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È partita la caccia dei talebani

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Le donne che hanno prestato servizio nell’esercito afgano chiedono aiuto, mentre i talebani danno loro la caccia casa per casa

George Packer –The Atlantic – 10 marzo 2022

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Forse vi siete persi la dichiarazione dei talebani sull’invasione russa dell’Ucraina. “L’Emirato islamico chiede moderazione da entrambe le parti”, hanno annunciato i nuovi governanti dell’Afghanistan il 25 febbraio. Hanno enfatizzato la “neutralità diplomatica”, esortando al “dialogo” e chiedendo che “tutte le parti desistano dall’assumere posizioni che potrebbero intensificare la violenza”. Ma il giorno in cui è iniziata la guerra, con il mondo distratto dall’invasione di Putin, i combattenti talib hanno iniziato ad andare di casa in casa a Kabul all’inseguimento dei presunti nemici del regime. Gli obiettivi sono gli afgani che hanno prestato servizio nell’ex governo o nell’esercito, in particolare membri delle minoranze etniche hazara e tagika. La caccia si sta diffondendo in tutto il Paese, mettendo in pericolo la vita di migliaia di afgani.

Nei giorni scorsi ho parlato per telefono ed sms con sei giovani donne in Afghanistan, ex soldate o agenti di polizia. Tutte loro scappano per salvarsi la vita e si nascondono, sia a Kabul che nelle province d’origine. Fatima, che ha 26 anni, vive con i suoi genitori, la sorella e la nonna in un quartiere prevalentemente Hazara della capitale afgana. (Per la loro sicurezza, ho cambiato la maggior parte dei nomi delle donne.) Lunedì, i talib hanno perquisito le case vicino alla sua, confrontando le carte d’identità degli occupanti con i nomi di un database informatico sequestrato al vecchio Ministero della Difesa. Fatima temeva che la sua casa sarebbe stata la prossima – sicuramente uno dei suoi vicini aveva dato informazioni su di lei – ed è fuggita con i suoi documenti a casa di un’amica. Martedì i talib sono entrati nella casa della famiglia di Fatima senza permesso. Hanno interrogato i suoi genitori, che hanno negato che Fatima sia stata una militare, a quanto pare il database aveva qualche incertezza sul suo nome. I talib hanno frugato tra gli effetti personali della famiglia, maneggiando i vestiti delle donne e altri oggetti in modo poco rispettoso, lasciando la casa nel caos. Hanno confiscato la bandiera afgana di Fatima e hanno minacciato di tornare.

Quando sono iniziate le perquisizioni Noori (mi ha chiesto di usare il suo vero nome), che ha 22 anni ed è a otto mesi di gravidanza, è fuggita con il marito da Kabul a Bamiyan, nel centro del Paese. Ora sono intrappolati dato che i talebani hanno istituito posti di blocco sulle strade principali e iniziano perquisizioni porta a porta in città e villaggi. “Sento come se tutto si fosse chiuso intorno a me”, mi ha detto Noori. “Ho il terrore di uscire. Non so a chi rivolgermi: è un momento molto buio per noi, non possiamo andare da nessuna parte. Sono sopraffatta dalle emozioni per la paura della situazione e di essere scoperta. Sappiamo cosa succede, quando ti vengono a prendere non è una passeggiata”.

Noori ha venduto la maggior parte dei suoi averi per pagare $ 700 per un passaporto al mercato nero: suo marito non ne ha uno e ora l’ufficio è chiuso. Il viaggio via terra non è praticabile per una donna nelle sue condizioni. L’unica via d’uscita sarebbe l’aereo, ma i talib stanno sorvegliando l’aeroporto di Kabul, rifiutando alla maggior parte degli afgani l’accesso ai pochi voli che lasciano il paese.

Una capitana dell’esercito americano, che chiamerò Alice Spence – l’ufficiale di cui ho già scritto, che l’anno scorso ha aiutato dozzine di donne militari afghane e le loro famiglie a lasciare l’Afghanistan e che sta ancora cercando di aiutarne decine di altre – è in contatto con Noori quasi ogni giorno. Poche settimane fa, Noori le ha chiesto di dare un nome alla figlia non ancora nata.

“Amica mia, mi dai questo grande onore e non me lo merito”, ha scritto Spence. “Dare il nome a tua figlia è un tale onore per me, ma non ti ho aiutata e allora se lo facessi, ogni volta che diresti il suo ​​nome, te lo ricorderesti”.

Noori ha risposto: “No, mia cara, l’umanità è la cosa più importante al mondo e io vedo molta umanità in te; che tu mi abbia aiutato o no, non sarò mai arrabbiata con te”. E ha detto che avrebbe chiamato la figlia come la sua amica americana.

In una foto, Noori si coccola con suo marito, le loro teste unite, i capelli neri aggrovigliati ai suoi. Sembrano ineffabilmente giovani, belli e liberi. Le ho chiesto se sarà possibile raggiungere l’ospedale di Bamiyan quando il bambino nascerà. “A questo punto, mio ​​figlio probabilmente morirà”, ha detto Noori. “Prima di poter arrivare in ospedale, partorirò. Ho il terrore di perdere il bambino partorendo da sola”. Solo il pensiero della sua bambina trattiene Noori dal desiderio di suicidarsi. A volte anche questo non basta. “Questo problema può essere risolto da un medico”, mi ha detto, “ma è difficile vivere qui”.

Mentre Noori si nasconde e aspetta, Spence cerca di incoraggiarla. “Ricorda, anche se non indossi l’uniforme, sei comunque un soldato”, le ha scritto Spence giovedì mattina.

“Sì, mi sento sempre un soldato”, ha risposto Noori. “So che il governo è caduto, ma io non mi sono mai arresa e non lo faccio”.

Le perquisizioni talebane sono condotte con potere assoluto e brutalità casuale. Najibeh, che ha due figli, 9 e 3, quando abbiamo parlato era nascosta in una casa in affitto, mentre i talib dormivano in una moschea vicina in attesa di perquisire il quartiere. Ha descritto come picchiano le persone con fucili e bastoni, distruggono i passaporti che trovano – parte dello scopo è impedire agli afgani inaffidabili di lasciare il paese – e rubano denaro, oro e gioielli. Noori mi ha inviato le foto dei corpi di diverse donne militari uccise pochi giorni fa e lasciate su mucchi di macerie o spazzatura nei vicoli. Una di loro era stata legata con una corda ai polsi e alle gambe.

Un’altra ex militare di nome Mahdieh, di 22 anni, è fuggita dalla sua casa per andare a nascondersi dai parenti. Quando i talib sono andati a casa della sua famiglia hanno portato via suo fratello di 10 anni. È stata una settimana fa e non è ancora stato restituito. “Mio fratello è detenuto a causa mia”, mi ha detto Mahdieh, con la voce rotta. “C’è un modo in cui puoi aiutarlo per tirarlo fuori e metterlo al sicuro? Oppure aiutami a uscire da questa situazione così posso aiutarlo io.” Non può tornare a casa sua, ma i suoi parenti vogliono che se ne vada perché la sua presenza li mette in pericolo. Come le altre donne, Mahdieh non può lavorare, ha pochi soldi e sta finendo il cibo. “Spero che tu possa far sentire la mia voce ai livelli più alti negli Stati Uniti”, mi ha detto, “e ascoltando la mia voce mi aiutino in questa brutta situazione in cui mi trovo”.

Ma gli alti ranghi negli Stati Uniti non stanno ascoltando. Hanno chiuso la possibilità di uscire a Mahdieh, alle altre donne e agli afgani, abbandonandoli al loro destino. Secondo un alto funzionario del Senato (che ha chiesto l’anonimato per mantenere il suo accesso all’Amministrazione), un comitato di deputati del Consiglio di sicurezza nazionale del presidente Joe Biden ha deciso diversi mesi fa di porre fine a tutti gli sforzi per aiutare l’evacuazione degli afgani come loro. Il governo degli Stati Uniti ora aiuta la partenza e il reinsediamento solo dei cittadini americani titolari di carta verde, e degli afgani che hanno quasi completato il processo di ricezione di un visto speciale di immigrazione, riservato a coloro che hanno lavorato direttamente per il governo degli Stati Uniti. (Un avvocato che lavorava all’evacuazione privata ha confermato che la voce su questa decisione arriva da una fonte della Casa Bianca. Il Consiglio di sicurezza nazionale non ha risposto con sollecitudine a una richiesta di commento). “Nell’ultima telefonata che ho fatto con il Dipartimento di Stato”, mi ha detto lo staff del Senato, “hanno stimato in 100.000 le persone in Afghanistan che sarebbero qualificate per immigrare negli Stati Uniti, sia i SIV e le loro famiglie, sia quelli con familiari negli Stati Uniti”. Gli afghani sono “intrappolati in questo folle ciclo infinito”, ha aggiunto. “Per uscire, devi rientrare in uno di questi criteri, ma la determinazione della tua idoneità richiederà anni”.

Ho chiesto se l’amministrazione potrebbe negoziare con i talebani una politica di evacuazione più generosa in cambio dell’allentamento delle sanzioni che hanno contribuito alla crisi umanitaria in Afghanistan. Il personale ha chiarito che l’ostacolo principale non risiede nei talebani. “Anche se abbiamo revocato alcune sanzioni, o fornito accesso alla banca centrale, che è ciò che i talebani vogliono disperatamente in questo momento, anche se abbiamo fatto qualcosa di simile, e i talebani hanno detto ‘Va bene, vattene da qui, vai avanti, se vuoi partire puoi andartene’, tutto ciò non basta, perché è il governo degli Stati Uniti che non deciderà sulla tua idoneità a venire nel nostro paese per anni e anni e anni”. Nel frattempo, donne militari afghane come Noori, Mahdieh, Fatima e Najibeh, insieme a molte altre che si sono messe in pericolo durante la guerra americana, e chi in questo momento viene braccato, arrestato e in alcuni casi ucciso, non ha alcuna possibilità. “Questa è una decisione politica presa dall’amministrazione”, mi ha detto il membro dello staff del Senato. “Non c’è nulla nella legge che limiti o impedisca loro di continuare a fruire del programma umanitario che ha concesso visti statunitensi temporanei agli afgani durante l’evacuazione dello scorso agosto. Ma quella via di fuga dall’Afghanistan è ora chiusa.

“Abbiamo appena concesso la Humanitarian Parole [La libertà vigilata che consente a un individuo di soggiornare negli Stati Uniti per un periodo temporaneo per motivi umanitari urgenti ecc.] a 75.000 ucraini che sono arrivati”, ha detto lo staff. Potranno restare, magari chiedendo asilo anzichè essere costretti a tornare in una zona di guerra. “Sono contento di averlo fatto. Ma l’unica differenza è la loro religione e il colore della loro pelle. Il fatto che non faremo lo stesso per gli afgani è un completo fallimento morale del nostro Paese”.

La maggior parte delle donne che ho intervistato questa settimana hanno cercato di fuggire dal paese quando Kabul è caduta lo scorso agosto, ma non sono riuscite a raggiungere il gate dell’aeroporto attraverso la folla caotica e gli attacchi feroci dei talebani. All’epoca non era del tutto chiaro che l’evacuazione di agosto sarebbe stata praticamente l’ultima possibilità di partire.

Mentre le donne mi raccontavano del loro terrore e della loro disperazione, continuavo a pensare a una donna afgana che era riuscita a uscire dal paese. Alcuni di quelli con cui ho parlato la conoscevano, avevano servito nell’esercito con lei.

Il 15 agosto, la tenente Shakila Nazari, in borghese, stava lavorando alla sua scrivania nell’ufficio legale del ministero della Difesa quando è entrato un collega maschio.

“Perché non te ne sei andata?” ha chiesto. “Alzati; Kabul è caduta. Sei l’unica ragazza qui. Devi andare a casa”.

In totale shock, Nazari chiamò le colleghe. Tutte avevano abbandonato i loro posti. “Perché nessuno mi ha detto di uscire?” Nazari gridò a un amico. “Come potresti andartene senza di me?”

Corse al piano di sotto, superando uomini che si stavano freneticamente spogliando delle loro uniformi. Al primo piano le guardie del ministero avevano chiuso a chiave le porte e impedivano agli agenti in borghese di uscire.

“Kabul è davvero caduta?”, chiese Nazari a un avvocato che conosceva. “Com’è che tutta Kabul è caduta e non ho sentito un solo colpo di pistola?”. “Non sappiamo se è vero”, le rispose. “Forse è un’informazione falsa.”

Gli uomini in borghese chiesero alle guardie di lasciar andare Nazari. Le guardie, che avevano l’ordine di difendere il ministero, cominciarono a gridare: “Che cosa ci succede? Non abbiamo il diritto di andare? Dobbiamo combattere e morire mentre voi ufficiali non fate nulla?

“Nessuno sta combattendo”, disse loro Nazari. “Non ho un’arma.”

Una delle guardie stava piangendo. “Come può essere solo nostra responsabilità combattere e difendere Kabul?”

“Non ho armi per combattere insieme a te”, implorò Nazari, anche lei in lacrime. «Sono l’unica donna rimasta. Se mi trovano, mi uccidono”.

“La faranno a pezzi”, disse l’avvocato alla guardia.

Nazari fu la sola autorizzata a partire. Per strada vide la moglie di uno degli uomini barricati all’interno. “Ho bisogno di andare da mio marito”, gridò la donna.

“Non lo lasceranno andare”, le disse Nazari. “Torna a casa il più velocemente possibile”.

Per strada cercò un taxi per riportarla a casa, ma non ce n’erano. Ovunque la gente correva, senza meta, con i volti attoniti, come se non capissero altro che di essere in pericolo. Molti di quelli che correvano indossavano uniformi o abiti da ufficio, persone in abiti occidentali, donne in gonne. La gonna di Nazari era troppo corta e non aveva l’hijab, e mentre correva sentì uomini in abiti tradizionali esultare e urlare: “Grazie a Dio i talebani sono qui! Ora hai un po’ di paura dentro di te. Guarda i tuoi vestiti attillati; guarda quanto sei indecente. Grazie a Dio i talebani sono qui per porre fine a tutto questo”.

Ad ogni angolo, Nazari immaginava un talib improvvisamente in piedi sulla sua strada come un’apparizione malvagia. Dopo mezz’ora che correva, fermò un autista e lo pregò di portarla a casa, ma lungo la strada quello la fece scendere: il suo quartiere, una zona Hazara nella parte occidentale di Kabul, era già in mano ai talebani. Le strade erano chiuse; non c’erano quasi macchine; i negozianti erano fuggiti lasciando i loro negozi spalancati. Nazari impiegò quattro ore per arrivare a casa. Era rimasta senza cibo tutto il giorno ma sebbene i suoi genitori e i fratelli la esortassero a mangiare e bere, non aveva appetito. Tutto quello che poteva fare era piangere. Rimase sveglia tutta la notte, chiedendosi cosa sarebbe successo a lei e a tutti quelli che conosceva. Il suo cuore non poteva accettare che quella fosse la fine. Si coprì con un chador e uscì in strada per vedere se fosse vero. Passavano uomini in motocicletta, brandendo pistole. Era reale. Tutto era finito.

Nazari cambiava casa ogni notte. I suoi tre tentativi di entrare in aeroporto da sola si erano conclusi nel fallimento e nel dolore. “Dov’è il tuo accompagnatore maschio; dov’è tuo marito?”, chiedevano i talib, puntando le pistole e colpendola alle gambe e alla schiena. Uno di loro, notando la forma dei suoi occhi, disse che avrebbero avuto bisogno di ragazze Hazara come lei nell’Emirato islamico. Alla fine, Nazari giunse all’attenzione delal capitana Spence e dei suoi colleghi Usa, che cercarono di far volare Nazari e altre due dozzine di afgani dalla città all’aeroporto su un elicottero militare statunitense. L’operazione fallì per due notti consecutive.

Infine, la notte del 25 agosto, Nazari e gli altri furono portati all’aeroporto in un convoglio di tre camioncini, scortati da un commando afgano. Verso mezzanotte arrivarono a un cancello poco conosciuto sul perimetro settentrionale chiamato Black Gate. Nazari cercava il soldato americano che doveva sventolare una lattina di bevanda energetica Monster. Lo individuò oltre le guardie afghane, che spararono colpi di avvertimento al suo gruppo: uomini pashtun che cercavano di scacciare donne hazara. Nazari gridò loro di lasciarla passare. Indossava un vestito molto più lungo del solito per evitare problemi con i talib, e mentre si precipitava in avanti e si impigliava nel filo spinato, inciampò e cadde con la faccia a terra. Immaginò che qualcuno la stesse fotografando mentre giaceva a terra, immaginò di non essere in grado di scappare e che l’immagine si vedesse ovunque, condannandola a morte. Cercò di alzarsi in piedi ma il suo corpo era immobilizzato dallo shock. Un americano la prese in braccio e la mise in piedi.

Una donna, non del gruppo di Nazari, cercò di entrare con loro. “Questa persona appartiene al tuo gruppo?”, le chiese l’americano.

Nazari non voleva mentire e mettere tutti in pericolo. “Non la conosco”, disse, “ma sono sicura…”

Immediatamente le guardie afghane si scagliarono contro la donna e la picchiarono senza pietà. Nazari li pregò di farla entrare, ma loro la schernirono: “Ehi, ragazza Hazara, perché stai facendo passare tutti?”. Scagliarono la donna nella folla di esseri umani. Nazari non riusciva a smettere di pensare a lei. Pianse fino in Qatar.

Nazari ora vive in Kansas. È ancora ossessionata dal ricordo della sua decisione presa in una frazione di secondo. È quasi certa che l’altra donna sia rimasta in Afghanistan. La differenza tra loro è lieve e immensa come la differenza tra la vita e la morte, una verità e una bugia. Non c’è conforto nella casualità dei nostri destini. Niente può spiegare perché Nazari abbia avuto la possibilità di mettersi al sicuro mentre Noori, Mahdieh, Fatima e Najibeh dovranno scappare per salvarsi la vita, o perché l’America decida di accogliere qualcuno e di rifiutare qualcun altro.

Mentre scambiavo messaggi con le donne afgane, tenevo d’occhio l’Ucraina. Gli afgani che abbiamo dimenticato hanno combattuto e vogliono ancora ciò per cui combattono e vogliono gli ucraini che ora ammiriamo: speranza, libertà, una vita dignitosa. Il loro desiderio è impossibile: continuiamo a tradire le persone che cerchiamo di salvare.

George Packer è uno scrittore dello staff di The Atlantic . 

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