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Esecuzioni e povertà nell’Afghanistan dei talebani che non sanno governare

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Pietro Del Re – Repubblica.it – 18 gennaio 2022

Dopo cinque mesi al potere, gli studenti coranici continuano a dare la caccia a chiunque abbia collaborato con gli americani e con la precedente amministrazione, pronti a giustiziare ogni oppositore. Le donne non possono più lavorare ne studiare. Il consumo di droga è esploso. E intanto il Paese sprofonda nella crisi economica, che i nuovi padroni di Kabul non sanno come gestire

bambini afghaniKABUL – Si sono accorciati la barba e, dismesso il mantello nero da briganti, molti di loro indossano oggi l’uniforme mimetica dell’esercito sconfitto. In giro vedi anche meno kalashnikov e nel traffico di Kabul non senti più i loro pick-up sgommare come una volta. Inurbati da sei mesi nella capitale, e da allora incontrastati padroni dell’Afghanistan, i talebani si sono dati una ripulita: passata l’euforia della vittoria, è anche tramontato il bisogno di affermare il loro potere terrorizzando la popolazione civile.

“Ma adesso operano più di nascosto, all’oscuro dei media internazionali agli occhi dei quali vogliono presentarsi con un volto nuovo, più umano e responsabile”, dice Alì Jafari, ex funzionario pubblico, licenziato perché appartenente alla minoranza sciita hazara e costretto a nascondersi per paura di ulteriori rappresaglie. “Sono però rimasti gli aguzzini di sempre, poiché non danno la caccia soltanto agli esponenti della mia etnia, ma a tutti gli ex nemici, e cioè a coloro legati al precedente governo”.

Quanto sostiene Alì Jafari, lo conferma Agha Shireen, pashtun come la maggior parte degli studenti del Corano, ex dipendente del ministero dell’Interno e anche lui ridotto a vivere in clandestinità: “Sono disoccupato dal 15 agosto scorso e da allora continuo a ricevere messaggi in cui mi viene intimato di consegnarmi. Ma se lo facessi mi ucciderebbero, com’è accaduto a una dozzina di miei colleghi”. Infatti, oltre a non aver formato un “governo inclusivo”, come avevano garantito, i mullah stanno tradendo un’altra promessa fatta all’Occidente, quella di non perseguitare chi in passato li aveva osteggiati e, più in generale, chi aveva lavorato con “l’invasore” americano.

“Chiedono a ogni capo distretto la lista di chi ha fatto parte della precedente amministrazione, e poi, siano essi funzionari, poliziotti, soldati o attivisti, li vanno ad arrestare uno per uno. Per questo è da mesi che, ogni giorno, almeno duemila afghani attraversano illegalmente il confine iraniano”, aggiunge Shireen, che da quando è in fuga ha già cambiato sei volte indirizzo. 

I talebani non nascondono invece la volontà di plasmare secondo i loro canoni tribali le donne afghane, diventate dalla scorsa estate cittadine di terz’ordine e da allora vittime di una serie di decreti restrittivi emanati dal nuovo governo. Sono loro il principale bersaglio dei leader religiosi, ma anche la ragion d’essere di questi ultimi, incapaci di mandare avanti il Paese aiutandolo ad attraversare la spaventosa crisi economica che lo funesta. “Non fanno altro che reprimere la nostra indipendenza e la nostra autodeterminazione, con leggi assurde che ci impediscono perfino di uscire e di viaggiare da sole, o che ci proibiscono di studiare e di lavorare”, dice Ameera Abdullah, ventidue anni, studentessa in architettura e una delle poche attiviste che ancora coraggiosamente scendono in piazza in difesa dei diritti delle donne, com’è successo domenica scorsa davanti all’Università di Kabul.

“Gli stessi talebani che hanno chiuso la mia facoltà, c’hanno aggredito tre giorni fa con lo spray al peperoncino. Il che la dice lunga su quanto ci rispettino. Nessuno sa se un giorno ricominceremo a frequentare i corsi universitari, ma molte amiche mie hanno già rinunciato a proseguire gli studi. A che serve laurearsi, dicono, se poi non potrai mai svolgere il mestiere di architetto?”. 

Prima di andar via, Ameera Abdullah ci tiene a denunciare due inquietanti novità nella Kabul talebana: l’aumento del numero di tossicodipendenti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d’ora; e, soprattutto, l’improvvisa impennata di casi di violenza domestica, di cui le attiviste vengono a conoscenza solo grazie al passaparola. “È vero, la nostra è da sempre una società patriarcale ma fino alla caduta di Kabul le donne picchiate dai loro mariti potevano bussare alle porte di un commissariato e denunciarli. Oggi, non più. Sono reati che restano per lo più impuniti”.

Parliamo di queste terribili realtà con il portavoce del governo, Belal Karim, che ci riceve nel suo ufficio nell’ex sede del Tribunale di Kabul. Indossa un elegante turbante nero e ci sorride amabilmente nascondendo sotto la sua folta barba il volto di un trentenne. Con voce melliflua esordisce spiegando che, da quando gli studenti del Corano sono nuovamente al potere, la donna afghana è finalmente al sicuro: “Esce di casa soltanto accompagnata da un membro della famiglia e quindi nessuno può più violentarla. Inoltre, non lavorando più in un ufficio non è più vittima di quei colleghi che le proponevano un salto di carriera in cambio di un favore sessuale”, sostiene Karim con un’ingenuità così disarmante da sembrare in malafede. “Per fermare l’emorragia di nostri concittadini verso i Paesi vicini abbiamo smesso di rilasciare passaporti. Quanto alle ragazze, abbiamo deciso che devono smettere di praticare lo sport perché è immorale e dunque sconveniente”.

Come un politico navigato evita abilmente di rispondere alle domande che non gli piacciono continuando a ripetere che la scorsa estate i talebani hanno riportato la pace in Afghanistan. È il suo mantra. Quando gli chiediamo come pensa il governo di attenuare la spaventosa crisi umanitaria che colpisce il Paese, Karim comincia con l’addossare tutte le colpe di quanto sta accadendo agli Stati Uniti che hanno congelato i fondi della Banca centrale afghana, pari a quasi 8,5 miliardi di euro. “Per superare questo brutto momento chiediamo a tutti i Paesi del mondo di aiutarci. Se lo faranno, sapremo ringraziarli distribuendo concessioni per sfruttare le nostre ricchissime miniere”.

Certo, aiutare l’Afghanistan implica il riconoscimento dei mullah, e cioè di chi è pronto a giustiziare con ferocia ogni oppositore e di chi vorrebbe trasformare tutte le donne in schiave domestiche. Perciò in Occidente sono in molti a pensare che, volendo rispettare le regole universali dei Diritti dell’uomo, i talebani vadano trattati come dei paria. Ma com’è possibile, attenendosi alle stesse regole, non intervenire di fronte al gelo e alla fame che hanno già cominciato a uccidere i più deboli? E non è illusorio credere che punendo i talebani non si infierisca soprattutto sul popolo afghano? Dice Fahim Sadat, analista politico riuscito a fuggire lo scorso agosto in Germania: “I negoziati potranno riprendere una volta finita l’emergenza. Ma adesso le nazioni più ricche del pianeta devono al più presto trovare i 4,3 miliardi di dollari necessari, secondo l’Onu, a salvare l’Afghanistan e a sconfiggere la carestia”. 

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