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Cosa resta di vent’anni di guerra in Afghanistan

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Jacobin Italia – 19 aprile 2021, di Piero Maestri

Segnaliamo questo articolo di Piero Maestri che sottolinea molto bene le contradizioni delle scelte dell’amministrazione americana ancor prima dell’11 settembre e mette anche in luce il lavoro che il Cisda svolge da oltre vent’anni per dare voce alla società civile afghana e in particolare alle donne.

L’annuncio del ritiro delle truppe fatto da Biden ha omesso il fallimento di una guerra che ha distrutto un paese e le sue forze democratiche, con i Talebani che ne raccoglieranno i frutti. Nel frattempo la situazione geopolitica è profondamente cambiata.

Afghanistan jacobin italia 990x361«Siamo andati in Afghanistan nel 2001 per sradicare al Qaeda, per prevenire futuri attacchi terroristici contro gli Stati uniti pianificati dall’Afghanistan. Il nostro obiettivo era chiaro. La causa era giusta». Così il nuovo presidente statunitense Joe Biden ha iniziato il discorso con cui ha annunciato il definitivo e completo ritiro dei militari Usa dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021. L’importanza simbolica della data è evidente visto che il pretesto per gli attacchi sul paese asiatico e la conseguente invasione militare erano stati proprio gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington.

Biden, come i suoi predecessori, non racconta la storia fino in fondo. George Bush junior, nel suo discorso dell’ottobre 2001 con cui annunciò i primi bombardamenti sull’Afghanistan, partì anche lui dalla necessità di «sconfiggere il terrorismo» e di impedire che Al Qaeda potesse trovare rifugio in quel paese, ma andò molto oltre e si fece prendere un po’ la mano dalla retorica, aggiungendo che «il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei nostri alleati. Mentre colpiamo obiettivi militari, lanceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli uomini, alle donne e ai bambini dell’Afghanistan che muoiono di fame e di sofferenza… Non abbiamo chiesto questa missione, ma la porteremo a termine. Il nome dell’operazione militare di oggi è Enduring Freedom. Noi difendiamo non solo le nostre preziose libertà, ma anche la libertà delle persone ovunque di vivere e crescere i loro figli liberi dalla paura».

Centinaia di migliaia di civili uccisi e ancora più feriti, milioni di profughi interni e rifugiati all’estero, la promozione politica volta a volta di governanti altrettanto criminali di talebani e alleati sono il segno di come le donne e gli uomini dell’Afghanistan abbiano conosciuto la generosità dell’America e non sembra che i loro figli (e soprattutto le loro figlie) possano davvero crescere liberi dalla paura! Non bastasse, il rampollo della famiglia Bush continuava: «Data la natura e la portata dei nostri nemici, vinceremo questo conflitto attraverso la paziente accumulazione di successi, affrontando una serie di sfide con determinazione, volontà e uno scopo preciso».

Volendo essere a nostra volta generosi con le amministrazioni Usa dal 2001 a oggi potremmo dire che non sono andati molto vicini a vincere quel conflitto. Più precisamente si deve segnalare che gli Usa lasciano un Afghanistan ancora distrutto e grazie a un accordo politico con i Talebani. L’impressione è che quel conflitto lo abbiano vinto questi ultimi e si preparino a raccoglierne i frutti.

Per dare un giudizio più completo su chi abbia «vinto» quella guerra è necessario tornare con lo sguardo a vent’anni fa, alle ragioni di quella scelta del presidente statunitense, al contesto internazionale dieci anni dopo la prima guerra del Golfo del 1991 e 12 dalla caduta del Muro di Berlino. L’intervento in Afghanistan non può essere infatti compreso senza ripensare al decennio precedente – all’annuncio (anch’esso piuttosto retorico) della nascita di un «Nuovo ordine mondiale» da parte di Bush senior. Intendiamoci, riprendere quello slogan non ha nulla a che fare con le sciocchezze complottiste che lo utilizzano a sproposito, ma serve a rileggere una strategia politico-economico-militare che intendeva riaffermare l’egemonia degli Stati uniti in tutto il pianeta, approfittando del crollo dell’Urss e della debolezza cinese sul piano internazionale. Era lo stesso Bush junior nel suo discorso a spiegare che «Oggi ci concentriamo sull’Afghanistan, ma la battaglia è più ampia. Ogni nazione deve fare una scelta. In questo conflitto, non esiste un terreno neutrale».

Quella che il movimento definì «guerra globale permanente» era iniziata infatti ben prima dell’11 settembre 2001. La si era vista sul campo dieci anni prima contro l’Iraq – prima con i «soliti» bombardamenti aerei e poi con il criminale embargo che provocò oltre un milione di morti. Si era poi spostata in Africa con lo sbarco dei marines e delle altre truppe occidentali in Somalia, ma anche nei tanti conflitti «locali» o «etnici», quasi sempre diretti e/o fomentati dall’esterno. Aveva toccato direttamente il centro del continente europeo dopo la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia – dovuta a fattori interni nei quali si erano inserite le diverse potenze regionali e globali, fino al bombardamento della Serbia e i protettorati di fatto in vari stati risultato di quella dissoluzione della Jugoslavia. E ora tornava ancora in Asia Centrale e in Medio Oriente con la guerra in Afghanistan proseguendo poi con l’attacco e l’invasione dell’Iraq del 2003 mentre Israele poteva portare avanti la sua quotidiana guerra contro la popolazione palestinese. Come in tante altre regioni del pianeta.

D’altra parte la strategia statunitense era annunciata prima degli attentati dell’11 settembre nella Quadriennial Defense Review del 2001 che sottolineava la necessità per gli Usa di «mantenere la loro supremazia militare in aree chiave mentre sviluppano nuove aree di vantaggio e negano vantaggi asimmetrici agli avversari», perché «la potenza globale […] ha interessi geopolitici in tutto il mondo» e per questo «in particolare si appoggia sulla deterrenza avanzata in tempo di pace in aree critiche del mondo e richiede la capacità futura di presenza avanzata e basi». 

La situazione geopolitica è profondamente cambiata da allora. Quella che definimmo «egemonia instabile» degli Usa è stata quasi completamente cancellata, in particolare dal protagonismo cinese sia sul piano economico che di presenza internazionale, anche militare. Gli Usa negli ultimi dieci anni hanno ridotto i loro interventi diretti, soprattutto in Medio Oriente, e hanno cercato di concentrare la loro attenzione sul continente asiatico e sul confronto con la potenza cinese su diversi piani. La guerra non è scomparsa dall’orizzonte del possibile, ma con una minore propensione al ruolo di gendarme mondiale degli Usa.

Tornando all’Afghanistan, cosa resta di quell’intervento e di quell’occupazione militare che si sta per chiudere? Il paese è ancora distrutto e la popolazione non ha potuto sperimentare alcun cambiamento reale, né sul piano dello «sviluppo» economico, né su quello della partecipazione democratica. Lo descrive molto bene Enrico Campofreda su Osservatorio Afghanistan, progetto voluto dal Cisda che ha il merito di aver mantenuto l’attenzione sulle vicende afghane e soprattutto di aver portato avanti con costanza e passione la solidarietà con le donne e la popolazione senza voce dell’Afghanistan. La cosiddetta «comunità internazionale» sembra impegnata su diversi tavoli per provare a disegnare un futuro dell’Afghanistan, ma è improbabile che possano esserci accordi applicabili, dopo che vent’anni di intervento militare e protettorato di fatto non sono riusciti minimamente a stabilizzare la situazione. Malgrado la dichiarazione finale dell’incontro tenutosi a Mosca dalla «Troika allargata» (sic!) – Usa, Cina, Russia e Pakistan – la situazione nel paese afghano rischia di precipitare nuovamente in un conflitto endemico e soprattutto nelmoltiplicarsi di attacchi alle esperienze di partecipazione dal basso, soprattutto delle donne. 

Sul piano internazionale non saranno certamente dichiarazioni ipocrite ad avere un peso reale, quanto le dinamiche politico-economiche-militari tra i paesi della regione e i loro alleati: da una parte il Pakistan, da sempre sostenitore dei Talebani e che ancora ha con loro un rapporto diretto, che in questi anni ha sviluppato una relazione importante con la Cina nel quadro della Belt and road initiative cinese, con importanti ricadute militari; dall’altra l’India, che ha interesse diretto nella stabilizzazione dell’Afghanistan e che potrebbe assumere un ruolo anche con il sostegno statunitense. Quello che è certo è che non saranno i patetici governanti afghani inventati dagli Usa ad avere qualche voce in capitolo.

E come sempre accade in queste partite a scacchi internazionali, il parere e le condizioni di vita delle popolazioni interessate non ha alcun valore e ruolo. In particolare quello delle tante esperienze di ricostruzione politica e sociale avvenute in Afghanistan – dove esistono organizzazioni sociali e politiche democratiche schierate contro l’occupazione militare e contro tutti i signori della guerre. Questi vent’anni di guerra sono stati soprattutto contro queste esperienze, contro tutta la popolazione afghana.

Il movimento che veniva dalle giornate di Genova 2001 comprese immediatamente la fase che si stava aprendo dopo l’11 settembre e si schierò subito «contro la guerra globale», lanciando una manifestazione nazionale contro la guerra «senza se e senza ma» per il novembre successivo, dopo aver riempito le strade della Marcia Perugia-Assisi già convocata in precedenza. Visto che questo slogan è stato poi ripreso in mille maniere, va ricordato che allora significava essere contro la guerra anche «se» l’avesse coperta l’Onu e che non c’erano «ma» («ma» i Talebani sono criminali; «ma» le donne afghane vanno protette e così via). Questo perché una parte del movimento ascoltava le sirene dei partiti del centrosinistra che appoggiarono la scelta del Governo Berlusconi di partecipare alla guerra e all’invasione dell’Afghanistan. Negli anni seguenti fu soprattutto l’Iraq al centro delle mobilitazioni e non furono molti i settori che mantennero la giusta attenzione su quanto succedeva in Afghanistan – e questo fu tra i motivi della spaccatura del movimento durante il secondo governo Prodi, che decise il ritiro dei militari italiani dall’Iraq ma non dall’Afghanistan. 

La scelta del presidente Biden porterà al ritiro anche di tutti i militari italiani, rimasti in quel paese senza alcun ruolo serio e senza che le altre iniziative che accompagnavano quella presenza abbiano avuto qualche risultato sensibile. Resta – per quello che rimane del movimento internazionalista in questi anni incapace di avere un ruolo nelle tante rivolte per la libertà e la giustizia – la necessità di non abbandonare le forze politiche democratiche, le esperienze sociali e politiche soprattutto delle donne che continuano a rappresentare l’unica soluzione per il futuro dell’Afghanistan.

*Piero Maestri, attivista, è stato redattore d Guerra&Pace ed è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre). L’autore ringrazia Gaia Perini, Cristina Sebastiani e Federico Picerni per la loro lettura critica).

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