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Sette ong sospendono l’attività in Afghanistan dopo il bando talebano sul lavoro delle donne

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Un altro duro colpo alla poca libertà che ancora avevano le donne in Afghanistan

Huffpost, 26 dicembre 2022  

L’ultimo schiaffo talebano ai diritti delle donne, che non possono nemmeno più lavorare nelle ong, ha scatenato un putiferio di reazioni critiche che il regime stenta a soffocare, con manifestazioni andate in scena addirittura nella città simbolo dei fondamentalisti islamici afghani, Kandahar.

Sabato scorso le ong locali e internazionali presenti nel Paese, che si occupano principalmente di assistenza e fanno filtrare gli aiuti alla popolazione, hanno ricevuto una nota siglata dal ministero talebano dell’Economia che disponeva di non far lavorare più le donne. “Ci sono state gravi lamentele sul mancato rispetto dell’hijab islamico e di altre norme e regolamenti relativi al lavoro delle donne nelle organizzazioni nazionali e internazionali”, recita la direttiva del ministero.

Un dicastero strategico perché responsabile dell’approvazione delle licenze per le ong, che infatti minaccia la cancellazione dei permessi alle organizzazioni che non dovessero rispettare la nuova direttiva.

Nell’arco di 48 ore sette delle principali organizzazioni internazionali presenti in Afghanistan sono state costrette a chiudere le attività o a ridurle al minimo. “In attesa che questo annuncio venga chiarito, sospendiamo i nostri programmi chiedendo che uomini e donne possano ugualmente proseguire nel salvare vite umane”, hanno scritto in un comunicato congiunto Save the Children, il Norwegian Refugee Council e Care International. A loro si sono uniti l’International Rescue Committee, che annovera oltre tremila afghane nel proprio staff, Christian Aid e Action Aid, mentre l’Islamic Relief ha sospeso tutte le attività non essenziali denunciando che il bando “avrà un impatto umanitario devastante su milioni di persone vulnerabili

Unanime la condanna della diplomazia internazionale, dall’Onu all’Ue, dagli Usa all’Italia, che tramite la Farnesina ha espresso “forte preoccupazione” per una decisione “inaccettabile e contraria ai principi del diritto umanitario”, mentre la Germania chiede “una chiara reazione” e la Francia parla di “oscurantismo”.

Il portavoce talebano ha rinviato le critiche al mittente, prendendo di mira in particolare – in un raro tweet in inglese – l’incaricata d’affari degli Stati Uniti per Kabul, Karen Decker: “I funzionari americani dovrebbero smetterla di interferire nei nostri affari interni. Chiunque voglia operare nel Paese è obbligato a rispettare regole e regolamenti. Non consentiamo a nessuno di dire sciocchezze e di minacciare i nostri leader sotto l’ombrello degli aiuti umanitari”, ha scritto Zabihullah Mujahid rispondendo alle critiche della diplomatica statunitense.

Ma quest’ultima mossa dei talebani rischia davvero di incendiare le polveri della protesta in un Paese dilaniato dalla devastante crisi economica e umanitaria. Sabato sera sono andate in scena le proteste, questa volta non solo delle donne: a Herat, dove in serata un corteo di donne che protestava contro il bando alle università era stato disperso con i cannoni ad acqua, a mezzanotte in centinaia si sono affacciati da finestre e balconi per intonare ‘Allahu Akbar’ in segno di solidarietà con le studentesse. E a Kandahar, capitale morale dei talebani, centinaia di studenti maschi hanno boicottato gli esami di fine semestre all’università Mirwais Neeka. I talebani “hanno cercato di disperderci con la forza, abbiamo iniziato a cantare slogan, allora loro hanno cominciato a sparare in aria”, ha raccontato un dimostrante.

Il grido di rabbia si è diffuso velocemente nel Paese, studenti e professori chiedono a gran voce la fine delle restrizioni per le donne in scuole e università, tanto che – a sorpresa – la protesta è finita sui pochi media locali rimasti aperti nonostante la censura e il bavaglio alla stampa.

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