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AFGHANISTAN: NON VOLTIAMO LO SGUARDO ALTROVE.

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Comunità San Giuseppe Bergamo – Settembre 2021 n. 414

L’occidente non è riuscito a portare democrazia e libertà delle donne, ma una nuova devastante guerra. Metà della popolazione, 18.5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria.

La decisione degli USA di avviare una trattativa con i talebani, consentendo la liberazione di 5000 miliziani dalle prigioni, e di lasciare l’Afghanistan insieme a tutte le truppe della Nato, ha portato ad una situazione che non può che definirsi di EMER-GENZA UMANITARIA. I talebani stanno riconquistando il paese, provincia dopo provincia, lasciando dietro di loro una scia di morte e devastazione forse mai viste prima.

Secondo quanto riportato al Consiglio di Sicurezza dalla rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu per l’Afghanistan, Deborah Lyons, quel che sta accadendo richiama sempre più quanto avvenuto in Siria o a Sarajevo. Metà della popolazio-ne, 18.5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati si sono riversati su Kabul per scappare dalla brutalità e dalla violenza dei talebani e non hanno accesso a cibo, acqua, elettricità, medicine. Le associazioni, le onlus locali e gli attivisti con cui il Cisda lavora da oltre 20 anni, ancora una volta, si stanno attivando per accogliere i loro connazionali in fuga, nonostante il contesto insicuro e drammatico.

Vogliamo cominciare ad aiutarli con un primo doveroso gesto di umanità: stiamo raccogliendo fondi che è necessario inviare in brevissimo tempo, per far sentire che ci siamo e che continueremo a star loro accanto, anche nell’ennesima tragedia che stanno vivendo.

“Vorrei che morissimo tutti”
la condizione degli sfollati nel parco Azadi di Kabul

di Zahra

A seguito della decisione di ritirarsi dall’Afghanistan degli Stati Uniti e degli eserciti alleati della NATO le milizie talebane, con cui sono state avviate le “trattative di pace”, hanno invaso le città, preso il controllo dei capoluoghi di provincia e si sono impadronite facilmente delle vite, delle proprietà e dell’onore del nostro popolo. Migliaia di morti e feriti, saccheggi e incendi di proprietà pubbliche e di case, centinaia di migliaia di famiglie sfollate in altre province, inclusa Kabul, sono i primi risultati della resa di diversi capoluoghi di provincia ai mercena- ri talebani. Il regime fantoccio al potere, creato solo per salvaguardare gli interessi USA, e sorretto solo grazie all’appoggio degli americani non ha fatto altro che tradire le persone di questo paese, lasciandolo nelle mani dei criminali jihadisti e talebani, e ora si è arreso a questi gruppi criminali.

Il 9 agosto 2021, sono andata al Parco Azadi per vedere di persona le condizioni degli sfollati dalla guerra e scrivere un rapporto. La deplorevole situazione di decine di famiglie in fuga in questo parco è una ferita per ogni essere umano. Questo rapporto è un riassunto di ciò che ho visto e sentito.

Non appena siamo scesi dalla macchina, Reyhaneh e il suo bambino di sette anni sono venuti verso di noi. Lei va incontro a ogni nuovo arrivato che entra nel parco; ci ha subito fatto vedere la sua carta d’identità per dimostrare di essere una sfollata di Takhar. Reyhaneh è rimasta per ore in una tenda sotto il sole cocente, indossando il bur- qa, per preparare un boccone di pane per i suoi bambini. Si è anche avvicinata ai passanti ripetendo all’infinito frasi piene di dolore: “Aiutatemi, fratelli”, “I miei bambini hanno fame”. Questa scena mi ha trafitto il cuore e mi ha infuocato il corpo, mentre imprecavo contro tutti i responsabili afghani e stranieri di tanta sofferenza.

Ho iniziato a parlare con una signora che ha subito detto: “Abitavamo nella zona di Seh Takhar. Tre giorni fa, due famiglie sono fuggite. Ho cinque figli. Non abbiamo un posto dove stare. Viviamo sotto un albero e sotto il sole cocente. Siamo sfollati a causa della guerra in corso tra governo e talebani. Da entrambe le parti arrivano solo venti di morte. Nessuno ci aiuta. Non abbiamo un soldo in tasca. La nostra casa è stata data alle fiamme e siamo usciti dalla città con i vestiti che avevamo addosso, sapendo di rischiare la vita”. Ahmad Javid piange- va, disperato e indifeso; ha appoggiato il suo corpo stanco contro un albero ed era indifferente alle grida lontane dei bambini.

Forse stava pensando a un membro della sua famiglia ferito o intrappolato nelle fiamme, o a quando un colpo di mortaio ha colpito la sua casa. Ed è stato il momento peggiore della sua vita… “Sei sfollato?” gli ho chiesto. “Siamo arrivati ieri da Kunduz. Siamo rimasti coinvolti in una feroce battaglia avvenuta durante la notte. Temendo che la situazione peggiorasse, siamo fuggiti e ci siamo nascosti dietro la prigione. Ma i talebani hanno conquistato la prigione e siamo an- dati all’aeroporto, dove da mesi molte persone che non hanno un posto dove andare, colpite dalla guerra e dai colpi di mortaio, vaga- no miseramente sotto le tende. Quando i talebani hanno attaccato la prigione sono dovuto scappare dalla pioggia di proiettili con mia moglie e cinque figli, e siamo arrivati qui, nel cuore della notte; non ho un soldo e nessuno che me ne possa prestare. Io posso sopporta- re la fame, ma come posso guardare negli occhi i miei figli, vedete che piangono per la fame? Non so che fare, non riesco più a pensare, vorrei solo che morissimo tutti…”.

Con il passare dei minuti, nel parco aumentava il numero degli sfollati interni, per lo più provenienti dalle province settentrionali. Vedendo vecchi, giovani e bambini sotto il sole cocente vivere i momenti più amari della loro vita io, come essere umano, mi sono vergognata per non essere riuscita a dar loro nemmeno un piccolo aiuto. Ho visto persone scendere da veicoli blindati con i vetri oscurati, mentre le loro guardie del corpo facevano in modo che gli sfollati si allonta- nassero dal veicolo; fingevano di essere “sconcertati”, hanno fatto il giro del parco e, dopo essersi fatti un selfie con le famiglie di sfollati, hanno concluso lo spettacolo e se ne sono andati.

Mujib Nabina, non vedente, si è presentato come rappresentan- te di dieci famiglie sfollate da Takhar e ci ha detto: “Le nostre die- ci famiglie sono sfollate da una zona della città di Takhar. Dopo lo scoppio della guerra, un colpo di mortaio ha colpito la nostra casa, e sei bambini sono rimasti gravemente ustionati. Di questi, quattro sono ricoverati all’ospedale pediatrico e gli altri due sono all’ospe- dale Esteqlal. Non abbiamo portato con noi altro che i vestiti che indossiamo. Tutta la nostra vita è stata in guerra, sotto le bombe e i colpi di mortaio. Siamo rovinati e disperati, e ora tutti vengono e scattano foto ci fanno una promessa e se ne vanno. Ci domandiamo cosa dobbiamo fare”.

Una ragazza di Kunduz, che mentre parlava tratteneva il respiro, ci ha detto, piena di dolore: “Verso le dieci del mattino sono ar-rivati a Kunduz e poi sono iniziati i bombardamenti sulle nostre case. Il mio fidanzato, un militare dell’esercito, si trovava con 38 colleghi nel comando di Kunduz che è stato circondato dai tale- bani; solo lui è sopravvissuto. Lo abbiamo portato a Kabul con grande difficoltà. Lui e i suoi colleghi non si sono arresi. Ora è ricoverato in un ospedale militare a Kabul, gravemente ferito. I talebani sono entrati e hanno saccheggiato l’edificio. Prima dell’assalto al comando i funzionari e i capi militari sono fuggiti all’aeroporto di Kunduz e da lì a Kabul, ma i poveri soldati sono stati uccisi e feriti. La mia famiglia è composta di 12 persone e solo mio fratello è rimasto a casa. Siamo usciti di casa solo con i vestiti che avevamo addosso. Chi ci ha portati da Kunduz a Kabul ha voluto 12.000 afgani [NdR, unità di moneta afghana equiva- lente a circa 130 euro]”.

Migliaia di talebani sono stati liberati dalle prigioni e gli occupanti stranieri, USA e Khalizad in testa, hanno consentito che questi criminali versassero il sangue dei nostri compatrioti.

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