Come fotografie sbiadite all’orizzonte
Nell’Afghanistan dei talebani il dramma delle donne e dei loro diritti calpestati
Isabella Piro, Osservatore Romano, 1 dicembre 2023
Scompaiono a poco a poco all’orizzonte, quasi fossero fotografie sbiadite dall’usura del tempo. Sono le donne in Afghanistan, là dove il ritorno al potere dei talebani, nell’agosto 2021, ha causato una vera e propria ondata di restrizioni contro il genere femminile. Almeno 80, finora, le norme varate per limitarne libertà e diritti. Alle donne sono preclusi l’istruzione secondaria, l’accesso al mondo del lavoro, la possibilità di uscire di casa da sole. Non possono usare i mezzi pubblici, entrare nei parchi cittadini, truccarsi o indossare i tacchi. La loro è una vita limitatissima, anzi claustrofobica, una sorta di incubo soprattutto per coloro che risiedono nelle zone rurali, vale a dire nella maggior parte del territorio afghano.
La guerra dei talebani contro le donne
Già lo scorso mese di maggio, Amnesty International e la Commissione internazionale dei giuristi avevano diffuso un rapporto intitolato “La guerra dei talebani contro le donne: il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere in Afghanistan”. Nel documento, si chiedeva che «le gravi limitazioni e l’illegale repressione dei diritti delle donne e delle bambine da parte dei talebani» nel Paese venissero «indagate come possibili crimini di diritto internazionale, tra i quali il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere». Al contempo, si ipotizzava che «gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, potessero processare i talebani sospettati di crimini di diritto internazionale». In effetti, la situazione attuale è drammatica: «Le donne sta scomparendo piano piano dalla società, sono come foto sbiadite all’orizzonte — spiega a «L’Osservatore Romano» Simona Lanzoni, vicepresidente della Fondazione Pangea che dal 2002 lavora per favorire lo sviluppo economico e sociale delle donne —. Per questo, chiediamo che ogni governo che si definisce democratico non riconosca i talebani finché alle donne non sarà concesso di partecipare alla vita pubblica. Se passa che tutto questo è normale, infatti, allora passa un messaggio pericoloso per tutti. La lotta per i diritti delle donne afghane, in sostanza, è una lotta che riguarda i diritti di tutte le donne del mondo». A destare preoccupazione è anche la condizione dei bambini: «Il Paese è alla fame — continua Lanzoni — e sono aumentati i tassi di mortalità delle donne e dei neonati al momento del parto, anche perché quando muore una madre, suo figlio ha scarsissime possibilità di sopravvivere. È un’infanzia negata». Alla vicepresidente di Pangea fa eco Huma Saeed, ricercatore sui diritti umani nata in Afghanistan: «La grave crisi umanitaria che vive il Paese si ripercuote pesantemente sui bambini. A causa dell’alto tasso di povertà, molti di loro sono costretti a lavorare sin da piccoli per contribuire al sostentamento della famiglia, oppure vengono venduti per consentire ai genitori di guadagnare qualcosa». La tratta dei minori, spiega Saeed, ha per scopo soprattutto «i matrimoni forzati di ragazzine di 12 o 13 anni, ma è ipotizzabile che riguardi anche il traffico di organi, anche se su questo aspetto è più difficile avere dati p re c i s i » . L’appello del ricercatore, dunque, è che il mondo non si giri dall’altra parte: «Pur essendo un momento storico complesso a livello globale, con tanti conflitti in corso, non ci si deve dimenticare dell’Afghanistan — chiede Saeed —. Soprattutto, il governo talebano deve essere disconosciuto dalla comunità internazionale, perché esso mette in atto la discriminazione di genere e la violazione dei diritti fondamentali di donne e bambini (ovvero di più della metà della popolazione afghana) e questo è un crimine». Infine, «bisogna trovare il modo di sostenere la popolazione adeguatamente, facendo in modo che gli aiuti esterni arrivino con certezza ad essa e non finiscano, invece, nel vortice della corruzione».
Una piccola luce di speranza
Intanto, ogni giorno la vita delle donne afghane è a rischio, «anche nel compimento di piccoli gesti quotidiani», sottolinea Graziella Mascheroni, presidente del Cisda (Coordinamento italiano donne afghane), e questo comporta, nell’universo femminile, «un aumento vertiginoso dei disturbi mentali, della depressione e dei suicidi». Per questo, in collaborazione con Rawa, (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane), fondata negli anni ’70 e molto attiva nel campo politico-sociale, il Cisda sostiene diversi progetti di empowerment delle donne: «Cerchiamo di incrementare la loro istruzione — continua Mascheroni —; supportiamo un’unità medica mobile che raggiunga i villaggi più lontani, là dove le donne non hanno assistenza sanitaria; sosteniamo il piccolo artigianato, come i corsi di taglio e cucito, per consentire alle giovani di contribuire al sostentamento delle loro famiglie».
Tra i tanti progetti portati avanti dal Cisda, tuttavia, ce n’è uno che la presidente cita con particolare emozione: è il programma denominato “Giallo fiducia” che riguarda la coltivazione dello zafferano nella provincia di Herat ed è accompagnato anche da un corso di alfabetizzazione per le donne. Mascheroni ne parla con particolare soddisfazione, perché tra le tante, troppe ombre che oscurano l’Afghanistan, esso rappresenta una luce; piccola, ma pure sempre una luce. «L’ultima volta che sono stata a Herat era il 2019 — racconta — e ho visitato proprio la sede di questo progetto, dove ho visto donne veramente entusiaste di avere un lavoro e di poter sostenere i propri cari. Una di loro mi ha detto che desiderava diventare a sua volta imprenditrice: voleva chiedere al fratello di utilizzare un campo di famiglia per coltivare lo zafferano, coinvolgendo anche altre donne. In pratica, come era stata aiutata lei, così voleva aiutare le altre». «E questo — conclude Mascheroni — mi è sembrato un bellissimo segnale di speranza per tutte».
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