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La lotta delle femministe clandestine in Afghanistan

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Intervista esclusiva a un’attivista di Rawa sulla situazione attuale in Afghanistan 

foto rawa

Spazio pubblico n. 4/2021, di Ugo Lucio Borga, [pp. 24-27]

La bandiera ammainata a Herat l’8 giugno scorso, in uno dei momenti più drammatici e incerti della storia afghana, ha messo simbolicamente la parola fine a una delle missioni militari più controverse della storia della Repubblica. Costata oltre un milione di euro al giorno, e durata vent’anni, ha visto l’avvicendamento, sul terreno, di oltre cinquantamila soldati italiani. Cinquantatré di loro hanno perso la vita, perlopiù nel corso di attentati o di incidenti. Entro luglio, approfittando della copertura aerea ancora garantita delle forze armate USA, l’intero contingente abbandonerà la nave che affonda, giorno dopo giorno, in una tempesta di violenza mai conosciuta prima. Nessuna retorica sarà mai in grado di edulcorare la bruciante sconfitta militare della coalizione NATO

che, di fatto, riconsegna l’Afghanistan nelle mani dei Talebani, rimasti dichiaratamente gli stessi di vent’anni fa e indiscussi vincitori di una guerra costata oltre 400.000 morti e un numero impressionante di feriti e mutilati. Sarebbe però ingiusto non riconoscere alla colazione – e in particolare al contingente italiano, che ha lavorato duramente a concreti progetti di ricostruzione – i pochi meriti che possono esserle attribuiti, nonostante la sproporzione evidente tra costi – soprattutto in vite umane – e benefici. Tra questi, l’aver consentito a una generazione di afghani – almeno quelli che hanno vissuto nelle zone governative – di avere un più agevole accesso all’istruzione, anche universitaria, di emanciparsi entro certi limiti dalle imposizioni e dai dettami religiosi imposti dai talib e di aprirsi in qualche modo al mondo. L’imminente uscita di scena della coalizione, che ha fin qui assicurato la sopravvivenza delle istituzioni repubblicane, rischia però di coincidere, anche cronologicamente, con l’inevitabile redde rationem che tutti, almeno nella capitale, immaginano violento e sanguinoso. Chi ha collaborato con le istituzioni governative e con la coalizione verrà punito, con ragionevole certezza. Se il precipizio definitivo delle corrotte e fangose istituzioni afghane, volto della democrazia d’importazione di stampo occidentale, da chi non si è compromesso viene considerato il male minore, e la dipartita dei contingenti internazionali invece un relativo vantaggio, perché toglie dal tavolo almeno uno dei problemi con cui il popolo afghano ha convissuto negli ultimi vent’anni, il destino delle donne resta uno dei nodi cruciali, sul quale sarebbe più che opportuno spendere le residue energie diplomatiche e giocare le ultime carte di un mazzo davvero poco fortunato. È appena il caso di ricordare l’enfasi con la quale Laura Bush e Illary Clinton puntarono sulla tragica condizione femminile, costrette dai fondamentalisti a un’esistenza indubitabilmente terrificante, per giustificare un intervento militare privo di ogni legittimità e determinato da interessi economici e geopolitici sui quali è stato scritto, detto e dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, tutto. Oggi come allora sono proprio le donne a essere uno dei principali target della violenza talebana, come dimostra la lunga serie di attentati e di omicidi mirati ai danni di studentesse, giornaliste, attiviste, intellettuali, perché indubitabilmente rappresentano un avversario politico preparato e potenzialmente capace di far sentire la propria voce, censurata solo dall’indifferenza dei media mainstream occidentali. Ciò non significa – oggi come allora – che le donne abbiano rinunciato a combattere o che attendano con rassegnazione le nuove imposizioni che già si affacciano all’orizzonte, volute dalle istituzioni repubblicane interessate a mostrarsi condiscendenti con i talib, forse nella speranza di poter mendicare una posizione di privilegio e potere anche nel governo che verrà.  

Le femministe riunite nell’organizzazione RAWA – Revolutionary Association of the Woman of Afghanistan – a lottare contro tutto questo sono preparate. Nate in clandestinità, hanno cercato di coinvolgere nella loro lotta le organizzazioni femministe occidentali, che si sono dimostrate, in generale, poco attente al destino di decine di milioni di donne afghane. Con delle eccezioni. In Italia è l’Associazione CISDA a sostenerle: “CISDA nasce ufficialmente nel 2004, ma le donne che l’hanno fondato hanno iniziato a occuparsi di Afghanistan già nel 1999”, racconta Laura Quagliuolo, voce carismatica di CISDA oltre che una delle fondatrici dell’Associazione stessa. “l’obiettivo era dare sostegno alle donne di varie associazione afghane, tra cui RAWA, che sotto il regime talebano lavoravano clandestinamente, sia in Pakistan che in Afghanistan, e avevano deciso di uscire allo scoperto per far conoscere la loro attività, sapendo che in Occidente esistevano gruppi di donne in grado di accogliere il loro appello”. La collaborazione inizia quando una di loro, Cristina Cattafesta, scomparsa nell’agosto del 2020, storica combattente per i diritti delle donne oppresse, riesce a incontrarle. Lavora per Emergency e ha quindi la possibilità di recarsi in Afghanistan, anche durante il regime talebano. “Le donne di RAWA si sono sempre dichiarate femministe”, continua Laura Quagliuolo. “Per sopravvivere in un contesto così pericoloso, operano, oggi come allora, in clandestinità. Si sono date un’organizzazione che risponde a criteri molto precisi: solo le donne sono ammesse in RAWA, e solo dopo un percorso di formazione storica e politica. Perché la loro attività è innanzi tutto politica, e poi umanitaria. Hanno denunciato e denunciano le atrocità dei fondamentalisti e di tutti gli attori coinvolti in questi quarant’anni di guerra (dall’invasione sovietica ad oggi, ndr), insegnano alle donne a rivendicare i propri diritti, a maturare una maggiore consapevolezza rispetto al loro ruolo nella società. Oggi si dà per scontato che una donna afghana sia sottomessa, che accetti la poligamia, che accetti di sposarsi a dodici anni. Loro lavorano, tra mille difficoltà e pericoli, per spezzare questa idea. Per questo, affascinate dal loro modo di lavorare, stare insieme e denunciare le ingiustizie, le femministe italiane di CISDA hanno deciso di sostenerle.”

Meena è il nome di fantasia di una di loro, che ha rilasciato, nei giorni scorsi, questa intervista esclusiva a Spazio Pubblico. Meena è anche il nome della fondatrice di RAWA, Meena Keshwar Kamal, considerata una martire dall’organizzazione femminista clandestina, uccisa da sicari del KHAD – omologo afghano del KGB – a Quetta, in Pakistan, nel febbraio del 1987 a causa della sua attività politica.

“Innanzitutto è importante ricordare che in 20 anni di presenza della NATO in Afghanistan nulla è cambiato. L’invasione degli Stati Uniti e dei suoi alleati non aveva lo scopo di portare la pace e combattere il fondamentalismo, ma di realizzare i propri progetti economici e politici. Se fosse stata davvero la ‘guerra al terrore’ come avrebbe potuto finire per dare più forza e potere ai talebani fondamentalisti e a un governo composto principalmente da signori della guerra criminali? Non crediamo che gli Stati Uniti lasceranno l’Afghanistan molto presto. Anche se chiuderanno tutte le loro basi militari, manterranno un forte controllo non solo sulle forze armate e sui servizi d’intelligence del governo afghano, ma anche sui talebani stessi, sui signori della guerra, sulle milizie e anche sui cosiddetti intellettuali liberali, sui media, sulle organizzazioni non governative.

Gli ultimi 20 anni sono stati caratterizzati dall’insicurezza, soprattutto per le donne, dalla mancanza di lavoro, di strutture educative e sanitarie. C’è stato un aumento di scontri e violenze in tutto il Paese, sono cresciuti tossicodipendenza e contrabbando, ospedali, scuole, trasporti pubblici sono obiettivi di attacchi suicidi. Le uccisioni mirate e la corruzione dilagante hanno reso terribile la vita quotidiana in Afghanistan.

Gli afgani sono oggi definiti la nazione più triste del mondo! Perché sono delusi, senza speranza.

Ogni giorno vengono uccise centinaia di giovani; ogni famiglia sta cercando di mandare i propri figli all’estero. Conoscono bene il rischio di quel viaggio, ma sanno anche che finirebbero sicuramente per morire se rimanessero qui. Quindi perché non accettare il rischio?

Non pensiamo che il ritiro della NATO avrà alcun impatto positivo o negativo. Alcune persone sono preoccupate per il rischio di una guerra civile, ma la situazione attuale non è lontana da una guerra civile: ogni parte dell’Afghanistan è contesa tra talebani di diverse fazioni, ISIS, Al Qaida, forze governative e così via…

Assistiamo a combattimenti nella capitale Kabul e in molte altre province. I Talebani conquistano ogni giorno nuove aree.

Se diamo uno sguardo alla situazione delle donne afgane negli ultimi 20 anni, ci accorgiamo che nulla è cambiato, dalla politica ai diritti sociali e alla sicurezza, all’istruzione e alla salute. Ci sono meno strutture di quanto non si possa immaginare. Nella maggior parte del Paese, alle donne non è permesso andare a scuola o avere accesso al lavoro. Decenni di guerra oltre agli attuali attacchi suicidi hanno lasciato migliaia di vedove, che vivono in profonda povertà.

È recentemente emerso un rapporto scioccante, secondo cui le persone stanno vendendo i propri reni per pagare i debiti o nutrire i propri figli. Sono obbligate a scegliere se far lavorare i propri bambini o dare in sposa le bambine. Ci sono donne che vengono fucilate nelle sale parto. Nelle aree sotto il controllo dei talebani o delle forze governative, le donne e le ragazze hanno poche o nessuna possibilità d’istruzione.

Prendiamo l’esempio recente di alcune decisioni prese dal Ministero dell’Istruzione, che limitano le opportunità per le ragazze. Ad esempio, è stato posto un divieto che impedisce alle ragazze di lavorare in istituzioni scolastiche o politiche, dando più importanza alle materie religiose, ai mullah e alle madrase (scuole coraniche, ndr)

Dall’inizio di quest’anno, diverse giornaliste, dipendenti del governo, agenti di polizia, dell’esercito e della magistratura sono state uccise. Le operatrici sanitarie e coloro che si occupano delle vaccinazioni vengono uccise.

Ogni due giorni le donne vengono frustate in pubblico secondo la legge della sharia.

Questa è la situazione che stanno affrontando gli afgani dopo 20 anni di presenza statunitense in Afghanistan. Lo scenario sarà quindi lo stesso per gli afgani dopo il ritiro delle truppe Nato: un paese sotto il dominio di fanatici fondamentalisti furiosi sostenuti dall’Occidente e da molti altri governi come Iran, Pakistan, Turchia, Cina, Russia e India. Un governo che non provvederà ai bisogni più essenziali della sua gente. Nessuno di noi sa se sopravviverà fino alla fine della giornata.

Le donne afghane, nella lotta per l’uguaglianza dei diritti, la libertà, la consapevolezza, l’unità e la giustizia, hanno avuto l’aiuto di pochi movimenti femministi. Il più delle volte ci siamo sentite abbandonate a noi stesse. L’aiuto e il sostegno necessari dai movimenti femministi occidentali non c’è stato. Perché è stato dato principalmente a personaggi del governo degli Stati Uniti e dell’Afghanistan che non potrebbero mai essere i veri rappresentanti delle donne afgane. Se questo supporto fosse stato dato ai movimenti che lavorano davvero per le donne sofferenti, le cose sarebbero forse diverse. Donne come Adila Raaz, Roya Rahmani, Shukria Barakzai, Faouzia Kofi e molte altre, che hanno sempre sostenuto i signori della guerra fondamentalisti e che oggi sostengono i talebani al tavolo dei negoziati di pace, non hanno mai rappresentato una speranza per il futuro. Semplicemente hanno accolto con favore la presenza degli Stati Uniti perché volevano avere posizioni di prestigio.

L’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan ha continuato la sua lotta contro i fondamentalisti misogini, gli occupanti occidentali, l’ingiustizia e la discriminazione contro le donne.

Crediamo fermamente che solo l’istruzione possa fornire alle donne la forza, la speranza e la determinazione di cui hanno bisogno per cambiare la loro vita.

Fortunatamente, le femministe non sono mai state separate dai movimenti pacifisti o contro la guerra. RAWA ha imparato attraverso la sua preziosa esperienza che avere un supporto continuo è come avere una forte spina dorsale, che ti permette di restare diritto. Il rapporto tra RAWA e CISDA lo dimostra. I movimenti occidentali possono sicuramente svolgere un ruolo importante nel far sentire la loro voce contro le politiche sbagliate dei loro governi in Afghanistan. Possono usare i social media e il giornalismo per mostrare questa realtà al mondo. Possono fare qualsiasi passo, anche piccolo, per difendere la giustizia: alla fine i conti torneranno. In ogni angolo di questa triste terra c’è una ferocia scioccante, ma nessuno la vede o la sente perché i media mainstream non sono interessati.

Non possiamo dimenticare com’era, prima, il nostro Paese. 

E non dimentichiamo chi ha guardato da un’altra parte dopo l’11 settembre.

Le donne di tutto il mondo possono far sentire la loro voce, insieme, mostrare la loro solidarietà e il loro sostegno in modi diversi: questo renderà più forte la nostra resistenza!”

 

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