Partorire in un sacco a pelo nell’Europa dei muri e dei reticolati
Un’interessante riflessione sulla doppia discriminazione che vivono le donne migranti e sul loro essere “invisibili”
Celeste Grossi, ecoinformazioni, 5 febbraio 2022
Questa riflessione su Europa donne e migrazioni forzate, per la quale sono debitrice alle Donne in nero di Udine; la rivolgo prima di tutto a loro, ma anche agli uomini che hanno scelto di camminarci accanto, senza annullare la nostra identità di genere, e sapendo bene che le donne migranti vivono una doppia discriminazione.
Nel «discorso pubblico occidentale», le donne profughe e richiedenti asilo soffrono di una «particolare invisibilità», scrivono Ilaria Boiano e Giorgia Serughetti, in Donne senza Stato. La figura della rifugiata tra politica e diritto, Futura, 2021 (pag. 12).
Mentre l’Europa sigilla i propri confini, inasprisce le proprie politiche nei confronti delle persone migranti, continua a crescere, negli ultimi anni significativamente, il numero delle donne in fuga da guerre, persecuzioni, disastri ambientali, da violenze di genere da parte di familiari e di società patriarcali. Si tratta di profughe, rifugiate, richiedenti asilo che rischiano di diventare “invisibili”, se nelle analisi sui fenomeni migratori del nostro tempo permane un unico punto di vista quello maschile.
L’invisibilità risale alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato nella quale non erano contemplate le persecuzioni fondate sul genere. In successive risoluzioni sovranazionali sono stati inseriti indirizzi migliorativi. Ma il grave limite culturale e giuridico della Convenzione del 1951 continua ancora oggi a ispirare le autorità chiamate a valutare le richieste d’asilo che continuano a non considerare la specifica discriminazione di genere a cui le donne sono sottoposte nei Paesi di provenienza, lungo i difficili percorsi del viaggio verso l’Europa, all’arrivo in territori stranieri.
In queste sedi istituzionali di verifica delle domande di protezione internazionale viene troppo spesso ancora adottato un «paradigma androcentrico come parametro universale» (si legge ancora in Donne senza Stato, pagina 17), che porta a decisioni particolarmente escludenti per le donne. Anche in sede di valutazione delle richieste d’asilo, le donne vengono costrette in un ruolo femminile stereotipato, che annulla le differenze individuali, di nazionalità, di ceto sociale e “razza”, spesso appendici di mariti, padri, fratelli, considerate vulnerabili, non come condizione umana universale, ma per il genere cui appartengono. Questa presunta debolezza congenita delle donne contribuisce alla loro rappresentazione nell’immaginario collettivo e nella comunicazione mediatica di donne come vittime e non tiene conto che quelle che intraprendono un percorso migratorio in cerca di un futuro migliore per sé e per i figli sono spesso donne assai forti. Le profughe e le rifugiate vengono confinate nell’ambito dell’assistenza umanitaria, non riconosciute per il loro progetto di vita, per le scelte compiute, ostacolate nella loro capacità di esprimere, in quanto donne migranti, una critica radicale al sistema dei confini e degli Stati nazione. Insomma sottoposte a un processo di depoliticizzazione.
Donne senza Stato è un libro che aiuta a capire e riflettere sulla particolare condizione delle donne senza sorvolare sulla pericolosa china verso cui si sta avviando l’Unione Europea.
Sono lontani i tempi dell’ambizioso progetto politico che portò alcuni stati alla fine della seconda guerra mondiale a sottoscrivere solennemente documenti fondativi che garantivano la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone. In questo inizio di 2022 constatiamo l’abbandono di quei principi e di quei valori. L’Europa è oggi attraversata da una profonda dicotomia: garantisce l’esercizio dei diritti ai “propri” cittadini e cittadine, li nega alle persone straniere che giungono ai suoi confini. Alcuni Stati membri procedono alla costruzione di muri e di reticolati, senza incontrare impedimenti da parte delle istituzioni centrali, l’Unione rafforza alcune scelte “strategiche”: sigilla le proprie frontiere esterne, impedendo gli arrivi di profughi e richiedenti asilo ed esternalizza a paesi terzi la gestione di questa moltitudine impoverita di migranti, grazie ad accordi pattuiti con governi dispotici e violenti come quelli della Turchia e della Libia, a cui vengono trasferite somme di denaro assai ingenti; allestisce grandi campi di confinamento dei migranti fuori e dentro i propri confini, campi come quello di Lipa in Bosnia o quello di Moria nell’isola di Lesbo, in cui le persone sono trattenute per un tempo indefinito, private di fatto della loro libertà di spostamento, in una sospensione dell’esistenza, dei diritti, costrette in condizioni di umiliante sopravvivenza; legittima i respingimenti alle proprie frontiere interne ed esterne effettuati da alcuni Stati fra cui la Slovenia e la Croazia (e fino a un anno fa l’Italia) che ricacciano indietro profughi in fuga da guerre e persecuzioni, negando loro l’accesso al diritto d’asilo, innescando quelle violentissime “riammissioni informali” da Paese a Paese, fino in Bosnia, come è accaduto negli ultimi anni lungo la Rotta balcanica.» [Donne in nero di Udine]
Al confine tra Polonia e Bielorussia abbiamo recentemente assistito alla regressione dello stato di diritto nell’Unione Europea. Poche migliaia di uomini, donne e bambini, molti dei quali provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan, in cerca di protezione internazionale, sono stati brutalmente respinti dal governo polacco, abbandonati in una condizione di assoluto bisogno, mentre venivano sanzionate le manifestazioni di solidarietà messe in atto da singole persone, reti della società civile, ed era impedito l’avvicinamento di occhi testimoni come quelli di giornalisti ed europarlamentari. Nessuna censura nei confronti della Polonia è stata decisa dalla Commissione Europea che così accetta meccanismi di disumanizzazione e inferiorizzazione delle persone migranti, le cui vite – in terra e in mare – sono rese invisibili, private di qualunque valore e dignità. Non sono numeri, sono uomini e donne e per le donne è tutto ancora più difficile.
«Ai margini di un bosco, in un territorio militarizzato, una donna migrante, assistita dal marito e dal figlioletto di quattro anni, partorisce di nascosto in un sacco a pelo, con il terrore di essere scoperta dai soldati. Il cordone ombelicale viene stretto con un laccio e poi tagliato con i denti. Siamo in Polonia, stato dell’Unione Europea, al confine con la Bielorussia. La mamma e il neonato si salvano, grazie all’intervento di alcuni attivisti medici che perlustrano i boschi a ridosso della frontiera per assistere i migranti in difficoltà, contravvenendo al divieto deciso dalle autorità polacche di soccorrere i profughi.» [Dal reportage della sociologa polacca Izabela Wagner, pubblicato il 10 dicembre 2021 su il manifesto].
È una storia emblematica, neppure la più crudele. È una storia che interroga tutte e tutti. Non giriamo lo sguardo.
[Celeste Grossi è dirigente dell’Arci, coordinatrice provinciale di Sinistra Italiana, Donna in nero]
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