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KABUL, CHI TACE ACCONSENTE?

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kabulKabul, 19 agosto 2021 – la bandiera afghana è un segno di protesta contro i Talebani al potere

Dopo un anno e mezzo di trattative con i Talebani, l’esercito degli Stati Uniti e le truppe alleate lasciano l’Afghanistan. L’ultimo volo degli americani è salutato in Occidente da commenti ironici sull’avventura di 20 anni di guerra finita in una fuga precipitosa e in un indecoroso fallimento.
I più importanti Paesi musulmani tacciono. Imran Kan, primo ministro del Paese che più ha sostenuto la guerra delle bande islamiste, afferma che «gli insorti hanno spezzato le catene della schiavitù». Ha ragione? L’indipendenza nazionale, quella che i Talebani hanno sempre affermato di perseguire e che ora hanno effettivamente conseguito, non è la stessa cosa della liberazione dalla schiavitù, ma è esattamente ciò contro cui USA e alleati hanno combattuto per due decenni.
Della schiavitù imposta ad una intera popolazione è importato e importa poco, anche se la campagna mediatica delle “democrazie” nel mondo si è affannata a testimoniare compassionevole solidarietà alle donne afghane colpite dalla più brutale oppressione “di genere”.

Quello che importa è che un Paese ricco di risorse naturali e punto di intersezione di vie di transito delle merci e degli affari sia “stabilizzato”, cioè che vi sia qualcuno che comanda con il quale trattare l’apertura alla competizione tra multinazionali. L’uscita di scena (almeno apparente) degli Stati Uniti contribuisce a sconvolgere la rete di alleanze che hanno tenuto in equilibrio i rapporti tra le grandi potenze e lascia spazio al conflitto tra Paesi musulmani che rischia di coinvolgere l’Occidente.

Certamente Washington ha compiuto un sacco di errori in questi venti anni di guerra, per esempio trascurando la ricostruzione e la crescita economica e strutturale del Paese (come, invece, si impegna a fare la Cina), sottovalutando l’organizzazione tribale avversa a forme di potere centralizzato e il consolidato potere dei Talebani su parte delle provincie e delle popolazioni locali, e sopravvalutando, invece, la possibilità di costruire un governo fantoccio e un esercito ad esso fedele. Peggio ancora calibrando il proprio intervento militare sul modello del controterrorismo invece che su quello di controinsurrezione, dimenticando che i Talebani avevano conservato il controllo di vaste zone dove continuavano ad amministrare la giustizia e ad imporre la loro tassazione. Ma non hanno deciso il ritiro pensando di avere raggiunto i propri obiettivi, né in conseguenza di una sconfitta sul campo. Con gli accordi di Doha hanno consapevolmente promosso i Talebani a interlocutore politico e futuro governo afghano. La partita è chiusa? Probabilmente no: Stati dotati di armi nucleari (India e Pakistan) competono tra loro per ottenere influenza sull’Afghanistan e gli Stati Uniti non mancheranno di provare a fare l’ago della bilancia. E non è detto che, in futuro, i nemici non saranno diversi dai Talebani.
Gli USA non hanno problemi con le formazioni jihadiste (e/o terroriste) che rappresentano, invece, una minaccia per Cina, Russia e Pakistan; è piuttosto la concorrenza strategica con e tra questi attori ad essere motivo di preoccupazione e ci sono pochi dubbi che Washington sarebbe disposto ad “incoraggiare” l’una o l’altra fazione islamista al fine di destabilizzare quel Paese che i diretti competitori vorrebbero “pacificato” sotto il tallone di un governo amico.
Ma, se l’obiettivo finale è mettere in scacco la Cina, piuttosto che dissanguarsi in una guerra senza fine in Centro-Asia sembra conveniente procedere ad un accerchiamento sul fronte del Pacifico: è di questi ultimi giorni la notizia del patto di alleanza strategica, militare e di sicurezza tra Stati Uniti Australia e Gran Bretagna (AUKUS) che fornirà a Canberra una flotta di sottomarini a propulsione nucleare6.
Inoltre, «il coinvolgimento americano in Afghanistan potrebbe non essere finito e in caso di ulteriori incursioni contro i terroristi dello Stato Islamico del Khorasan, la responsabilità delle operazioni potrebbe venire affidato alla Marina. (…) La soluzione migliore rimane quindi lo stazionamento di portaerei e squadre navali nel Mare Arabico (in quanto gli USA non hanno basi nei Paesi confinanti con l’Afghanistan, ndr)»7.
Escono di scena e si accomodano nel sottopalco anche le potenze europee8 che non hanno le capacità militari per rimanere senza la copertura americana, tra queste l’Italia, schierata, da subito) a protezione degli investimenti ENI nel vicino Turkmenistan, degli affari legati all’oppio, 4
della realizzazione di infrastrutture9 e delle relazioni con l’Iran. E, al pari degli altri “grandi”, il governo italiano sta già schierando le sue pedine in vista di un nuovo rapporto con i vincitori, parola del nostro ministro degli Esteri Di Maio: «”Con i Paesi dell’area e con i nostri partner che hanno già dislocato in Qatar i propri punti di rappresentanza competenti per l’Afghanistan, stiamo riflettendo sulla creazione di una presenza congiunta in Afghanistan – un nucleo formato da funzionari di più Paesi sotto l’ombrello dell’Unione Europea o, eventualmente, delle Nazioni Unite – con funzioni prevalentemente consolari e che serva da punto di contatto immediato. Si tratterebbe di una soluzione innovativa, per la quale sarà necessario un efficace coordinamento preventivo”, ha detto il ministro che ha spiegato di aver già discusso del trasferimento dell’ambasciata a Doha “con il mio omologo qatarino, che ha confermato massima collaborazione”»10.
CHI ENTRA
Escono, almeno formalmente, le potenze extra-regionali, entrano le potenze regionali in conflitto tra loro, anche se in provvisorio sodalizio. Ed entrano per condizionare il governo dei Talebani che hanno “ostinatamente” sostenuto. Cina, Russia, Pakistan, Qatar e Turchia negoziano ora con i Talebani una adeguata contropartita e tutti, al momento, hanno interesse a mantenere un ordine che crei un ambiente favorevole tanto ai loro investimenti in infrastrutture e attività estrattive, quanto a tenere lontane dai propri confini le minacce portate dalle fazioni jihadiste e indipendentiste.
Uno degli affari sul tappeto è quello che riguarda il gasdotto TAPI destinato a trasferire il gas turkmeno in India11 via Afghanistan e Pakistan. Attorno a questo progetto ruotano interessi contrastanti sia riguardo ai corridoi energetici, in particolare tra Cina e Iran, mentre è già in fase acuta il conflitto aperto tra India e Pakistan per le frontiere del Kashmir. Un punto caldo che interseca anche il corridoio di Wakhan, passaggio impervio ma importante per il diretto accesso cinese al Paese e alle sue risorse minerarie.
Il Pakistan, inteso come l’assetto di potere costituito dall’ISI (i servizi segreti) e dall’esercito che non hanno mai smesso di sostenere i Talebani, ha registrato una significativa vittoria12. Una vittoria che, però, apre la strada al revanscismo delle aree tribali di etnia pashtun e alle azioni terroristiche sul suo territorio. Cina, Russia e Iran non invaderanno l’Afghanistan, ma, oltre a competere tra loro per sfruttare le risorse del Paese, ne faranno un campo di battaglia per la loro competizione strategica con gli Stati Uniti. Il governo turco, sostenuto dal Qatar, può aprire una partita, se non per l’egemonia, certamente per riattivare la catena economica e rivestire un ruolo di sponda per la componente sensibile all’influenza della Fratellanza Musulmana.
Al momento, grandi e medie potenze regionali hanno interesse a stabilizzare il Paese sotto il dominio talebano, ma non mancano le premesse per il rilancio di conflitti interni (in particolare tra le fazioni Jihadiste che hanno devastato l’Afghanistan prima combattendo – con il concreo sostegno americano13 – i sovietici e, poi, per la conquista del potere) dei quali i “grandi” potranno servirsi per combattere tra loro con il sangue altrui. In attesa che i Paesi europei, che, per ora, restano a negoziare le briciole con il governo talebano, si facciano avanti per partecipare alla spoliazione delle risorse naturali.
Anche se non c’è, al momento, un polo imperialistico capace di sostutuire l’azione trainante e globale degli Stati Uniti, le acque si stanno muovendo in questo scacchiere come in altri, e la costruzione e rottura di alleanze contingenti prefigura una guerra più estesa e duratura per la conquista dell’egemonia.

CHI RESTA
Restano i Talebani.
Il movimento che, al suo inizio, faceva riferimento al mullah Omar (morto nel 2013) nasce come del tutto autoctono, e solamente in un secondo tempo ottiene l’avallo dell’Arabia Saudita (in funzione anti-iraniana) e del Pakistan che vedeva nei Talebani una forza in grado di pacificare il Paese confinante devastato dalla guerra civile tra fazioni rivali. Sono gli stessi comunisti-maoisti afgani, peraltro ovviamente antagonisti dell’Emirato Islamico, ad affermare che il movimento, un piccolo raggruppamento all’inizio, si è costituito per combattere i mujaheddin (finanziati e armati dagli Stati Uniti14 contro il governo in carica sostenuto dall’URSS)15.

All’epoca del suo insediamento al potere nel 1996, la dirigenza talebana non sembrava aver enunciato un programma politico articolato: l’intendimento del movimento era in primo luogo quello di ristabilire nel Paese una giustizia intesa come regola della convivenza sociale – sottratta, cioè, all’arbitrio delle fazioni in lotta tra loro per l’egemonia – fondata sulla legge islamica. La sharia, comunque, era già stata introdotta quale legge suprema dello Stato dall’Alleanza del Nord nel 1994, non dai Talebani, che l’hanno comunque mantenuta in vigore.
Dopo essere stati rovesciati nel 2001 dall’intervento americano che ha portato al governo, insieme a Karzai, molti dei criminali appartenenti all’Alleanza del Nord, i Talebani lanciarono alcune ondate insurrezionali, le più estese e importanti nel 2009 e nel 2014.
Per molti anni i media occidentali hanno assunto sotto la comune etichetta di Talebani formazioni combattenti contro il governo centrale tra loro differenti e in vario grado accettati dalla popolazione quali gruppi resistenti impegnati in una guerra di liberazione nazionale, uno dei temi centrali sui quali questi gruppi hanno incentrato la propria propaganda. Certamente l’identità religiosa e etnica pashtun rappresentava una base forte per guadagnare consenso soprattutto nelle aree rurali. Bisogna, però, tenere nel dovuto conto il fatto che la drammatica incapacità del governo Karzai16 di dare risposta alle più elementari esigenze di sostentamento e di servizi sociali per le comunità ha contribuito molto a spostare simpatie verso i fondamentalisti. L’insorgenza aveva, dunque, una diffusione molto maggiore di quanto riportato dalla nostra informazione. Quanto, poi, la pressione violenta esercitata dai Talebani abbia avuto parte nel costringere i giovani delle province ad arruolarsi nelle formazioni armate islamiste non è dato sapere.
Quello che sappiamo è che questa insorgenza aveva progressivamente attenuato gli accenti più radicalmente jihadisti per avvicinarsi a concezioni nazionaliste, rozzamente antimperialiste e di minore assolutismo ideologico sotto la guida del talebano mullah Omar, capo spirituale riconosciuto dell’”emirato”. Gli “strateghi” americani hanno contribuito, più o meno consapevolmente, a far prevalere la fazione Haqqani, la più ideologicamente intransigente e regressiva, nella lotta per il potere contro Omar. Come riporta Kamran Bokhari, analista dell’agenzia intelligence privata statunitense Stratfor, «l’obiettivo di Haqqani era quello di legarsi alla componente più forte per portare avanti i propri progetti che trovavano parziale coincidenza con quelli di altri gruppi insorgenti regionali, jihadisti, taliban e narco-criminali. Questa circostanza, secondo alcuni analisti, avrebbe indotto molte delle agenzie di intelligence internazionali a identificare in Haqqani il possibile negoziatore con il Pakistan per [governare] l’Afghanistan abbandonato dall’Occidente [intenzionato a uscire dal pantano afghano, ndr]»17. È appunto con questa fazione, vittoriosa dopo la morte del mullah Omar e attualmente al governo, che hanno trattato gli americani. Proprio con la consorteria che vediamo ora esercitare il massimo grado di disumana brutalità contro la popolazione: un ottimo esempio di come Washington promuove i diritti umani.
Le ragioni del successo degli odierni Talebani nel prendere rapidamente il potere al momento del ritiro delle truppe americane non sono, dunque, difficili da spiegare.

Al di là di qualche sommaria inchiesta condotta da organismi internazionali quali Human Right Watch18 o Asia Foundation19, che riportano significative percentuali di consenso al movimento talebano (in quanto organizzazione di resistenza anti-americana e anti-governativa, anche se ultra-reazionario) in quegli anni, è quasi impossibile farsi una idea di quanta parte della popolazione lo abbia effettivamente sostenuto. È, però, un fatto che le file dei miliziani hanno registrato considerevoli adesioni, in parte certamente forzate dalla violenza diretta e dalle miserevoli condizioni di vita, ma, come viene ampiamente riconosciuto anche da queste stesse fonti, dovute al rigetto della dilagante corruzione e della delinquenza comune, degli abusi e vessazioni subite per mano degli agenti governativi, delle sentenze considerate ingiuste (perchè contrarie alla legge coranica) emesse dai tribunali statali. Nonostante la grandissima riduzione del consenso verificata in questi ultimi anni, sono ancora queste le motivazioni addotte da chi ha visto con favore la vittoria dei Talebani. Non meno comprensibile è il fatto che la fine della guerra, dei bombardamenti che hanno provocato un grandissimo numero di morti civili e di invalidi, abbia guadagnato consensi agli artefici della “cacciata degli americani”.
E bisogna considerare che «a metà del 2020, le forze talebane controllavano o esercitavano un’influenza significativa in moltissime province e distretti dell’Afghanistan. In queste aree, i residenti rispettano una serie parallela di leggi governative e regolamenti imposti dai talebani. Alcune organizzazioni non-governative (ONG) – finanziate da donatori internazionali e che lavorano con il governo afghano – forniscono servizi sociali, compresa l’istruzione e l’assistenza sanitaria, nelle aree controllate dai talebani. I leader talebani hanno assunto una certa [funzione di] supervisione su questi servizi e hanno emanato regolamenti relativi alle loro operazioni. I funzionari talebani sono in contatto diretto con le ONG e con i funzionari del governo afgano locale attraverso la mediazione degli anziani delle comunità e dei consigli comunitari»20. Sono fatti che contribuiscono a spiegare la rapida vittoria talebana.
Tanto più suscita ammirazione quella parte della popolazione, primo tra tutti il coraggioso movimento delle donne, che apertamente sfida l’ordine talebano manifestando la propria opposizione nelle strade.

CHI SI OPPONE E REAGISCE
Per quanto, almeno in apparenza, non ci siano organizzazioni capaci di dare avvio ad una resistenza popolare, sono documentate mobilitazioni spontanee in tutte le principali città. Secondo alcune testimonianze riportate dalla piattaforma online Green Left, nonostante i ripetuti appelli dei Talebani perché i dipendenti pubblici facessero ritorno ai loro posti di lavoro, un gran numero degli occupati negli uffici governativi, negli ospedali e nelle università e scuole, oltre alla maggioranza degli studenti, è rimasto assente: «Per oltre un mese, questo sciopero non dichiarato ha paralizzato il Paese»21 sostiene Yasmeen Afghan sulle colonne di Kabul Diaries.
«Negli ultimi 20 anni, una delle nostre richieste era la fine dell’occupazione USA/NATO e ancora meglio se portassero con sé i loro fondamentalisti islamici e tecnocrati e lasciassero che la nostra gente decidesse il proprio destino. Questa occupazione ha portato solo a spargimenti di sangue, distruzione e caos. Hanno trasformato il nostro Paese nel luogo più corrotto, insicuro, droga-mafia e pericoloso soprattutto per le donne. (…) La maggior parte degli afgani comprende bene che la guerra in corso in Afghanistan non è la guerra degli afgani e a beneficio del paese, ma condotta da potenze straniere per i propri interessi strategici e gli afgani sono solo il carburante della guerra»22. Sono le parole di una attivista di RAWA23 (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane) intervistata da Sonali Kolhatkar il 21 agosto 2021.
Ali Abdi, dalle pagine della piattaforma online Lefteast, ci ricorda che «La lotta delle donne afghane per l’uguaglianza non è iniziata con la guerra degli Stati Uniti e della NATO nel 2001 e non finirà con l’acquisizione dei talebani nel 2021. Gli sforzi collettivi degli afgani per l’uguaglianza di genere risalgono forse a un secolo prima, a cominciare da ciò che ha portato a sostanziali riforme nelle leggi sulla famiglia e sul matrimonio/divorzio e l’istituzione delle prime scuole per ragazze negli anni ’20, quando Amanullah Khan (1919-1929) e la regina Suraya erano al potere. Nei decenni che seguirono, e in mezzo alla forte opposizione delle fazioni più conservatrici della società afghana, abbiamo assistito a un graduale ma significativo progresso nella partecipazione sociale e politica delle donne: hanno ottenuto il diritto di voto, hanno gestito le proprie attività e sono diventate ministri del governo. , senatori, e professori universitari, sebbene molti di questi cambiamenti fossero certamente centrati su Kabul e non attraversassero agevolmente le linee di classe ed etniche o le aree rurali dove continua a vivere la maggioranza degli afghani. L’occupazione sovietica dell’Afghanistan e la conseguente rivolta militare [dei mujaheddin] causarono gravi battute d’arresto rispetto a ciò che le donne avevano ottenuto, e lo scenario di guerra dominato dagli uomini con le sue politiche associate di violenza e crudeltà maschile fece sì che molte donne lasciassero il paese o, se non erano abbastanza privilegiate o non avevano i mezzi per farlo, li costringeva a lasciare il posto di lavoro ea restare a casa. Ma anche dopo l’ascesa degli islamisti e sotto il dominio dei talebani, le donne hanno costantemente trovato il modo di organizzare scuole sotterranee per ragazze, stabilire reti di sostegno nei loro quartieri per i poveri e le vedove o affrontare i talebani per le strade di Kabul»24.
Le manifestazioni delle donne afghane hanno suscitato emozione e fatto nascere momenti e iniziative di solidarietà in Occidente, in Europa e in Italia, ma la stampa tende ad ignorare la partecipazione della popolazione in generale a forme di protesta spontanee. L’informazione circola quasi solo sul web ad opera di individui e di pochi giornalisti coraggiosi: fonte preziosa sono le dirette di Claudio Locatelli25, rimasto in Afghanistan almeno per 25 giorni dopo la caduta di Kabul. Video amatoriali testimoniano come alle donne che manifestano si uniscono uomini di tutte le età26.
Hambastagi, il Partito della Solidarietà Afghana che si proclama laico e progressista, dichiara che proseguirà nella sua opposizione al fondamentalismo e al terrore talebano.
RAWA – le cui militanti hanno un loro chiaro indirizzo politico maturato fino dagli anni precedenti la rivoluzione del 1978 –dichiara di lottare per i diritti delle donne, il laicismo e la democrazia.

QUALE DEMOCRAZIA?
La popolazione, a grande maggioranza giovane, ha forse un pallido ricordo del primo governo dei talebani e non ha vissuto gli avvenimenti precedenti (la rivoluzione del 1978, la reazione armata dei gruppi jihadisti sostenuti dagli Stati Uniti, l’occupazione sovietica e la conseguente guerra delle e tra le fazioni che ha portato al governo l’ultra reazionaria Alleanza del Nord). L’occupazione americana, anche se vissuta come una dominazione odiosa, ha aperto spazi di partecipazione nel sociale in ruoli del tutto subordinati, ma conformi ai modelli di gestione occidentali, modelli per i quali è necessaria una base di istruzione, la promozione di competenze e mansioni femminili, una relativa libertà di movimento27. Nonostante questa “apertura” non abbia inciso sulla struttura autoritaria e patriarcale della società né sulla sua forma istituzionale e giuridica e non abbia prodotto alcun reale sviluppo economico, ma abbia piuttosto reso endemica la corruzione e la dipendenza da produzioni per mercati largamente irregolari (oppio innanzitutto), ha comunque generato aspettative di emancipazione.
Una di queste aspettative è quella del superamento della condizione di povertà e di degrado, di privazione dei diritti elementari, di negazione di prospettive per il futuro: questo ci si aspetta dalla democrazia. Difficile, per chi subisce giorno dopo giorno sul proprio territorio la “guerra globale” promossa dalla “democrazia” occidentale contro tutte le forme di autogoverno che rappresentano un ostacolo ai suoi interessi materiali uscire dall’equivoco.
Difficile rendersi conto che la democrazia alla quale ci si appella non è che uno dei sistemi attraverso i quali si diffonde il modello di sviluppo capitalistico, che non è sinonimo di progresso sociale, ma è esattamente quel sistema che promuove il nuovo colonialismo, lo sfruttamento delle risorse naturali ed umane e la guerra permanente.
Schierarsi a sostegno delle necessarie, non solo legittime, aspirazioni della popolazione afghana e delle coraggiose donne che sono la punta più avanzata di un movimento per l’emancipazione economica, sociale e politica, non può che significare schierarsi attivamente contro questa democrazia, contro le sue avventure belliche dirette e indirette, contro la militarizzazione sociale interna e le politiche di esclusione e respingimento ai nostri confini.
3 ottobre 2021

Valeria Poletti

  • 1 «L’ultima elezione presidenziale afghana si è svolta il 28 settembre [2019], dopo essere stata rinviata per diversi anni. A causa di numerose irregolarità e proteste da parte di vari candidati, i risultati non sono stati annunciati fino al 18 febbraio 2020, quasi cinque mesi dopo le elezioni. (…) Ci sono state numerose irregolarità nel processo elettorale, tra cui la violenza in molti dei seggi elettorali, l’uso di dispositivi di voto biometrici sconosciuti e vere e proprie frodi elettorali. Di conseguenza, solo circa 1,8 milioni dei 9,6 elettori registrati hanno votato e quasi 300.000 voti sono stati contestati e molti respinti». (Grant Farr, The Afghan Peace Agreement and Its Problems – 6 aprile 2020www.e-ir.info/2020/04/06/the-afghan-peace-agreement-and-its-problems/)
  • 2 «I leader talebani che hanno negoziato l’accordo di pace appartengono al gruppo dirigente talebano denominato Quetta Shura. Questo gruppo opera dal Pakistan ed è in gran parte un’organizzazione politica ed economica. La Quetta Shura controlla il redditizio commercio di oppio ed eroina che finanzia le operazioni militari dei talebani in Afghanistan. La Quetta Shura è guidata da alti talebani, tra cui Haibutullah Akhundzada, Mohammed Yaqub, Mohammed Omar e Abdul Ghani Baradar». (ibidem)
  • 3 Kimberly Dozier, Secret Annexes, Backroom Deals: Can Zalmay Khalilzad Deliver Afghan Peace for Trump? – 15 febbraio 2020 – https://time.com/5784103/secret-annexes-backroom-deals-can-zalmay-khalilzad-deliver-afghan-peace-for-trump/
  • 4 Le terre rare sono 17 metalli che sono fondamentali per l’industria elettronica e delle tecnologie avanzate essendo indispensabili per la produzione di batterie al litio, pale eoliche e pannelli solari. La Cina ne controlla quasi interamente la produzione mondiale: gli Stati Uniti e l’Europa dipendono rispettivamente per l’80% e il 98% dalla Cina per la fornitura di terre rare.
  • 5 Rare Earth: Afghanistan Sits on $1 Trillion in Minerals – 5 settembre 2014 – https://www.nbcnews.com/science/science-news/rare-earth-afghanistan-sits-1-trillion-minerals-n196861
  • 6 Non si tratta solamente di una risposta al rapido ammodernamento e potenziamento della marina cinese, ma anche di un argine posto alle ambizioni europee di giocare un ruolo nella regione dell’Indo-Pacifico: questo accordo, che ha prodotto la cancellazione della commessa miliardaria che la Francia aveva concordato con l’Australia per la fornitura dei sottomarini, prevede la condivisione di informazioni tra i tre Paesi in aree come l’intelligenza artificiale, la cybersicurezza, i computer quantistici e le capacità di difesa sottomarine. «Oltre alla perdita commerciale di un contratto del valore di 90 miliardi di AUD all’industria della difesa francese, il patto solleva anche interrogativi sulle pretese di Parigi come potenza indo-pacifica. L’eredità dell’impero francese, unica tra i paesi europei, comprende diversi territori della regione, come La Reunion e la Polinesia francese, che ospitano circa 1,6 milioni di cittadini francesi e comprendono una zona economica esclusiva di circa 9 milioni di chilometri quadrati. Di fronte alle ambizioni espansionistiche della Cina, la Francia ha tentato di riaffermare la sua potenza militare nell’Indo-Pacifico. Nella regione sono dispiegati circa 7.000 soldati. Nel 2020, per la prima volta in due decenni, la Francia ha inviato un sottomarino nucleare nell’Indo-Pacifico come mezzo per segnalare che era disposta e in grado di proteggere i propri interessi lì». (Ido Vock, Why EU support for France over Aukus has been muted – 22 settembre 2021 – https://www.newstatesman.com/world/europe/2021/09/why-eu-support-for-france-over-aukus-has-been-muted)
  • 7 Eugenio Roscini Vitali, Gli USA puntano sulla Marina (e nuove basi) per tenere sotto tiro l’Afghanistan – 9 settembre 2021 – https://www.analisidifesa.it/2021/09/gli-usa-puntano-sulla-marina-e-nuove-basi-per-tenere-sotto-tiro-lafghanistan/
  • 8 Formalmente, gli alleati NATO sono entrati in Afghanistan per ottemperare all’articolo 5 del trattato, cioè a fianco degli Stati Uniti colpiti un attacco terroristico proveniente da un Paese terzo. Nei fatti pensavano di ottenere in cambio assistenza alle loro operazioni in Africa 9 Cfr.: L’Italia e la guerra che profuma di zafferano e oppio – 24 ottobre 2015 – https://www.combat-coc.org/litalia-e-la-guerra-che-profuma-di-zafferano-e-oppio/
  • 10 Di Maio: “Valutiamo presenza a Kabul con altri partner” – 7 settembre 2021 – https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/afghanistan-Di-Maio-Valutiamo-presenza-a-Kabul-con-altri-partner-giudicheremo-talebani-da-azioni-a8a4db0f-c43c-4939-8b67-79138c20f951.html?refresh_ce
  • 11 Per i talebani, la realizzazione del gasdotto TAPI ha grande rilevanza. TAPI fornirebbe risorse energetiche al Paese e, soprattutto, entrate sotto forma di tasse di transito. Quale sarà la reazione dell’Iran, competitore diretto quanto a trasporto e commercializzazione del gas naturale?
  • 12 «Il Pakistan tende a sostenere i partiti islamici sunniti in Afghanistan, che sono prevalentemente pashtun, come Hezb-e Islami e i talebani di Quetta Shura. Mentre il Pakistan non vuole vedere un forte leader pashtun emergere a Kabul, cosa che potrebbe provocare sentimenti nazionalisti oltre il confine, vorrebbe vedere un Afghanistan flessibile, guidato dai pashtun, che si troverebbe saldamente sotto la sua influenza e accetterebbe la legittimità della linea Durand [il confine tra i due Paesi, ndr]. Tale politica è guidata in parte dalle preoccupazioni regionali riguardo all’India e, in misura minore, all’Iran. India e Iran tendono a sostenere le minoranze non pashtun in Afghanistan, come i tagiki e gli hazara, e il Pakistan teme che se questi gruppi salissero al potere a Kabul, ciò significherebbe l’accerchiamento [del Pakistan] da parte dell’India e dei suoi alleati. Inoltre, l’esercito pakistano ha da tempo ritenuto di aver bisogno di un governo amichevole in Afghanistan che gli offrirebbe la “profondità strategica” in qualsiasi futura guerra con l’India». (Pakistan and Afghanistan – https://www.understandingwar.org/pakistan-and-afghanistan)
  • 13 «L’Afghanistan ha vissuto una breve parentesi di avvio alla modernità a seguito della rivoluzione del 1978, una rivoluzione immediatamente paralizzata e soffocata proprio dall’attacco condotto da milizie ultrareazionarie e settarie, ispirate all’Islam politico, anch’esse sostenute, armate e finanziate dagli Stati Uniti (con collaborazione diretta di Israele e dell’ISI pakistana) grazie ad esplicita decisione del Congresso americano autorizzata dal presidente Carter con direttiva del 3 luglio 1979 . Al popolo afgano non è stato permesso di uscire dal medioevo». (Valeria Poletti, Il diavolo e l’acqua santa – 2010 – www.valeriapoletti.com )
  • 14 «Tutti questi gruppi fondamentalisti [confluiti poi nell’Alleanza del Nord per combattere il primo governo dei Talebani del 1996 e, in parte, integrati nel governo Karzai dal 2001, ndr], non erano niente all’inizio. La gente li odiava. Avevano una cattiva fama in Afghanistan e non avevano alcun sostegno tra gli studenti di Kabul, e nemmeno tra le persone nelle aree e nei villaggi locali. I fondamentalisti si chiamavano Akhwan Muslimeen (Fratelli Musulmani), ma la gente li chiamava Akhwan-ul Shayateen (Evil Brothers). (…) Ciò che ha dato a questi fondamentalisti la posizione odierna è stato il sostegno di altri paesi. Gli Stati Uniti sono stati il principale paese che ha sostenuto questi diversi fondamentalisti, compresi i talebani. Durante il periodo dell’occupazione sovietica, sono stati spesi più di 3 miliardi di dollari donati dagli Stati Uniti ai partiti fondamentalisti più brutali. Il Pakistan ha anche addestrato la maggior parte di questi fondamentalisti. E l’Arabia Saudita, l’India, l’Iran, la Turchia, l’Uzbekistan e anche il governo del Giappone, purtroppo, li hanno sostenuti. Questo in nome del sostegno o della difesa del popolo afghano contro la Russia. (…) I fondamentalisti, che erano molto impopolari tra la gente sono diventati improvvisamente proprietari di grandi campi profughi. Sono stati dati loro milioni di dollari e armi. Hanno tutti enormi conti bancari». (Interview with Sahar Saba, a representative of Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – 27 febbraio 2003 – http://www.rawa.org/flagofunity.htm)
  • 15 Interview with Afghanistan Maoist Leader – inverno 2006 – http://www.scribd.com/doc/19973641/Communist-Party-Maoist-of-Afghanistan
  • 16 «Fa parte del background politico di Karzai il fatto che sia stato consigliere per le trattative tra i talebani e la Unocal, una compagnia petrolifera statunitense. Inoltre [Karzai] è stato viceministro degli Esteri dal 1992 al 1996 quando i fondamentalisti erano al potere a Kabul e diversi gruppi armati si battevano per la sete di potere. Più di 50.000 civili sono stati uccisi solo a Kabul durante questi sanguinosi anni. Sebbene cerchi di atteggiarsi a democratico, la gente lo guarda con occhi dubbiosi, criticandolo molto quando cerca di scendere a compromessi con l’Alleanza del Nord». (Interview with Sahar Saba, a representative of Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – 27 febbraio 2003 – http://www.rawa.org/flagofunity.htm)
  • 17 l’insorgenza in Afghanistan, in Centro militare studi strategici ricerca 2010 a cura di Claudio Bertolotti (direttore della ricerca) – https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMISS/Pubblicazioni/Documents/56992_BERTOLOTTpdf.pdf. Questo studio rappresenta una preziosa, precisa e dettagliata, fonte di informazioni sulla natura, la composizione e le strategie dei gruppi di opposizione al governo fantoccio.
  • 18 «La caratteristica principale e distintiva del conflitto armato in Afghanistan negli ultimi due decenni è stato il danno ai civili causato da massicce violazioni dei diritti umani e crimini di guerra da tutte le parti. Questi abusi dilaganti hanno a loro volta alimentato il ciclo del conflitto in molti modi, anche stimolando il reclutamento nell’insurrezione, rendendo quasi impossibile il dialogo politico e minando gli sforzi per promuovere la stabilità attraverso una migliore governance. (…) Ho passato gran parte di questi ultimi 20 anni a parlare con gli afghani delle conseguenze dell’antiterrorismo andato male – le morti e i feriti tra i civili che non sono mai entrati nel conteggio delle vittime dell’attacco aereo del Pentagono; i raid notturni che si sono trasformati in esecuzioni sommarie contro persone che hanno avuto la sfortuna di vivere in un quartiere conteso; la tortura delle persone in custodia che ha distrutto vite e ha motivato la vendetta. Ho anche parlato con molti afghani delle conseguenze impreviste di queste azioni: la rinascita dei talebani favorita dagli abusi e dalla corruzione del governo afghano; le lamentele e la delusione che hanno spinto le persone a perdere la fiducia che l’Afghanistan post-2001 sarebbe stato migliore». (Patricia Gossman, How US funded abuses led failure Afghanistan – 6 luglio 2021 – https://www.hrw.org/news/2021/07/06/how-us-funded-abuses-led-failure-afghanistan
  • 19 cfr.: Lindsay Maizland, The Taliban in Afghanistan – 15 settembre 2921 – https://www.cfr.org/backgrounder/taliban-afghanistan
  • 20 Non hai diritto di lamentarti – 23 settembre 2021 – https://www.hrw.org/report/2020/06/30/you-have-no-right-complain/education-social-restrictions-and-justice-taliban-held
  • 21 Yasmeen Afghan, Kabul diaries part 15 – 1 ottobre 2021 – https://www.greenleft.org.au/content/kabul-diaries-part-15-afghanistan-undeclared-general-strike-taliban-occupation
  • 22 RAWA responds to the taliban takeover – https://newpol.org/rawa-responds-to-the-taliban-takeover/?fbclid=IwAR3wZykxlpimMTGonQw6Qq4nvM-27of5ovkCHFXeSVMEBikgNGDfNNKvUqY
  • 23 «RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan, è stata fondata a Kabul, Afghanistan, nel 1977 come organizzazione politico/sociale indipendente di donne afgane che lottano per i diritti umani e per la giustizia sociale in Afghanistan. I fondatori erano un certo numero di intellettuali afgane sotto la sagace guida di Meena che nel 1987 fu assassinata a Quetta, in Pakistan, da agenti afgani dell’allora KGB in connivenza con la banda fondamentalista di Gulbuddin Hekmatyar. L’obiettivo di RAWA era quello di coinvolgere un numero crescente di donne afghane in attività sociali e politiche volte all’acquisizione dei diritti umani delle donne e a contribuire alla lotta per l’istituzione di un governo basato su valori democratici e laici in Afghanistan. Nonostante l’atmosfera politica soffocante, RAWA fu presto coinvolta in attività diffuse in diversi ambiti socio-politici, tra cui l’istruzione, la salute e la generazione di reddito, nonché l’agitazione politica». (http://www.rawa.org/rawa.html)
  • 24 In Search of Afghanistan: An Interview with Ali Abdi – 6 settembre 2021 – https://lefteast.org/in-search-of-afghanistan-an-interview-with-ali-abdi/
  • 25 https://www.capital.it/articoli/vi-racconto-quello-che-realmente-accade-in-afghanistan/
  • 26 https://www.facebook.com/ATAI1996/videos/1516179632068806 ; https://www.facebook.com/ATAI1996/videos/223352509796270
  • 27 In una intervista del 30 settembre 2021, Selay Ghaffar del Partito della Solidarietà afghana dice: «Durante questo periodo di 20 anni [2001-2021 sotto i governi Karzai e Ghani], le donne sono state lapidate, le donne sono state vittime di attacchi con l’acido. (…) D’altra parte, si è fatta vetrina di alcune cose, come le donne in parlamento o nel governo. Ci sono state anche donne che hanno iniziato a lavorare fuori. C’erano alcune cose positive] per le donne come l’istruzione e la possibilità di uscire da sole e tutto il resto, ma non era supportata da infrastrutture adeguate e spesso dipendeva interamente dal denaro delle ONG o degli Stati Uniti, che erano impegnati a saccheggiare l’Afghanistan in nome dei diritti delle donne. (…) La maggior parte di queste donne in parlamento erano, in realtà, gli altoparlanti dei paesi imperialisti e degli occupanti. Erano i veri impedimenti alla vera resistenza dei rivoluzionari afgani e del movimento progressista. C’era qualcosa per le donne, ma non posso dire che questa fosse libertà, non posso davvero dire che fossero diritti. Dico sempre che i diritti si devono conquistare con la lotta, e poi non possono essere tolti così facilmente. Non possono essere regalati. Ecco perché tutte queste donne al governo dicevano che quando gli Stati Uniti se ne fossero andati, tutti inostri guadagni sarebbero stati annullati. (…) chiediamo sempre alla donna afghana di lottare contro questi gruppi fondamentalisti, di alzare la voce per fare un forte movimento di resistenza; dovremmo prendere i nostri diritti con le nostre mani». (Marcel Cartier e Selay Ghaffar, Exclusive Interview with Selay Ghaffar – 30 settembre 2021 – https://www.greenleft.org.au/content/revolutionary-afghan-woman-who-stayed-fight-exclusive-interview-selay-ghaffar-solidarity?fbclid=IwAR2I6dBMzA-P0T

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