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Dall’Afghanistan una orchestra di sole donne

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Un appuntamento da parte delle musiciste dell’Orchestra Olimpia di Pesaro per le loro sorelle afgane dell’orchestra Zohra per l’8 marzo 2023 un’idea, un’utopia concreta, che non deve non può morire

Il Manifesto – 14 novembre 2021 – di Guido Barbieri  

orchesta ZhoraE adesso? Adesso che Zohra non c’è più, dissolta, volata via, dispersa ai quattro angoli del mondo, che cosa possiamo fare? O anche, semplicemente, che cosa possiamo pensare? Questo nome-prisma, dai mille significati (alba, fiore, aurora, bellezza, Venere, dea della musica), dice poco o nulla, forse, dalle nostre parti. E invece nasconde una delle esperienze più «radicali» della storia recente. Della storia dell’Afghanistan, ma a ben pensarci della storia del mondo. Zohra è innanzitutto un’orchestra, nata a Kabul nel 2015.

Un’orchestra diversa da tutte le altre, però: perché i trenta musicisti che l’hanno fatta nascere, sono in realtà musiciste: donne, ragazze, giovanissime: tutte tra i tredici e i vent’anni. L’idea di un’orchestra femminile, che anche nel cosiddetto Occidente non ha mai avuto una gran fortuna, è stata per la verità di un uomo: Ahmad Sarmast, musicologo, attivista per i diritti umani, che nel 2010 ha fondato a Kabul l’Istituto Nazionale Musicale Afgano (ANIM, in sigla): una scuola che fino a pochi a pochi mesi ospitava, e metteva sulla strada della musica, 350 allievi: ragazzi e ragazze di strada, orfani e orfane, adolescenti senza distinzione di sesso, religione e censo. Ed è proprio dall’albero dell’Istituto che è spuntato, sei anni fa, il ramo fiorito di Zohra.

Un ramo cresciuto a velocità straordinaria: Zohra, approfittando delle moderate libertà di movimento concesse dal governo di Mohammad Ghani, esce dalle aule dell’Istituto, oltrepassa le frontiere del paese e fa ascoltare la propria voce in mezzo mondo: a Davos, durante il World Economic Forum, a Zurigo, alla Tonhalle, a Londra, a Oxford, in Australia, durante una lunga tournée che tocca Melbourne e Sydney. Mantenendo, costantemente, una identità sonora unica e irripetibile: le ragazze di Zohra, infatti, suonano sia gli strumenti della tradizione occidentale (gli archi, i legni, il pianoforte), sia alcuni strumenti che noi chiamiamo «etnici», ma che per loro non possiedono alcun aggettivo: il sitar, il rubab, le tabla, il sarani, la dhamboura e molti altri, ossia le voci usuali della musica tradizionale afgana. Ed eseguono abitualmente, e senza distinzioni di valore, tre repertori diversi: la musica scritta occidentale, la musica classica orientale e infine la musica popolare, non scritta, della tradizione locale.

Dal 15 agosto di quest’anno, da quando gli «studenti», i «figli di Dio», insomma quelli che noi chiamiamo talebani, hanno riconquistato Kabul tutto questo non esiste più. L’Istituto è stato chiuso, gli strumenti musicali distrutti (anche se un portavoce dei talebani ha negato la responsabilità del nuovo governo), ma soprattutto è iniziata la diaspora delle musiciste: prima della chiusura definitiva dei confini molte delle ragazze di Zohra sono riuscite a lasciare il paese: alcune sono riparate in Portogallo, altre a Doha: Negin Khpolwak, oggi appena ventenne, una delle due giovanissime direttrici dell’orchestra, probabilmente a New York. L’orchestra è smembrata, divisa: un’orchestra «diffusa» che suona soltanto nel pensiero e nel ricordo di queste ragazze che fino a pochi mesi fa condividevano il leggio, la vita, il presente.

E ora? Il loro futuro? Il passo più urgente da compiere – come ha affermato di recente lo stesso Sarmast – è quello di assicurare a queste ragazze, dovunque esse si trovino, la possibilità di continuare a studiare. I conservatori, le scuole di musica, le università dei paesi che le ospitano devono non solo accoglierle, ma offrire loro, gratuitamente, strumenti, aule di studio, per tenere viva la pratica della loro musica: quella classica e quella popolare. E poi occorre lavorare perché le vittime della diaspora si possano riunire. C’è una data da segnare in agenda, lontana, ma non remota: l’8 marzo 2023. Per quel giorno carico di simboli le musiciste dell’Orchestra Olimpia di Pesaro, un’orchestra femminile che lavora da tempo nel sociale, hanno invitato in Italia le loro sorelle afgane: un’idea, un’utopia concreta, che non devono, non possono morire

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