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L’illusione tutta occidentale che le donne afghane finora stessero bene

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Anche nel ventennio statunitense, la legge per l’eliminazione della violenza sulle donne «non veniva applicata, se non nel 5% dei casi, e il rischio di rappresaglia era altissimo» – La giornalista Cristiana Cella: «I talebani sono pronti a tutto pur di ottenere il riconoscimento internazionale, diranno qualsiasi cosa, ma non bisogna creder loro, non sono cambiati»

Giacomo Butti – Corriere del Ticino – 25 agosto 2021

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«Non ci saranno discriminazioni: proteggeremo i diritti delle donne. Garantiremo la sicurezza dei cittadini. Lasceremo lavorare i giornalisti. Non attenteremo alla vita di chi ha collaborato con il Governo precedente». Sono solo alcune delle promesse fatte dai talebani nei giorni seguenti la conquista di Kabul. Parole dolci, concilianti, che sembrano aver fatto presa sui Paesi occidentali. Forse ancora frastornati dalla rapidità con la quale lo stendardo bianco è tornato a sventolare nel Paese, sono in molti a non escludere a priori un dialogo con gli «studenti coranici».

Ma tra le belle dichiarazioni e la realtà dei fatti, v’è un mare di violenza: lo testimoniano i racconti che filtrano da una nazione, l’Afghanistan, resa folle dalla paura instillata dai talebani. Un terrore che spinge a sfidare ogni logica pur di mettere più chilometri possibili tra sé e i fondamentalisti, anche assaltando aerei in partenza.

Percorrendo la storia recente dell’Afghanistan con Cristiana Cella, giornalista italiana attiva nell’onlus CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), abbiamo cercato di districare la matassa di buoni propositi e cruda realtà.

Un po’ di storia: tra URSS, USA e fondamentalismo islamico

Cristiana Cella l’Afghanistan lo «respira» da più di 40 anni: nel 1980, infatti, la giornalista mise piede per la prima volta nel Paese asiatico (allora sotto l’occupazione sovietica) e da quel momento non ha più smesso di seguire da vicino le sorti dei suoi cittadini. È in quell’anno che Cristiana, originaria di Milano, entrò in contatto con la resistenza rappresentata dai mujaheddin laici, che combattevano contemporaneamente l’influenza dell’URSS e dei fondamentalisti. Con loro visse in prima persona, sulle montagne afghane, la storia di un popolo martoriato da decenni di conflitti interni ed esterni. «La vita non è mai stata facile per le donne afghane», ci racconta Cella. «Ma a quei tempi potevano ancora studiare e lavorare, non erano costrette a portare il velo. Era un mondo diverso».

Il Governo filo-comunista allora al potere, costituito dal Partito democratico popolare dell’Afghanistan, aveva infatti sostituito le leggi tradizionali con altre laiche, vietando ad esempio i matrimoni combinati o l’uso del burqa. Per questo motivo dalla resistenza stessa, quella con cui Cella ha vissuto, «una possibile ascesa al potere dei radicalizzati era vista come una minaccia ancora peggiore di quella sovietica». Una minaccia poi concretizzatasi negli anni della guerra civile e dovuta, anche, all’ingerenza degli Stati Uniti, che in ottica anti-comunista finanziarono i mujaheddin fondamentalisti decisi a instaurare la Sharia e li usarono come arma per combattere le mire sovietiche. Il Paese cadde nel caos e, negli anni seguenti il ritiro dell’Armata Rossa, i gruppi fondamentalisti con diversi correnti di pensiero si combatterono per l’egemonia: «Quelli tra il 1992 e il 1996 sono stati anni tremendi, i racconti arrivati a noi delle violenze subite dalla popolazione sono spaventosi». A spuntarla, alla fine, furono i talebani: saliti al potere instaurarono un Governo teocratico dove alla donna veniva vietato ogni diritto e ruolo sociale.

Il resto è storia recente. Nel 2001, in seguito agli attentati dell’11 settembre, Kabul rifiutò di consegnare agli Stati Uniti il leader di al-Qaida e responsabile degli attacchi Osama Bin Laden: di qui la decisione di attaccare direttamente l’Afghanistan, culla dell’organizzazione terroristica. In poco più di un mese il Governo talebano fu costretto a capitolare e così cominciò il ventennio segnato dalla presenza statunitense nel territorio afghano.

I diritti della donna nel ventennio statunitense

E sotto l’egida internazionale come si sono sviluppati i diritti della donna in Afghanistan? Si è assistito a un’evoluzione? «Non proprio», risponde Cella. «Quello che si sente spesso dire, che prima del ritorno dei talebani a Kabul le donne avevano dei diritti, che negli ultimi vent’anni la situazione era migliorata grazie alla presenza occidentale nel Paese, è vero solo in parte. Certo, alcune donne hanno potuto studiare e lavorare, ma si è trattato di una minoranza molto ristretta, situata nelle grandi città e appartenente a famiglie aperte e democratiche», spiega la giornalista. E questa vittoria ha avuto un costo terribile: «Chi studia, rischia. E non poco. Moltissime ragazze hanno pagato il loro successo con il sangue. Penso ad esempio all’attacco alla scuola femminile di Kabul (attentato avvenuto in maggio nel quale erano morte oltre 50 studentesse, ndr) o ai numerosi omicidi mirati».

Nel 2009 l’Afghanistan ha implementato una legge per l’eliminazione della violenza sulle donne. Una misura dall’efficacia quantomeno discutibile: «Non veniva applicata, se non in una minima parte dei numerosi casi di violenza sulle donne. Parliamo di una percentuale attorno al 5%. L’utilizzo di questa legge, che comportava conseguenze penali per l’uomo autore della violenza, poneva donne e avvocati sotto un’enorme pressione: il rischio di rappresaglia era altissimo». Per questo motivo, anche negli anni segnati dalla presenza degli eserciti occidentali, storie «spaventose e raccapriccianti» del trattamento subito dalle donne afghane hanno continuato ad arrivare all’orecchio di chi ha saputo e voluto ascoltarle. «Casi che delineavano l’assenza di ogni diritto e la mancanza di giustizia, poiché l’impunità dei perpetratori era, già prima del ritorno dei talebani, totale. Bisogna considerare che negli ultimi vent’anni anni i talebani hanno mantenuto il controllo su una buona parte del Paese». Ufficialmente o clandestinamente, «tramite ‘‘governi ombra’’ che sfruttavano la debolezza delle autorità statali. In queste zone la situazione è rimasta identica a quella di fine anni ‘90, i tempi del primo dominio talebano».

I talebani di oggi, tra Twitter e narcotraffico

I talebani sono tornati, la bocca piena di promesse. E mentre il mondo si prepara al dialogo (non da ultima la Svizzera, con le dichiarazioni di Ignazio Cassis), le premesse non sono buone: molti, infatti, i racconti riguardanti violenze, abusi ed esecuzioni sommarie. «I talebani sono pronti a tutto pur di ottenere il riconoscimento internazionale. Diranno qualsiasi cosa, come che le donne sono libere ‘‘ma sotto la Sharia’’. Qualsiasi cosa ciò significhi. Ma non bisogna creder loro: in questi vent’anni non sono di certo cambiati. A testimoniarlo, come dicevamo, le parti del Paese in cui il loro dominio è rimasto incontrastato: lì la loro politica nei confronti dei diritti delle donne non è sicuramente migliorata. Non si vedranno cambiamenti dall’oggi al domani», afferma Cella. «Forse all’inizio cercheranno di edulcorare la faccenda, ma appena l’Afghanistan non sarà più sotto i riflettori mondiali, torneranno alle vecchie abitudini».

E ancora: «In generale, il Paese è ormai radicalizzato e anche chi non è ufficialmente ‘‘talebano’’ ne segue i principi: in molte regioni il confine tra loro e i civili è labile. Ci sono uomini che affiancano le donne nella difesa dei loro diritti, ma si tratta di una minoranza. In realtà nel Paese la violenza è diffusa anche tra i non talebani. Donne e bambine vengono picchiate e vendute ad anziani per matrimoni combinati».

Tra i buoni propositi del nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan v’è quello di abbandonare la produzione dell’oppio, alla quale il Paese contribuisce al momento con oltre l’80% del totale a livello mondiale. Un’altra bugia dalle gambe corte? «Figuriamoci. Se i talebani sono ancora più forti oggi è grazie agli aiuti internazionali intascati e al traffico di droga. Un commercio, questo, cresciuto esponenzialmente proprio nel ventennio dell’intervento statunitense. I talebani sono diventati un vero cartello della droga e non smetteranno certo ora di produrla. Si tratta di un’altra disgrazia per la popolazione: tutto lo spazio coltivabile è riservato ai campi di papavero da oppio, il che porta gravi conseguenze sulla sicurezza alimentare. Il consumo di droga, poi, aumenta i casi di violenza sulle donne».

La tossicodipendenza, insomma, è un grosso guaio. «Qualche tempo fa una ragazzina mi raccontava che nel suo villaggio tutti sono tossicodipendenti, anche i cani. Nel Paese sono oltre tre milioni i tossicodipendenti, quasi tutti giovani: un altro grande colpo alla società afghana, la cui disperazione è ai livelli messimi. Se ne parla poco, ma quello del narcotraffico è un problema sul quale non si può sorvolare. L’Afghanistan si è trasformato in un narco-Stato in questi anni, quando noi eravamo lì, sotto gli occhi dei Paesi occidentali».

Le speranze per il futuro? «Poche»

A Cristiana Cella chiediamo poi quali siano le speranze per le donne e il popolo interno afghano. «Le previsioni sono fosche: non vedo un possibile cambiamento. I talebani hanno vinto la guerra e non vi sono più veri antagonisti». Anche l’esercito addestrato dagli Stati Uniti, del resto, si è arreso rapidamente. «Nel mondo ci si chiede come mai sia crollato così velocemente di fronte ai combattenti talebani. Lo stupore internazionale è quasi ridicolo. Perché mai questa povera gente dovrebbe morire per salvare un governo fantoccio, senza nessuna legittimazione? Un popolo combatte per se stesso, per la propria terra, non combatte per un presidente come Ghani», spiega la giornalista milanese. «Difficile dire cosa possa salvare la popolazione a questo punto, penso che l’unica speranza per il popolo afghano sia fare affidamento su se stesso, unirsi e ribellarsi».

L’opera del CISDA

Sin dal 1999 il CISDA è attivo per promuovere progetti di solidarietà a favore delle donne afghane. «Con la presenza internazionale nel Paese, in questi anni il CISDA è riuscito in parte a operare, a far partire qualche progetto. Non è comunque mai stato facile per le donne, come detto la violenza nei loro confronti è sempre stata presente. Ora però quel poco che c’era sparirà», spiega con amarezza. «Noi siamo tuttora in contatto con alcune attiviste in Afghanistan: tutte donne molto esposte e in grave pericolo, costrette alla clandestinità poiché non hanno alcuna intenzione di abbandonare il Paese in un momento in cui le donne afghane hanno bisogno di loro. È per loro che in questo momento stiamo portando avanti due progetti: innanzitutto una raccolta fondi, la quale doveva servire inizialmente agli sfollati interni che scappavano a Kabul dalle zone già controllate dai talebani. Essendo però la situazione degenerata così rapidamente, stiamo ora cercando un modo più sicuro per far arrivare gli aiuti nelle mani giuste e non farli cadere in quelle dei talebani. L’altra idea è aiutare, per quanto possibile, nella gestione dei corridoi umanitari, cercando di far evacuare coloro che hanno deciso di non restare e sono a rischio, fornendo anche all’estero informazioni su quanto stia realmente accadendo nel Paese: una tragedia».

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