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“L’Afghanistan è una ferita aperta”

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Intervista alla cineasta Shahrbanoo Sadat, che coi suoi film racconta la gente comune del suo paese e sfida le convenzioni della società tradizionale

Chiara Zanini, Shahrbanoo Sadat -, Jacobin Italia – 10 ottobre 2021

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 Shahrbanoo Sadat è una regista, sceneggiatrice, produttrice e regista afghana nata nel 1991 in Iran. Ha iniziato a formarsi nel cinema con Ateliers Varan, un workshop organizzato da cineasti francesi in più paesi, attivo dal 2006 anche a Kabul e che oggi offre gratuitamente on line il primo cortometraggio di Sadat, A Smile For Life, la cui protagonista è Ghezal, una ragazza di vent’anni alta 70 centimetri. Con il primo cortometraggio di finzione, Yeke Varune (Vice Versa One, 2010), Sadat inizia a frequentare con successo i festival europei, venendo selezionata alla Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes e poi al festival di Locarno. Anche in questo secondo caso la protagonista è una giovane. Nel 2013 dirige Not At Home, in cui fonde cinema documentario e finzione, nel quale gli ospiti di un centro per richiedenti asilo in Germania hanno recitato come comparse. Nello stesso anno fonda una propria casa di produzione a Kabul, la Wolf Pictures, con la quale co-produrrà il suo primo lungometraggio di finzione, Wolf and Sheep (2016), anch’esso presentato alla Quinzaine a Cannes, sviluppato grazie alla residenza per registi del festival di Cannes per la quale era stata selezionata nel 2010. All’epoca aveva vent’anni e rimane la regista più giovane mai scelta. Wolf and Sheep fa parte, come il successivo The Orphanage, di una pentalogia (cinque lungometraggi) basata sul diario personale di 800 pagine dell’attore e scrittore Anwar Hashimi. I protagonisti di questi due film, girati in gran parte in Tajikistan, sono bambine e bambini. Il film cui sta lavorando attualmente, Kabul jan, è invece una commedia romantica che sfida le convenzioni della società afghana raccontando la storia d’amore tra una giovane operatrice e un giornalista che ha il doppio della sua età ed è sposato.

L’abbiamo intervistata in occasione della Mostra del Cinema di Venezia, dove le è stato assegnato un Wica – Women in Cinema Award. Wica è un  riconoscimento dato da un’Academy di giornaliste appassionate di cinema e questioni femminili, nato da un’idea di Angela Prudenzi, Claudia Conte e Cristina Scognamillo. Wica ha premiato quest’anno, tra gli altri, anche Zahara Ahamadi, attivista e imprenditrice afghana ora al sicuro in Italia.

La nuova presa di potere da parte dei talebani era assicurata, ma secondo molti osservatori è stata molto rapida e questa escalation in pochi giorni fa pensare che gli americani l’abbiano in qualche modo facilitata. Lo pensa anche Lei? 

È così ovvio e credo che tutto il mondo lo pensi. L’intero ridicolo progetto di pace iniziato anni fa, dando il riconoscimento a un gruppo terroristico, permettendo loro di avere un proprio ufficio in Qatar, dando loro il potere, e dall’altra parte ignorando il governo afghano: tutto questo ci ha portato al 15 agosto, data in cui i talebani sono entrati ufficialmente a Kabul.  

Quali sono stati i più grandi errori politici che hanno portato alla sconfitta del paese? 

La negoziazione della pace, perché la pace dovrebbe essere un processo organico interno, non un progetto forzato dagli americani o da qualsiasi altra grande potenza. L’Afghanistan si trova in questa situazione a causa del progetto di pace.  

Gli occidentali guardano l’Afghanistan con un filtro «statunitense». Cosa vorrebbe che si sapesse qui, su quello che è successo nel suo paese, e sul suo popolo?

Penso che il mondo abbia bisogno di altri 11 Settembre per rendersi conto del dolore e della sofferenza di altre persone. Sono 42 anni che l’Afghanistan è in guerra. Molte persone sono state uccise. Molte persone sono state gravemente ferite e hanno finito per perdere parti del loro corpo. Molte persone sono sfollate. Molti sono diventati rifugiati ma non hanno mai potuto stabilirsi definitivamente, perché sognavano di tornare a casa un giorno e quel giorno non è mai arrivato. L’Afghanistan è una ferita aperta per gli afghani e sembra che non potrà mai essere guarita. Voglio che il mondo capisca che quello che sta succedendo in Afghanistan non è una questione che riguarda solo il popolo afghano. L’Afghanistan è un problema globale. Sostenendo l’emirato islamico dell’Afghanistan state fondamentalmente sostenendo il terrorismo, un paese guidato da terroristi. Non è pericoloso per il resto del mondo?  

Ho letto che Lei è nata a Teheran, come molti afghani i cui genitori non erano nella loro città natale a causa dell’instabilità del paese. Cosa l’ha spinta a tornare a vivere e a studiare in Afghanistan in seguito, nonostante fosse consapevole della difficile situazione? 

I miei genitori hanno lasciato l’Afghanistan a causa della guerra afghano-sovietica alla fine degli anni Settanta. Mio padre si è comprato una casa quando era molto giovane, ma non ha mai potuto godersela perché è stato costretto a combattere nella guerra afghano-sovietica, e lui non voleva. Dopo due mesi, fuggì e prese mia madre e mio fratello che all’epoca aveva solo sei mesi, e andarono in Iran. Io e le mie sorelle siamo nati tutti in Iran. Dopo l’11 settembre i miei genitori hanno deciso di tornare in Afghanistan. Volevano tornare a casa. Io avevo undici anni e non avevo idea di dove stessimo andando. Molte persone tornano in Afghanistan e si stabiliscono a Kabul o in altre grandi città, noi invece siamo tornati nel piccolo villaggio dei miei genitori nell’Afghanistan centrale, in mezzo al nulla. Odiavo quel posto. Tutto era così elementare. Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo, almeno di cent’anni. Mi venne la depressione e feci molta fatica ad adattarmi, ma dopo tre anni ci riuscii. A 18 anni mi sono trasferita a Kabul, nella città dove avevo sognato di andare ogni giorno e ogni notte per tutti i sette anni lì, e la mia vita è cambiata per sempre: mi sono appassionata al cinema, ho incontrato il mio amore Anwar Hashimi [attore e autore, ndr], ho conosciuto la storia dell’Afghanistan e me ne sono innamorata.

Di cosa parlano i suoi film oggi e di cosa parleranno d’ora in poi? 

Della vita quotidiana della gente comune. Non sto riproducendo storie su ciò che il mondo già conosce dell’Afghanistan. Non voglio spendere soldi e tempo per rappresentare dei cliché. Voglio raccontare l’Afghanistan come lo vivo io. L’Afghanistan merita di essere visto meglio. Il paese è ricco e bello. Continuerò a farlo. Il progetto a cui sto lavorando al momento è una commedia romantica e non cambierò il mio progetto a causa di ciò che stanno accadendo in Afghanistan. Ho il mio modo di parlare e reagire alle cose. Non mi interessa fare film in base alle notizie. Offro uno sguardo profondo sulla società afghana, o almeno questa è la mia intenzione.  

Gli hazara sono tra le minoranze più perseguitate in Afghanistan. Che spiegazione si dà?

Soprattutto la religione: l’Afghanistan è a maggioranza sunnita, e gli hazara sono sciiti. Inoltre l’aspetto asiatico degli hazara non incontra i codici di bellezza [dominanti, ndr] in Afghanistan.  

Anche se i Talebani stanno distruggendo tutto, molti afghani vorrebbero tornare nel paese il più presto possibile. Come immagina il periodo del ritorno? Ci sarà una fase di rinascita che potrebbe essere caratterizzata dall’anti-politica? 

Ci sarà un ritorno, ma non a breve. L’Afghanistan ha bisogno del sostegno della comunità internazionale. Senza questo i Talebani resteranno sicuramente lì. Il cambiamento può arrivare, ma solo tra diversi gruppi terroristici che prendono il potere l’uno sull’altro.  

Nelle ore dell’evacuazione abbiamo visto video di persone che hanno perso la vita cercando di salire su un aereo, e abbiamo letto che i Talebani hanno usato violenza contro i civili per impedire a molti di raggiungere l’aeroporto. La speranza di assicurarsi una vita migliore vince su tutto? 

Molti non hanno raggiunto l’aeroporto a causa della folla che correva lì, e del caos che questo ha causato. I Talebani non lo hanno impedito a nessuno, la loro politica in quel momento era di non fare del male a nessuno. Il caos è iniziato con tutti gli annunci degli Stati uniti a causa di tipologie di visto diverse, e perché loro hanno detto che avrebbero portato all’estero migliaia di afghani. Avevano iniziato questo processo nel 2014, ma era dannatamente lento. Gli americani hanno lasciato Bagram, la loro base principale, a mezzanotte, senza nemmeno informare il governo afghano, ed è stato stupido, perché avrebbero potuto mantenerla e usarla per fare l’intera evacuazione da lì. Hanno lasciato l’Afghanistan in modo irresponsabile, hanno fatto l’evacuazione con molta fretta e nessuna cura reale. Questa è stata la ragione del caos e di un’evacuazione non adeguata.  

Ci sono diverse opinioni sul nuovo governo talebano, formato da terroristi. Per esempio, le donne dell’associazione Rawa, i cui appelli sono stati tradotti in italiano, prendono le distanze da chi – donna o uomo – è disposto a trattare con i Talebani. Cosa ne pensa? 

Hanno molto ragione. Nessuno al mondo può parlare con un gruppo terrorista. La loro lingua è un’arma e la loro politica è la rimozione di qualsiasi voce contraria. Non hanno idea di come negoziare o parlare. Gli Stati uniti hanno avuto la stupida idea di parlare con loro e quel ridicolo progetto di pace è la causa principale della situazione odierna. Hanno ucciso il morale dell’esercito nazionale afghano, hanno squalificato il governo afghano non coinvolgendolo nei negoziati e hanno dato riconoscimento, fiducia e potere ai Talebani.  

Lei partecipa ai festival europei da più di dieci anni. Cosa possiamo fare come cittadini italiani e come amanti dell’arte per sostenere gli artisti afghani? 

Dare opportunità e spazio agli artisti afgani per scoprire la loro voce. Ci sono molte residenze, attività artistiche, workshop, ecc. Gli artisti afgani hanno bisogno di tempo per pensare, sentire e trovare la propria espressione. Non ci si può aspettare molto all’inizio, ma sono sicura che poi avranno molto da dire. Hanno bisogno di serenità per farlo.

In Europa, molti si stanno interessando attraverso i propri governi per permettere l’evacuazione dei cittadini afgani. In alcuni casi si presentano come white saviors, e questa iniziativa arriva  comunque molto tardi: non si può dire che l’Europa abbia fatto veramente qualcosa di utile in questi anni per evitare la catastrofe nel loro paese. 

Questo è un grosso problema. Molti di questi «salvatori bianchi» probabilmente non capiscono il ruolo del loro paese in questo caos, e nel caos degli altri paesi. Queste sono cose che vengono sempre tenute nascoste. Negli ultimi 42 anni c’è stato un gigantesco mercato di vendita di armi e di tutto ciò che riguarda la guerra, e l’Europa è fortemente coinvolta in questo. Lo stesso vale per i narcotici, le droghe e la mafia. La guerra in Afghanistan non ha niente a che fare con gli afghani o con l’Afghanistan stesso. L’Afghanistan è solo un terreno di gioco in cui altri paesi fanno affari o risolvono i propri conflitti. Il mondo oggi ha bisogno di paesi come l’Afghanistan per vendere i propri prodotti per la guerra, sono miliardi che circolano. La guerra in Afghanistan ha soprattutto ragioni economiche e molte organizzazioni legate ai diritti umani sono solo una copertura, non vogliono e non possono fare molto. La politica è chiara. Le grandi potenze sanno molto bene cosa stanno facendo.  

*Chiara Zanini è critica, film programmer e operatrice culturale. Ha scritto per Sentieri SelvaggiRolling StoneInternazionaleWiredIl Fatto QuotidianoElle DecorCorriere delle migrazioni e altre testate. Collabora con alcuni festival, è co-curatrice con Federica Fabbiani del volume Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma e ha una newsletter dedicata alle registe donne e alla diversity (Cineaste). Ringraziamo l’ufficio stampa di Wica ha permesso quest’intervista.

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