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Afghanistan. Una scuola per le donne

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Un reportage dell’Avvenire racconta  le donne a scuola in un soggiorno nell’Afghanistan sospeso nel tempo

Lucia Capuzzo, Avvenire, 20 agosto 2022

agfhanistan

La lavagna è un foglio magnetico appeso sulla credenza. La cattedra un tavolino di plastica. L’unica sedia è quella dell’insegnante, Leyla, 23 anni, studentessa di legge. Al posto dei banchi c’è un grande tappeto rosso su cui, una accanto all’altra, siedono con le gambe incrociate ventitré bimbe, adolescenti, adulte. La più grande ha 55 anni, la più piccola 11. «No, il più giovane è lui», dice Fatma, vent’anni, mostrando Zakir, 9 mesi, che dorme tra le sue braccia. È l’unico maschio ammesso in “aula”. La chiamano così. L’aula, in realtà, è un pezzo del soggiorno di Leyla che una tenda da cucina a strisce nere separa dal resto della casa e della vita della famiglia. Eppure le alunne ne vanno fiere. «Benvenuta nella nostra classe», dicono in inglese all’operatrice di Nove Onlus, mentre si sollevano con un balzo, come la maestra ha raccomandato loro. La forma è importante. La scuola non è qualcosa di scontato in un Paese in cui, dopo vent’anni di massicci investimenti nell’istruzione da parte della comunità internazionale, ancora, oltre la metà della popolazione non sa né leggere né scrivere. Specie per le donne: oltre i due terzi sono analfabete. «Sai che cosa vuol dire non riuscire nemmeno a decifrare le indicazioni del medico per dare le medicine a tuo figlio? O non sapere distinguere il nome delle vie per raggiungere l’ufficio giusto?», racconta la veterana, Azizà. «Sono cresciuta in tempo di guerra. La scuola era l’ultimo pensiero». Cominciato negli anni Settanta, il conflitto si è prolungato per i quattro decenni successivi, riducendo l’Afghanistan in macerie. La miseria, tra le più alte al mondo, e l’arretratezza culturale sono i principali ostacoli all’istruzione femminile. Poi c’è il nodo dei taleban. «Ero bambina durante il primo Emirato, negli anni Novanta: solo i maschi potevano imparare a leggere all’epoca. Mi è dispiaciuto ma non potevo farci niente. Durante la Repubblica, avrei potuto recuperare però mi ero sposata da poco, poi la scuola era lontana e uscire di casa era pericoloso per i continui attentati. Ora, tra la crisi e il ritorno dei taleban, pensavo non fosse il momento, invece…», si rammarica Mirta, 30 anni, avvolta in un lungo hijab (soprabito) nero, come la sciarpa che le copre la testa.

A farle cambiare idea è stata la figlia, Yasmine, 13 anni, che sta accucciata accanto. Terminato il ciclo primario, l’anno scorso, la ragazzina avrebbe dovuto cominciare la settima classe, l’equivalente della scuola media. Con un repentino dietrofront rispetto alle promesse iniziali, però, i vertici dell’Emirato, hanno deciso di limitare l’educazione femminile alle elementari. Secondo le ricostruzioni più accreditate, l’ordine è arrivato direttamente da Kandahar, dove risiede l’emiro Hibatullah Akhundzada che ha fatto valere la sua autorità spirituale di capo dei credenti nei confronti al governo civile. Quest’ultimo era in larga parte favorevole a mandare le ragazze in aula, se non per convinzione quantomeno per non creare nuovi attriti con la comunità internazionale. Certo, la separazione fra generi sarebbe stata assoluta e includeva anche gli insegnanti. Ma per l’emiro non era sufficiente: già aveva dovuto ingoiare il boccone amaro del ritorno delle studentesse all’università, seppure solo per terminare facoltà già iniziate e in giorni differenti dai colleghi maschi. Di fronte alla sua intransigenza, l’esecutivo ha dovuto cedere nel nome della «etat», l’obbedienza che i taleban devono al leader supremo. Il decreto del 23 marzo è stato il trionfo di Kandahar su Kabul. Oltre un milione di adolescenti sono rimaste fuori dalle aule. «Solo temporaneamente», ha, tuttavia, precisato il ministero dell’Istruzione. Nessuno sa che cosa si intenda con tale espressione. Nel frattempo, Yasmine sarebbe dovuta restare a casa. Quando, però, ha saputo che nel suo distretto, alla periferia di Kabul, Nove Onlus aveva organizzato dei corsi gratuiti di alfabetizzazione per donne adulte, ha chiesto di poter partecipare.
Lo stesso hanno fatto molte coetanee, spingendo Nove ad accogliere anche loro. Yasmine ha convinto anche la madre a iscriversi. «È vero, io sono più avanti, so già leggere e scrivere. Ma ripassare mi fa bene. Non mi annoio affatto. È l’occasione per aiutare mia mamma: la seguo, passo passo, così mi tengo in allenamento», spiega con voce flebile quanto determinata. «Mio marito è d’accordo – aggiunge Mirta –. Le lezioni si svolgono all’interno del quartiere, non dobbiamo fare tanta strada. E, poi, ci conoscevamo già tutte da prima». Vicinanza e sicurezza i due pilastri su cui si regge il progetto Wedut di Nove, da dieci anni impegnata in Afghanistan nella tutela dei diritti femminili. E la ragione per cui il consiglio degli anziani, l’organismo incaricato di risolvere le questioni locali, ha dato l’assenso alle lezioni che si svolgono nelle case delle insegnanti. Quella di Salima si trova qualche strada più in là. Sul tappeto, stavolta, ci sono trentasei ragazze addossate una all’altra. Non c’è nemmeno lo spazio per una pseudo-cattedra. «E ora ne mancano nove», dice l’insegnante. Kadija, 18 anni, frequentava i corsi di Corano di Salima, laureata in sharia. Alla scuola vera e propria, però, il padre non voleva lasciarla andare. «A fargli cambiare idea è stato il fatto che finalmente potevo preparargli le ricette della tv. Senza saper leggere, prima non riuscivo», racconta. Non solo. Visti i buoni risultati di Kadija anche la sorella più piccola ha potuto iscriversi. Fara, 15 anni, si è trasferita a Kabul un anno fa da un villaggio della provincia di Nangarhar. «Là nessuna ragazza andava a scuola. E mio fratello non mi lasciava. Qui, però, è diverso. La maestra Salima è una donna del quartiere. Sono felice di poter studiare».
Anche Shaissa, 15 anni, lo è. Due anni fa, avrebbe dovuto cominciare la settima classe ma le lezioni sono state interrotte a causa del Covid. «Poi sono arrivati i taleban e, per le ragazze della mia età, non ha più riaperto. Ero molto triste quando l’ho saputo: ho pianto e anche la mamma ha pianto. Questo corso mi ha dato un po’ di speranza. Ho l’occasione di continuare a studiare, in attesa di poter proseguire. Sogno di poter diventare un dottore», esclama d’un fiato la ragazzina, con il velo ricamato poggiato sulla bocca. Fa una piccola pausa poi si guarda intorno come temendo di aver detto troppo. E sussurra: «Se me lo consentiranno».

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