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Afghanistan, il prezzo di una guerra lunga vent’anni.

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«La pace è peggiore della guerra, quando non c’è giustizia». Queste parole danno in sintesi la descrizione di quello che lasciano gli americani e i loro alleati dopo l’annuncio del ritiro delle truppe. A pronunciarle è Malalai Joya che vive da anni sotto scorta e continua a denunciare la situazione drammatica del suo paese. Mette ben in evidenza, nella breve intervista iniziale dell’articolo, la reale situazione della maggior parte della popolazione. Lei, che nonostante sia sempre in pericolo, non abbandona il suo paese.

Zeta Luiss, 20 aprile 2021, di Chiara Sgreccia  afghanistan zetaluiss  

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden annuncia il ritiro delle truppe dal paese a vent’anni dall’operazione Enduring Freedom

«La pace è peggiore della guerra quando non c’è giustizia». Malalai Joya parla al telefono da Kabul, ha soltanto 30 minuti di autonomia prima che cada la connessione wi-fi. Vive con la scorta, si nasconde da anni, da quando nel 2007 è stata sospesa dal parlamento afghano, dove sedeva come il più giovane membro mai eletto, per aver denunciato la presenza di criminali e signori della guerra tra i deputati.

I signori della guerra hanno combattuto i talebani ma sono spesso altrettanto fondamentalisti. Parliamo di grandi proprietari terrieri che controllano con la violenza e il clientelismo intere aree del paese e che, si dice, godono dell’appoggio delle forze statunitensi. 

Il numero da cui Malalai Joya chiama non è il suo. Parla tutto d’un fiato, come se si aspettasse le nostre domande e non avesse tempo per le formalità. É cresciuta nei campi per rifugiati di Iran e Pakistan, poi ha scelto di tornare in Afghanistan a lottare per i diritti umani e per quelli delle donne, per questo cambia casa in continuazione, troppi la considerano una nemica ed è sopravvissuta a più di un attentato.

«La condizione catastrofica delle donne in Afghanistan è stata una delle scuse che gli Stati Uniti hanno utilizzato per giustificare l’occupazione ma la situazione dal 2001 ad oggi non è cambiata molto, al contrario di quanto vogliono far credere i media occidentali – continua Malalai Joya -. Si tratta di una grande bugia. Le donne qui continuano a subire violenze, vengono umiliate in pubblico, picchiate e stuprate senza ottenere giustizia. Poche settimane fa una bambina di 9 anni a Kabul, la capitale, è stata stuprata mentre stava studiando. Sebbene i genitori l’avessero portata in ospedale in pessime condizioni, nessuno ha fatto nulla per aiutare la famiglia a scoprire il colpevole. Le donne hanno ancora difficoltà nell’accedere all’istruzione e al sistema sanitario e molte di quelle che coprono posizioni di potere non rappresentano la vera condizione delle afghane ma gli interessi degli Stati Uniti. La ministra dell’Istruzione Rangina Hamidi aveva promosso una legge per cui le ragazze con più di 12 anni non avrebbero potuto cantare durante gli eventi pubblici, se non in quelli a partecipazione totalmente femminile. Questa è discriminazione. La legge non è passata solo grazie all’indignazione che il popolo afghano ha mostrato attraverso i social media. Qualche mese fa la ministra aveva già provato a proporre una riforma che prevedesse nei primi tre anni di scuola l’obbligo per i bambini di frequentare le moschee in modo da accrescere il ruolo dell’Islam nell’istruzione. Gli Stati Uniti hanno sostituito il regime barbaro dei talebani con quello dei signori della guerra, anche loro fondamentalisti e con le mani insanguinate». 

Per Malalai Joya l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha proclamato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, è una buona notizia. «Non sarà semplice e la pace e la prosperità non arriveranno subito ma se gli americani se ne andranno via con onestà anche gli altri attori in campo, come Russia e Cina, smetteranno di finanziare le associazioni terroristiche e perderanno interesse nel paese che non sarà più il terreno di gioco delle potenze mondiali. Libertà e democrazia non possono essere portati dagli stranieri, raggiungere questi obiettivi spetta al popolo afghano unito. Vent’anni di conflitto stanno a dimostrarlo. In questo periodo sono morte migliaia di persone, l’economia è diventata mafia, l’ambiente è stato rovinato».  

È d’accordo il fotogiornalista australiano Travis Beard, che ha vissuto in Afghanistan e ha realizzato il documentario RocKabul, dove racconta la vita quotidiana durante il conflitto attraverso il processo di formazione, ascesa e declino dei District Unknown, band heavy metal: «In vent’anni la società afghana si è trasformata più volte, all’inizio dell’invasione Usa si respirava un’aria positiva, di apertura e progresso. Poi dal 2006 è iniziata l’escalation di violenza, con un picco nel 2009 quando l’allora presidente americano Barack Obama inviò altri 30 mila militari in Afghanistan. Con l’aumentare delle truppe e dei fondi internazionali per supportare il paese, è cresciuta la competizione tra entità governative e non, sono aumentati gli expats e gli attacchi dei terroristi». 

Quando nel 2011, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, il leader di al-Qaeda considerato responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, sembrò che l’obiettivo per cui gli Stati Uniti avevano invaso l’Afghanistan fosse stato raggiunto, si cominciò a ipotizzare la riduzione della presenza militare nel paese. Il ritiro è iniziato nel 2015 (ed è terminato con Trump), quando l’operazione Enduring Freedom è stata sostituita da Freedom’s Sentinel, parte della missione Nato Resolute Support che non coinvolgeva più i militari in azioni di combattimento ma nell’addestramento e nell’assistenza alle istituzioni e alle forze di sicurezza afghane. «Con il ridimensionamento delle truppe e l’interruzione dei programmi di sostegno internazionali l’economia afghana è precipitata – dice ancora Beard-. Il tasso di disoccupazione è molto alto, c’è tanta corruzione. Molti hanno lasciato il paese, non c’è sicurezza. Il regresso della società afghana è iniziato nel 2014-15 con la crisi economica, per capire cosa succederà dopo il prossimo 11 settembre, quando gli americani lasceranno il paese, ci vorrà tempo». Secondo lui potrebbe perfino accadere che i talebani formino un partito e partecipino al governo, giacché sono stati legittimati come soggetto politico a Doha, in Qatar, quando, a febbraio 2020, le delegazioni statunitense e talebana hanno firmato l’accordo che ha dato il via ai negoziati di pace intra-afgani prevedendo il ritiro delle truppe americane entro la fine di aprile di quest’anno e, in cambio, l’impegno dei talebani a rompere con al-Qaeda. 

La violenza in Afghanistan però non è diminuita negli ultimi mesi e anzi, come racconta Marco Puntin, coordinatore dei progetti Emergency che da tre anni vive a Kabul: «Sono diminuiti gli attacchi di grossa portata ma, soprattutto dopo il 2020, si sono intensificati gli assassinii, le aggressioni, gli attacchi alle auto, ai rappresentanti del governo del presidente Ashraf Ghani. Di solito d’inverno i combattimenti si diradano ma quest’anno non è accaduto». Emergency ha tre ospedali nel paese e 44 tra cliniche e centri di primo soccorso, opera in 11 province. «Apriamo un presidio dove c’è bisogno. La maggior parte dei nostri pazienti è in cura per traumi dovuti ai conflitti. Il 50% del paese sperimenta ogni giorno active fighting, veri e propri combattimenti. In questo momento non ci sono scontri solo nella provincia del Panjshir. Nel centro chirurgico per vittime di guerra di Kabul arrivano in media 300 pazienti al mese, a Lashkar-gah più di 200. L’Afghanistan è un paese che non ha pace da 40 anni, ci sono generazioni che non sanno cosa significhi vivere senza guerra, c’è disperazione, le persone non ce la fanno più».

La situazione in Afghanistan è complicata, il paese è al centro degli interessi delle più grandi potenze del mondo per la sua posizione nel cuore dell’Asia ed ha anche un ruolo molto importante nel traffico internazionale di stupefacenti. La produzione di oppio, non più soltanto grezzo ma anche già trasformato in eroina, è quasi raddoppiata negli ultimi anni.

Viviana Mazza, autrice e giornalista del Corriere della Sera, racconta di uno sport tipico del paese, il Buzkashi. In questo sport i giocatori sono a cavallo e devono rubarsi a vicenda una carcassa di capra che si trova a terra. Non ci sono squadre, ognuno è in campo da solo, non ci sono distanze definite, non ci sono falli. Ma i giocatori sanno esattamente come fare. Questo gioco ha regole incomprensibili per gli stranieri. Lo stesso potrebbe dirsi per la società civile, difficile da comprendere per chi osserva da fuori. 
«Ho avuto l’impressione che non sempre la popolazione avesse la consapevolezza dell’Afghanistan in quanto Stato» spiega Alessandro De Prado, ex ufficiale medico che, nel 2012, con il 9° reggimento degli Alpini, è stato 5 mesi nella regione di Farah. Serviva per il contingente italiano in forze nella missione Nato International Security Assistance Force. «La vita era pericolosa, non andavamo disarmati neppure a mensa. Il rischio di attacchi era molto alto ma non c’era un obiettivo chiaro da sconfiggere, non riconoscevamo i terroristi di al-Qaeda nel nemico. Erano insurgents, delinquenti. La guerra è tale quando rispetta delle regole, ci devono essere due forze riconoscibili schierate e contrapposte, in Afghanistan il conflitto è asimmetrico».

Per Nadia Hashimi, nata a New York da genitori afghani, pediatra e celebre scrittrice con i diritti delle donne nel cuore, quello che succederà dopo l’11 settembre 2021, quando a vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle i militari statunitensi e Nato si ritireranno dall’Afghanistan, dipende dall’ influenza che i talebani avranno nel governo. «Tra il 1996 ed il 2001, quando il paese era per la maggior parte sotto il controllo dei talebani, le donne avevano difficoltà nell’accedere all’istruzione e al sistema sanitario. Non potevano rivestire ruoli di spicco nell’amministrazione pubblica. Potrebbe accadere di nuovo qualcosa di simile e porterebbe all’aumento del tasso di mortalità, all’iniquità di genere, a matrimoni precoci e a famiglie inadeguate a prendersi cura dei figli, povertà e analfabetismo. Ma d’altra parte in questi vent’anni la società afghana è anche progredita, ci sono donne nel parlamento, nei media, nell’arte, nel design, nella moda, atlete, rappresentanti del governo afghano nel mondo. Se si raggiungesse un accordo di pace l’Afghanistan potrebbe crescere molto. Ogni negoziato, però, prevede un prezzo da pagare, la paura è che quello richiesto dai talebani sia troppo alto». A meno di 24 ore dall’annuncio ufficiale del presidente Biden di ritirare i rimanenti 3500 soldati americani, il segretario di Stato Usa Antony Blinken aveva rassicurato Kabul, «rimarremo fianco a fianco anche in futuro. Ritireremo le truppe, ma incrementeremo il nostro impegno in tutte le altre aree». Se da un lato, quindi, per gli Stati Uniti la guerra afghana sembra essere completamente chiusa, dall’altro restano imprevedibili le prossime mosse dei talebani, i quali, attraverso un tweet del loro portavoce, fanno sapere che non parteciperanno alla conferenza per la ripresa degli accordi di pace prevista ad Istanbul, in Turchia, a partire dal 24 aprile. Almeno non prima che l’ultimo soldato straniero venga ritirato dal paese.

 

 

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