femminile, viene simbolizzato attraverso una assimilazione al maschile: una ragazza che usi il suo corpo, sprezzante dei limiti, viene definita “ragazzaccio”.

Il coraggio femminile ha altri riferimenti valoriali rispetto al maschile: antiretorico, non coltivato come valore e fine, spesso non riconosciuto come tale, derivato piuttosto di necessità, desiderio, scelta.

La madre coraggio è figlia della necessità estrema, colei che lotta per la sopravvivenza (non tanto sua, ma in primis della prole): penso alle donne migranti in misura superiore agli uomini, che affrontano coraggiosamente l’incognita spaventosa della partenza, col loro fardello di disperazione e responsabilità.

Sfidanti le convenzioni di genere, sulla base di un desiderio, sono state le donne che in ogni tempo hanno concepito un progetto, un’idea di società, di relazioni, di umanità e si sono spese fino alla morte per realizzarlo (impossibile cedere alla tentazione di fare esempi senza cadere in infinite lacune…)

Oltrepassare il crocevia della scelta implica coraggio: penso innanzitutto all’esperienza caratterizzante ed esclusiva del corpo femminile, la maternità. Scegliere la riproduzione e affrontare il ruolo di madre richiede quanto mai prima una scelta coraggiosa, per motivi differenti e ovunque si collochi geograficamente la concretezza di un esempio; altrettanto coraggio richiede, ancora oggi, la scelta opposta, quella non ancora descritta da un sostantivo ma solo da un’azione negata: non essere madre, non riprodursi.

Dal corpo riproduttivo al corpo violato: tra le “esperienze” del femminile, la più tragica, con sfumature che vanno dall’insulto e spintone allo scempio sul cadavere. L’esito disperante di questi anni, in cui la violenza maschile a carico delle donne ha progressione esponenziale, senza limiti geografici, di età, di classe sociale, è che pure la scelta coraggiosa di denunciarla spesso non protegge le donne, né previene le morti.

La violenza maschile su mogli, compagne, partner si concretizza con precisione chirurgica quando le stesse compiono le proprie scelte, inerenti la propria libertà e autodeterminazione: interrompere una relazione inquinata da violenza diventa una scelta coraggiosa, in contesti così definiti.

Agire per la propria libertà e autodeterminazione riassume in sé le istanze di necessità, desiderio, scelta: ed è sempre ricerca di una via d’uscita dall’oppressione (quella di un modello di comportamento, di un’aspettativa sociale, della mancanza di mezzi e condizioni per “il pieno sviluppo della persona umana”, come recita la Costituzione italiana…).

In questi termini il coraggio femminile diventa corollario imprescindibile di ogni atto politico tendente a ristabilire condizioni di riconoscimento e tutela di diritti, quando un’azione di lotta, di rivendicazione, si propone alla ribalta pubblico-mediatica affrontando tutti i rischi che la condizione di pubblicità può comportare, secondo i contesti.

La mia opinione è che la forma attuale del coraggio, la sua specificità nell’azione politica femminile, sia la tenacia, la continuità, la resistenza nel tempo anche a dispetto di ogni tentativo di repressione, di oblio e oscuramento mediatico, di boicottaggio silente o esplicito; anche a fronte di esiti incerti, o certamente “perdenti”.

La resistenza contro la paura, tra i più potenti mezzi di controllo messi in atto nelle società e sulle persone.

Vedo, in questa tenacia e costanza, la forza biologica, prelogica e preverbale, del vivente, di qualsiasi specie, che contrasta le spinte mortifere dell’oppressione, dell’occultamento, del soffocamento.

Cercando un esempio concreto di questa forma di coraggio, incarnato al femminile, è stato facile arrivare in Afghanistan, dove la resistenza delle donne nella loro lotta per i diritti fondamentali è atto politico che sfida i limiti della paura, si incarna in un corpo collettivo, con conseguenze che includono la possibilità di perdere la vita. Le vicende occorse dall’agosto 2021 sono note, mentre proprio negli ultimi giorni del 2022 la repressione delle libertà femminili da parte del cosiddetto governo talebano si è insinuata negli spazi residui, con il divieto di accesso agli studi universitari e di lavorare presso le ONG impegnate nel paese.

Una parte importante della resistenza femminile afghana organizzata è rappresentata dall’associazione Rawa (Revolutionary association of the Women of Afghanistan), che dal 1977 è impegnata politicamente a difesa dei diritti delle donne e dei diritti sociali L’obiettivo di RAWA, è quello di coinvolgere un numero crescente di donne afghane in attività sociali, perché prendano consapevolezza dei propri diritti; RAWA lavora da sempre in clandestinità1.

La voce delle donne afghane in Italia è rappresentata dal Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, CISDA, una realtà femminista attiva nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane sin dal 19992. Le attiviste di CISDA rispecchiano la resistenza di RAWA rappresentandola, anche laddove, come in Italia, non è facile ottenere attenzione e partecipazione su di una realtà di non immediato interesse. In questo senso, portano avanti un’azione altrettanto coraggiosa di promozione e divulgazione dell’agire politico femminile. A partire dagli spunti fin qui esposti, sviluppiamo insieme una riflessione sulla loro esperienza, tentando un testo a più mani.

Scrivono le attiviste CISDA: La relazione tra CISDA e RAWA inizia oltre vent’anni fa, con i primi incontri con le attiviste afghane; subito abbiamo trovato donne con un punto di vista documentato, critico e costruttivo sull’Afghanistan e la situazione internazionale, sempre interessante per le istanze politiche, sociali e umane emerse, utile per riflettere anche sulle nostre società.

E’ interessante sapere come le stesse protagoniste della resistenza in Afghanistan concepiscono le loro azioni, se con un’accezione di valore oppure in termini di necessità; se ritengono di poter essere modello per altre donne in condizioni analoghe… Non crediamo che si ritengano un esempio di coraggio, perché spesso si confrontano con altre realtà di donne nel mondo, come le donne iraniane, ma capiscono la diversità della società afghana dove loro operano. Sono donne coraggiose, ma non sprezzanti del pericolo. Spesso abbiamo chiesto loro se avessero paura e la risposta è sempre stata che certo avevano paura, ma vista la loro realtà quotidiana non potevano fare altrimenti, perché l’alternativa è di morire chiuse nelle loro case/prigioni.

Ancora sulla loro percezione di sé: essere resistenti di fronte ad un potere così violento dà loro la consapevolezza di essere “speciali”… Secondo noi sono donne “speciali”, in relazione all’idea che abbiamo in Occidente delle donne afghane, cioè sottomesse, che non si ribellano alla cultura misogina e oscurantista del loro paese. Ma proprio la tenacia delle donne di RAWA e il loro coraggio nel cercare di coinvolgere le altre donne e portarle attraverso la pratica quotidiana, l’aiuto, ad affrontare i loro bisogni, a capire che anche per le donne esistano dei diritti, le rende per noi “speciali”.

Non abbiamo mai avuto l’impressione che cedano all’autocommiserazione o che siano sopraffatte dall’impotenza. Poche settimane fa, durante un incontro, ci hanno elogiate  per il nostro sostegno alla causa afghana, perché – secondo loro – è molto difficile sostenere lotte di cui forse nessuna di noi potrà vedere un esito positivo.

Noi del CISDA non crediamo di essere particolarmente coraggiose. Forse siamo tenaci, continuando a non far dimenticare le nostre compagne afghane e a sostenere la loro attività. Il nostro solo coraggio è quello che le compagne afghane ci trasmettono, con la loro scelta di vita. Essere la loro voce, senza sostituirci a loro: questo ci chiedono,  parlare del loro lavoro e parlare dell’Afghanistan. Portare la voce, e non essere la voce, di donne vittime di violenza estrema e di un vero e proprio apartheid di genere, ma protagoniste di una forma rivoluzionaria di resistenza: è la pratica femminista più importante che abbiamo imparato, noi attiviste di CISDA, dalle nostre compagne afghane. Il contributo che il CISDA è chiamato a dare è ricordare e sostenere concretamente quel martoriato paese e la resistenza delle sue donne, la lungimiranza del loro messaggio politico in un contesto in cui la guerra infinita, causata dal gioco perverso delle numerose influenze esterne, sottrae loro ogni voce. E’ il contributo che diamo alla lotta delle RAWA. Non possiamo sicuramente dirci coraggiose ma forse, usando una parola ormai un po’ inflazionata, siamo resilienti. Le resistenti sono loro, che rimangono in Afghanistan e tengono accesa la speranza in chi ha la fortuna di trovarsi coinvolto in una delle piccole azioni umanitarie clandestine che sopravvivono alla terribile repressione.

Come attiviste italiane ed europee, conosciamo i rischi della difesa dei diritti anche fuori dell’Afghanistan: le nostre compagne afghane ci chiedono di farlo perché sanno che se l’Europa venisse travolta dall’oscurantismo e dalla repressione dei diritti fondamentali, e della donna in particolare, per loro il buio della repressione sarebbe totale. Per CISDA è diventato quindi fondamentale aprire lo sguardo e la propria azione ad una dimensione femminista transnazionale. In questa dimensione entra in gioco anche una nostra forma di resistenza e di coraggio; qualcosa che abbiamo sperimentato quando Cisda inviò in Turchia nel 2018 una propria delegazione, in solidarietà con la popolazione curda e nel ruolo di osservatori internazionali dello svolgimento democratico del voto. Cristina Cattafesta, presidente di Cisda fino al 2019, venne arrestata il 24 giugno 2018, durante un controllo della polizia nella provincia di Batman. Sulla sua testa pendeva l’accusa di terrorismo. Cristina si è sempre schierata con gli ultimi, con chi soffre ingiustizie, discriminazioni e violenze, dall’Algeria all’Afghanistan fino alla Turchia, senza dimenticare il nostro paese. Il suo arresto ha dimostrato che viviamo momenti bui dove sotto accusa sono coloro che si impegnano nel mondo della solidarietà .

Restare in Afghanistan e lottare per i diritti richiede coraggio e determinazione tanto quanto affrontare la fuoriuscita, nel tentativo di salvare sé, i figli, gli anziani… RAWA ha un punto fermo: essere attivista richiede di essere presente in Afghanistan e lavorare in Afghanistan. Si  può fare l’analisi politica anche da altrove, ma il lavoro di base quotidiano accanto alla popolazione e alla sua componente femminile in particolare, si deve fare stando nel paese, condividendo la vita quotidiana delle afghane e degli afghani. Senza questo radicamento nella realtà locale, qualsiasi analisi politica risulta davvero carente. Dal lavoro politico di base, che parte dall’azione umanitaria che risponde ai bisogni della popolazione, nasce l’analisi politica più lucida e interessante. Le RAWA sono sempre molto informate su tutto quanto attiene anche gli aspetti geopolitici e quindi sulle dinamiche esterne – regionali o globali – che hanno un’influenza sul destino del proprio paese. Sono molto ben organizzate anche per questo livello di analisi ed è sempre interessante confrontare le nostre informazioni con quelle che loro raccolgono ed elaborano sul campo. Per questo le attiviste di RAWA restano in Afghanistan e anche oggi, alla luce delle ultime restrizioni, resteranno o potranno trasferire alcune attività in Pakistan come era avvenuto durante il primo governo talebano negli anni ‘90.

 Ritornando al coraggio, inteso come valore nei modelli maschili, nelle vite di donne con esperienze così drammatiche può diventare parametro di riconoscimento anche di un modello femminile…Non crediamo che il coraggio sia un valore o un parametro di riconoscimento di un modello femminile, forse perché la parola “coraggio”, almeno nella nostra società, porta con sé l’idea di sacrificio e alle donne è sempre stato richiesto di essere pronte a sacrificarsi per la famiglia, per i figli, per la collettività. Per scardinare questo binomio, dobbiamo smetterla di vedere il coraggio in funzione di sacrificio: ma per farlo forse ci vuole “coraggio”.

 Continuare nella resistenza e nella lotta, da parte loro, e nel supporto con  azioni concrete, fino al coinvolgimento delle massime istituzioni europee, da parte vostra, richiede che il coraggio sia alimentato…Per pensare e agire con coraggio non può mancare la fiducia nelle persone in carne e ossa. Che sia la nuova generazione, a cui le donne di RAWA destinano ogni sforzo perché sperimenti la libertà, la bellezza, la sapienza, l’energia per crescere con gli antidoti all’oppressione. Che siano i bambini, maschi e femmine, ma soprattutto le ragazze e le donne, uniche possibili protagoniste della propria liberazione. Incredibilmente, le nostre compagne di RAWA coltivano la fiducia anche in noi: persino nella gente comune dell’Occidente, che – nonostante la tanto sbandierata democrazia – non è in grado di fare pressione neppure sui propri governi e sulle scellerate scelte di politica internazionale. “Coraggio”, è come se ci dicessero, quando cerchiamo di comunicare qui in Italia e in Occidente quel punto di vista così scomodo, che è la feroce lettura delle relazioni di genere e internazionali, in cui le donne sono cancellate. L’accettazione internazionale di uno stato di fatto. Se loro non si arrendono, nemmeno noi dobbiamo arrenderci. Possiamo farla finita con la complicità a questo sistema e diventare finalmente essere umani, come loro. Si fidano di noi, pur senza farsi illusioni: questo ci dà autentico coraggio.

1.Per approfondire la storia e la conoscenza dell’associazione RAWA, si può consultare il sito www.rawa.org

2. Per approfondire la conoscenza del CISDA, si può consultare:  https://www.cisda.it e https://www.osservatorioafghanistan.org

È a Milano la centrale della solidarietà alle donne afgane contro l’oppressione talebana: scuole segrete e rete clandestina

 

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