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«Non andranno più a scuola. Con i talebani, tradita la promessa sui diritti delle ragazze»

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Corriere.it Viviana Mazza – 10 aprile 2022

Nadia Hashimi, scrittrice americana di origini afghane , sulla “beffa”della finta riapertura: «Le donne hanno provato a ribellarsi, ma al governo ci sono i terroristi»

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Un gruppo di ragazze di una scuola a Kabul: le scuole femminili, riaperte dai talebani il 23 marzo, sono state chiuse poche ore dopo con la scusa che le divise delle alunne dovevano essere cambiate (foto Afp via Getty images)

«I talebani avevano detto che, all’inizio del nuovo semestre dopo il primo giorno di primavera, avrebbero permesso il ritorno a scuola alle ragazze dalla prima media in su. Così, per 175 giorni, le ragazze hanno aspettato. Il primo giorno di scuola, il 23 marzo, alcune di loro si sono presentate: finalmente il momento era arrivato. Molte sono state mandate via. I talebani avevano cambiato idea. Hanno trovato scuse come quella che bisogna pensare a una divisa appropriata. Sciocchezze. Non c’è niente che non avrebbero potuto decidere nei passati sette mesi e, comunque, queste ragazze hanno indossato abiti “appropriati” a scuola per tutta la vita, anche prima che i talebani riprendessero il potere».

La scrittrice Nadia Hashimi, nata a New York da genitori afghani emigrati negli Anni 70, segue con attenzione la situazione nel suo Paese d’origine ed è coinvolta nell’accoglienza dei rifugiati e nell’insegnamento offerto ai più giovani, arrivati negli ultimi mesi. 

Fa la pediatra, nel 2018 ha tentato la candidatura alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. I suoi sei romanzi – tutti con bambine e donne afghane come protagoniste – sono stati tradotti in Italia da Piemme, l’ultimo questo mese: Le stelle di Kabul . «Scrivo queste storie perché so quanto sia facile dimenticare le donne afghane. Nei primi cinque anni in cui i talebani furono al potere (negli Anni 90 ndr) la comunità internazionale non si preoccupò dell’oppressione subita dalle ragazze e dalle donne. Fu solo dopo l’11 settembre che il mondo ne divenne consapevole e si indignò per la misoginia di questo regime. Anche oggi la maggior parte della gente non sa che alle ragazze continua ad essere vietato frequentare la scuola a partire dalle medie, che di nuovo devono essere accompagnate da un parente maschio per poter viaggiare, che non possono lavorare in molti campi e hanno perso i mezzi di sostentamento. Cerco anche di portare l’attenzione su figure femminili forti: sono stata circondata e ispirata da donne afghane per tutta la vita. Le storie sulle conseguenze della guerra per le famiglie afghane sono vicine al mio cuore, perché riflettono alcune battaglie che i miei parenti hanno dovuto combattere. Vorrei aver potuto leggere storie come queste quand’ero giovane».

Che cosa è successo alle donne dopo che i talebani hanno ripreso il Paese lo scorso agosto? 
«Abbiamo avuto conferma del sospetto che i talebani non fossero cambiati affatto. Ci sono state proteste, le donne hanno opposto resistenza in molti modi — marciando per strada, rifiutando di cambiare il modo di vestire, insistendo nel voler fare le proprie scelte — ma i livelli di questa crisi sono sempre più stratificati: il fatto che i talebani non sono cambiati si aggiunge alla povertà, alla disoccupazione, all’insicurezza economica, a un inverno durissimo. Tutto ciò mentre l’attenzione del mondo è lontana. I talebani hanno interrogato e arrestato molte di coloro che hanno protestato, hanno perquisito le case in piena notte, ucciso persone, dato la caccia a chi era legato al precedente governo e alle forze armate, terrorizzato la popolazione. Ufficialmente, negano tutto. L’onere della prova ricade sulle donne: sono loro a dover dimostrare che siano state commesse atrocità, i talebani non devono dimostrare nulla». 

Che cosa è successo nei luoghi di lavoro? 
«Alle giornaliste, come alle donne impiegate nel governo, è stato detto di non tornare al lavoro. Ho partecipato ad una sessione con una parlamentare che raccontava che, subito dopo la caduta di Kabul, i talebani l’hanno fermata per strada e hanno riso di lei: “Una volta avevi potere, ma non più. Sei troppo giovane per morire, meglio che stai zitta”. In altri impieghi, le donne sono state rimosse con la scusa che gli uffici devono essere resi appropriati perché possano lavorarci». 

«QUANDO GLI AMERICANI NEGOZIAVANO IL RITIRO, LA TEORIA ERA CHE I TALEBANI FOSSERO CAMBIATI: VOLEVANO AVERE LA COSCIENZA PULITA»

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Nadia Hashimi, pediatra e scrittrice, nata a New York da genitori afghani emigrati negli Anni 70. E’ autrice di 6 romanzi, tutti con protagoniste bimbe e donne afghane

Quale reazione ha osservato in America? 

«Quando gli americani negoziavano il ritiro, la teoria era che i talebani fossero cambiati: lo si voleva credere in modo da andar via con la coscienza pulita. Alla fine, abbiamo visto che non era vero, ma ora non è più questione di crederci, è che non c’è interesse a far nulla. Non senti grande indignazione da parte della leadership americana. Gli Stati Uniti hanno cancellato un incontro laterale con i talebani dopo la mancata riapertura delle scuole femminili – un segnale, ma non molto forte. Non ho visto dichiarazioni da parte del presidente americano. C’è grande frustrazione tra le donne afghane, perché nel loro governo siedono terroristi i cui nomi compaiono sulle liste dei ricercati internazionali, eppure vengono trattati come legittime autorità. A gennaio i talebani sono arrivati con tanto di jet a Oslo, per colloqui, mentre le donne e le ragazze afghane non possono viaggiare e lasciare il Paese. Certo, è molto complicato aiutare gli afghani senza legittimare i talebani. Ma credo che non presteremo davvero attenzione a meno che non torni ad essere rilevante per gli Stati Uniti. E questo i talebani lo sanno bene».

È possibile fare pressione per ottenere la riapertura delle scuole? 
«Sarebbe lo scenario migliore, ma bisogna chiedersi pure se gli insegnanti verranno pagati. Altrimenti molte scuole non funzioneranno comunque, ed è un problema che si sta già ponendo con quelle di grado inferiore, maschili e femminili. E poi che cosa studieranno? Scienze, letteratura, o solo religione? Senza contare che, se la gente vive in condizioni troppo misere, non può mandare le figlie a scuola: anche se pubblica, ci sono alcune spese, e in Afghanistan molti bambini lavorano per contribuire al sostentamento della famiglia. I talebani non hanno esperienza nella gestione del governo: il punto non è solo che sono dei criminali, ma che non sono qualificati. Hanno passato la vita a sparare e bombardare, come ci si può aspettare che sappiano costruire scuole e programmi educativi? E infatti i talebani mandano i figli a scuola all’estero — persino le figlie —. C’è molta ipocrisia». 

C’è chi dice che la mancata riapertura delle scuole femminili sia legata al disaccordo tra fazioni dei talebani, alcuni più conservatori di altri. 
«Ho sentito la stessa cosa e non so che cosa succederà alla fine, se ciò poterà ad ulteriori lotte, a un governo più restrittivo o meno. Non so chi vincerà, ma so chi sta perdendo: il popolo afghano, che non ha scelta». 

«LE RAGAZZINE PROFUGHE CHE INCONTRO MI DICONO CHE VORREBBERO DIVENTARE PILOTA O MEDICO, CHIEDONO ESERCIZI DI MATEMATICA»

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Ragazze afghane in classe quando ancora le scuole erano aperte per le donne (Getty)

Lei sta lavorando nell’accoglienza dei rifugiati afghani. Cosa le dicono le ragazze? 

«Ho fatto l’insegnante nei rifugi governativi dove le famiglie attendono di essere ricollocate per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. Quando chiedo alle ragazze che cosa vogliono fare da grandi, rispondono: “pilota”, “medico”, una di loro mi ha chiesto di portarle delle operazioni matematiche con i polinomi. Sono ambiziose e ne sono felice, ma mi spezza il cuore pensare a tutte le loro amiche e compagne con gli stessi sogni e desideri rinchiusi nell’armadio nell’Afghanistan dei talebani».

Il suo nuovo libro è ambientato in un periodo storico precedente ai talebani. Perché? 
«È basato su un evento vero, il colpo di stato dell’aprile 1978, ma la protagonista è inventata. È una ragazza, unica sopravvissuta alla strage nel palazzo presidenziale. Viene tratta in salvo e le dicono: “La tua Kabul non c’è più, non tornerà più”. Purtroppo è quello che sta succedendo di nuovo in Afghanistan. Succede ai bambini e alle madri che incontro: la loro Kabul, tutto ciò per cui avevano lavorato negli ultimi vent’anni, non c’è più. Non possiamo dimenticare che anche gli afghani — non solo gli americani o gli stranieri — hanno lavorato per costruire il Paese in questi anni. La gente mi chiede spesso cos’è successo all’Afghanistan, quand’è che le guerre sono iniziate, che cosa ha portato a tutto questo. Se leggi la Storia, è il risultato delle tensioni della Guerra fredda, negli Anni 60 e 70. Allora sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica aprivano università in Afghanistan, cercavano di portare il Paese dalla propria parte ma l’hanno dilaniato internamente, con il risultato del golpe del 1978 seguito dall’invasione sovietica del 1979. Per capire il dolore degli afghani, bisogna capire che cosa hanno perduto, in passato e adesso».

 

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