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I Talebani di oggi disprezzano la donna come quelli di 20 anni fa: Giuliana Sgrena ci spiega perché non si può negoziare con loro

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Cultura.tiscali.it – Claudia Sarritzu – 21 Agosto 2021

Nella sua carriera ha avuto modo di realizzare numerosi reportage da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia, e Afghanistan.Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam.

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Giornalista, scrittrice e politica italiana. Non ha bisogno di presentazioni Giuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto, nella sua carriera di cronista ha avuto modo di realizzare numerosi reportage da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia e Afghanitan. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell’Islam, tema sul quale ha scritto un libro Dio odia le donne per Il Saggiatore.

In Iraq venne rapita il 4 febbraio 2005 dalla Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare una serie di reportage per il suo giornale. È stata liberata dai servizi segreti italiani il 4 marzo, in circostanze drammatiche che hanno portato al suo ferimento e all’uccisione di Nicola Calipari, dirigente dei servizi di sicurezza italiani che dopo una lunga ed efficace trattativa la stavano portando in salvo.

Appena tornati al potere nella loro prima conferenza stampa i talebani hanno annunciato che la democrazia non è contemplata. “Non ha radici nel Paese” e che la legge applicata sarà quella della sharia. 
Il sistema legale islamista non è un corpus di diritto positivo: non esiste un codice scritto che dica in modo netto cosa fare e cosa non fare, mentre esiste un sistema di princìpi cui i fedeli si ispirano per la condotta personale.
Tale sistema è elaborato mediante un’interpretazione umana di quattro fonti tradizionali: Corano e Sunna (le principali) e Qiya e Ijma.

Quindi non immaginatelo come un Codice penale.
In più va precisato che la parola non ha un solo significato. Viene usata dai popoli di lingua araba per designare una religione profetica nella sua totalità. Ma per molti musulmani, invece, il termine significa semplicemente “giustizia”.
Per questo appare molto fumosa la dichiarazione dei talebani nel loro ritorno al governo dopo vent’anni: “L’Emirato islamico non vuole che le donne siano vittime, dovrebbero essere nelle strutture di govero sulla base di quanto prevede la sharia”. Cosa significa questo?

C’è un altro punto da ribadire: la sharia cambia tra Stato e Stato, come abbiamo visto, ma anche all’interno dello stesso Stato, magari in momenti storici differenti.

In questa intervista è lecito chiedersi: quale sarà la sharia del “nuovo” Afghanistan talebano?

L’Emirato islamico afghano è esistito già dal 1996 al 2001. In quegli anni i talebani imposero un’interpretazione della sharia davvero folle, che prevedeva la condanna a morte per i comunisti e la mutilazioni di mani e piedi per ladri e criminali. Le donne poi non avevano nessun diritto: non potevano uscire di casa senza burqa e senza il marito o un parente di sangue, non potevano guidare bici, motocicli e automobili. La separazione dei sessi negli spazi pubblici era totale. Non era consentito loro nemmeno apparire in fotografie, riviste, tv e giornali, né potevano lavorare fuori casa ed entrare in contatto con uomini diversi dal marito o dai parenti, compresi i medici. Divieto totale di cosmetici, gioielli, acconciature, scarpe e abiti “immodesti”. La donna fu cancellata. Una specie di sterminio della personalità femminile ovviamente non perpetuato fisicamente perché le donne servono a partorire. 
La domanda che tanti osservatori e noi in questo articoli ci poniamo è come sarà la “nuova” sharia dell’Afghanistan? A giudicare dalle dichiarazioni dei talebani nella loro prima storica conferenza stampa dopo la presa del potere, si viaggia verso una maggiore “apertura” e un’applicazione meno rigida dei precetti religiosi nella vita pubblica. La “concessione” di una carriera politica alle donne suona come una campana a festa. La chiave di volta sarà però proprio quel “entro i limiti della sharia”.

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Quale è la differenza (se c’è) tra i talebani di oggi e quelli di ieri?

Si vedrà alla prova dei fatti se c’è stato qualche cambiamento. Dove sono arrivati finora non hanno dato segni di cambiamento: hanno sparato sui manifestanti a Jalalabad, licenziato donne, come la giornalista che lavorava alla televisione. Quando sono arrivati a Bamyan hanno saccheggiato i raccolti. Vanno casa per casa a cercare i loro «nemici». Non so a che cosa può portare il dialogo con i taleban: gli Usa hanno fatto un accordo, di cui non sono stati resi noti tutti i contenuti, ma sicuramente le promesse non sono state mantenute. Gli Usa, probabilmente, volevano negoziare solo il loro ritiro. Certamente in vent’anni ci sono stati dei cambiamenti che non possono non aver avuto effetti anche sui taleban, come l’uso dei telefoni cellulari. Mi ricordo quando sono andata a Kabul nel ’98 (ai tempi dell’emirato) era vietato fotografare, io sono riuscita a fare delle foto nascondendomi e usando il teleobiettivo. Adesso pensare di vietare le fotografie sarebbe arduo vista la diffusione dei cellulari.

Quanto consenso hanno nel Paese? Come è stato possibile che in 20 anni la loro follia non sia stata sradicata?

Un consenso minimo evidentemente ce l’hanno anche se non si può quantificare, a giocare a loro favore è ancora la struttura tribale della società. L’origine pashtun fa si che l’appartenenza etnica e la cultura patriarcale di quella società procuri loro degli appoggi, per scelta o per mancanza di alternativa. Quella dei taleban non è follia è più che una religione, una ideologia, è l’islamismo portato agli estremi. Un’ideologia che non è mai stata combattuta in quanto tale. In vent’anni di intervento occidentale, essenzialmente militare, la situazione in Afghanistan è cambiata: i taleban sono stati cacciati, sono state garantite libertà, soprattutto alle donne di studiare, lavorare, etc. Ma non è stato facile liberarsi da tutte quelle paure che erano state introiettate ai tempi dei taleban: il burqa dà sicurezza, protegge le donne. Non era vero, ma c’è voluto tempo per rendersene conto. I ragazzi che ho incontrato, dopo l’arrivo degli occidentali, non sapevano esprimere un pensiero, una critica, perché erano cresciuti solo con imposizioni da rispettare. Sebbene le afghane e gli afghani negli ultimi anni si siano appropriati degli spazi che si aprivano, i signori della guerra hanno continuato a far parte delle istituzioni del paese e del suo governo. Questi erano stati formati e armati dall’occidente per combattere i sovietici in nome di una guerra santa, basata su un fondamentalismo religioso.

La concezione della donna nel paese anche tra le nuove generazioni resta subalterna?

Come in tutte le società anche in Afghanistan ci sono donne che accettano la sottomissione e altre che si ribellano e lottano per i propri diritti, per l’eguaglianza di genere. A Kabul ho comprato una guida dell’Afghanistan pubblicata negli anni ’70, dove le fotografie mostravano le donne con la minigonna. Kabul era un riferimento culturale per tutta la regione in passato. Un programma di modernizzazione del paese era stato avviato da re Amanullah negli anni venti – scuole anche per le donne, abolizione della poligamia e dell’obbligo del velo – ma poi era stato costretto a dimettersi per l’opposizione dei religiosi conservatori. Ai tempi dei taleban c’erano donne che rischiavano la vita per organizzare scuole per le bambine, ovviamente clandestine. Esistono poi diverse associazioni di donne, fin dal 1977 è attiva Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan.

Fuori dalle grandi città la vita delle donne era cambiata o è rimasta sostanzialmente uguale?

Sicuramente vi è una differenza tra la situazione nelle città, soprattutto a Kabul, e nelle zone rurali, dove la società tribale e patriarcale non ha permesso cambiamenti sostanziali.

La resistenza nel Panshir è una speranza? La donna in quel contesto come è vista?

Il Panshir non ha mai ceduto il potere ai taleban ai tempi dell’emirato e nemmeno ai sovietici. La resistenza dei tagiki, fino al 2001 guidati da Massud padre e ora dal figlio, è stata esemplare. Tuttavia essendo l’Afghanistan ancora diviso etnicamente non bastano i tagiki per sconfiggere i taleban che peraltro godono dell’appoggio, forse determinante anche nella rapida avanzata, del Pakistan e, soprattutto, dei suoi servizi segreti. D’altra parte i taleban sono stati formati e finanziati per la loro prima conquista del potere nel 1996 da Pakistan, Arabia Saudita e Stati uniti. Per quanto riguarda le donne il Panshir non è un’isola felice, la religione e le tradizioni pongono forti limiti alle donne. La presenza ad Anabah di un centro di ostetricia e ginecologia di Emergency ha permesso la formazione e l’assistenza di molte donne.

Credi che il mondo islamico in queste ore non stia prendendo una posizione netta contro questi criminali?

Penso che non solo il mondo islamico eviti di affrontare le conseguenze del ritorno al potere dei taleban, ma anche coloro che hanno occupato il paese per vent’anni e hanno una grande responsabilità. Penso che tutti coloro che in occidente e anche in Italia parlano di nuovi taleban e della necessità di negoziare con loro, ignorino l’ideologia che li sorregge. E c’è da chiedersi: che cosa si può negoziare con i taleban?

 

 

 

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