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Afghanistan due mesi dopo

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Stefano Gallieni, Transform Italia, 27 ottobre

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Due mesi dopo l’ingresso a Kabul dei miliziani taliban è utile non spegnere i riflettori e provare a capire cosa sta succedendo nel Paese che ha, ricordiamo, un tasso di povertà fra i maggiori del pianeta. Le notizie che giungono sono inquietanti e terribili. La decantata pace armata non è mai giunta e si susseguono, come durante l’occupazione Nato, gli attentati, le violenze, le razzie. Il governo è instabile e non riesce a prendere alcun provvedimento, l’Isis K (dall’iniziale della provincia di Khorasan), ramo afghano dello Stato Islamico, continua a compiere attentati soprattutto in moschee in mano ai taliban ma le cancellerie ne agitano la consistenza come un mostro che potrebbe tornare a colpire in Europa o USA.

Non sembrano questi per ora gli obiettivi e le priorità delle poche migliaia dei loro militanti. Intanto è nato un Consiglio di resistenza contro i Taliban composto da alcuni leader mujhaeddin ed esponenti di spicco del deposto esecutivo di Ashraf Ghani. Il gruppo sembra esser guidato dal leader jihadista Abd al-Rasul Sayyaf e da Atta Muhammad Nur, minaccia di intraprendere una rivolta armata se i talebani non accetteranno di avviare un dialogo politico e di condividere il potere a Kabul. Ma il vero nemico oggi si chiama inverno che non lascia scampo, che, senza un intervento apparentemente impossibile, potrebbe causare più vittime di mille attentati. Ha creato orrore la morte per fame a Kabul di 8 bambini denunciata da Save the Children. Rimasti orfani, 4 maschi e 4 femmine, di un’età compresa fra i 18 mesi e gli 8 anni, sono solo gli ultimi di cui si è avuta notizia in un dramma senza fine. Secondo l’organizzazione umanitaria sono 5 milioni i minori ad un passo dalla carestia, a breve diventeranno 14 milioni per un totale di quasi 23 milioni che saranno, come si dice nel linguaggio degli addetti ai lavori “vittime di livelli emergenziali di insicurezza alimentare”. Esistono 5 gradi di valutazione delle condizioni nutrizionali di un Paese.

Per il World Food Program e la Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, il 50% del popolo afghano è oggi in una condizione di “crisi” di fase 3 che sta scivolando verso la carenza di cibo di “emergenza” di fase 4. La fase 4 è un gradino sotto la carestia, fase 5 e l’Afghanistan, che sembra non poter emergere da una guerra civile di 20 anni e da almeno 40 anni di conflitti, sta affrontando il peggior inverno degli ultimi dieci anni, in cui il freddo si unisce agli effetti catastrofici della siccità estiva. Nove milioni di persone si trovavano nella Fase 4 e se arriveranno a varcare lo step successivo, per loro potrebbe esserci solo la morte.” ha affermato la vice direttrice regionale WFP Hsiao-Wei Lee.

Da decenni il Paese sopravvive unicamente grazie a fondi internazionali, gli aiuti umanitari – dopo l’arrivo dei taliban – sono bloccati e a poco sembra essere servito il G20 convocato su iniziativa italiana per intervenire in soccorso. Il 98% della popolazione afghana è sull’orlo della povertà. Servono aiuti concreti e urgenti per rafforzare le comunità locali e l’economia in generale. Se non si interviene subito, dice l’ONU, le previsioni si trasformeranno in realtà a metà 2022. Occorrerebbero da subito 190 milioni di dollari al mese di aiuti. Da chi, a chi e come farli arrivare? I governi di Pakistan, Kazakistan e Bahrain stanno intervenendo sapendo che col loro supporto rischiano di favorire il regime taliban. Ed è questo il problema non ancora risolto dalle potenze regionali e mondiali. UE e Stati Uniti hanno avviato dal 12 ottobre contatti con i taliban, garantendo aiuti in cambio di promesse non esigibili rispetto ai diritti umani. Cina e Russia hanno avviato da tempo propri colloqui col nuovo regime. Si è tenuta una conferenza a Mosca, il 24 ottobre in cui quasi tutti i partecipanti  hanno espresso, in maniera diversa, la disponibilità a considerare il riconoscimento del nuovo governo a Kabul, ha affermato l’inviato del Cremlino, Zamir Kabulov, sottolineando che Mosca intende riaprire il proprio consolato a Mazar-i-Sharif. Oltre alla Russia hanno preso parte alla conferenza rappresentanti di Cina, Kazakhstan, Tagikistan, Iran, Pakistan, Turkmenistan, India, Kirgizstan e Uzbekistan. Unici ostacoli al riconoscimento restano il timore del sostegno al terrorismo o alle istanze separatiste (vedi la minoranza uigura al confine cinese) e al traffico di stupefacenti essendo divenuto l’Afghanistan il primo paese al mondo per la produzione di eroina. I rappresentanti dei taliban presenti all’incontro hanno offerto tali garanzie ma pretendendo che, come già affermato in altre circostanze, non ammetteranno interferenze negli affari interni del Paese, dalle modalità con cui verranno risolti i conflitti interni all’applicazione della sharia fino ai tanto declamati in occidenti, diritti delle donne, finiti nel dimenticatoio dopo una guerra di occupazione ventennale spacciata per operazione umanitaria e di pace. Ha avuto purtroppo ragione la fosca previsione di Maryam Barak, giovane giornalista afghana, rifugiata in Italia e intervenuta giorni fa ad una conferenza per le donne organizzata dalla Flai Cgil. La giornalista ha duramente ricordato come in poco tempo i diritti conquistati, almeno a Kabul dalle donne, siano stati barattati con la “pace taliban” ignorando la voce delle tante che chiedevano di essere ascoltate. Nel suo accalorato e forte intervento ha ribadito la necessità che i paesi occidentali non devono riconoscere il governo taliban né fidarsi dei loro esponenti.

Ma se il riconoscimento ufficiale tarda a giungere da parte di molti paesi, di fatto le ambasciate aperte, i colloqui continui con numerose potenze che mirano ad avere un ruolo nell’area (Turchia, Cina, Russia ad esempio), fanno comprendere come al di là dell’ufficialità il governo oscurantista abbia già di fatto ricevuto una legittimità. Difficile capire se questo permetterà di far giungere aiuti alla popolazione, rimettere in moto l’economia e, almeno temporaneamente, stabilizzare il regime o se le fosche previsioni citate si avvereranno in tutta la loro tragicità.

A quel punto sarà inevitabile dover assistere ad una fuga di coloro che o rischiano la vita per aver collaborato col passato e corrotto governo o che semplicemente non vogliono morire di fame, disoccupazione, eroina e sharia. Giungono anche messaggi e testimonianze di resistenza. Le donne, spesso in gruppi sparuti, continuano a manifestare e a protestare contro il regime pagandone le conseguenze. Sono molte, sempre secondo Maryam Barak molte quelle che sono state uccise semplicemente perché lavoravano o si esponevano. Al congresso del Partito della Rifondazione Comunista è giunto un accorato messaggio da parte di Hambastagì, il Partito della Solidarietà, (SPA) laico e ridotto in clandestinità di cui riportiamo alcuni stralci: “Il popolo afghano sta attraversando tempi estenuanti. Sebbene gli imperialisti e i loro tirapiedi afghani, per insabbiare i crimini dell’imperialismo statunitense in Afghanistan, abbiano definito “sorprendente” la rapida conquista dei talebani, tuttavia, in questo scenario nulla era sorprendente e tutto era pianificato in anticipo. L’imperialismo statunitense ha sostituito un clan di iene con un altro: i jihadisti e i tecnocrati con i talebani. Ciò che è ovvio, è che entrambi servono gli sporchi obiettivi dell’imperialismo statunitense in Afghanistan e nella regione. Il destino del tormentato popolo afghano è stato affidato ai selvaggi talebani”. E, a seguire, “Contrariamente alla norma generale – che vede tutti fuggire dall’Afghanistan – la maggioranza dei membri del SPA è abbastanza risoluta da rimanere nel paese per continuare la lotta. Come affermato dal compagno Antonio Gramsci, “il vecchio mondo sta morendo e il nuovo mondo fatica a nascere; ora è il tempo dei mostri.” siamo rimasti a lottare per la nascita del nuovo mondo”. SPA, Rawa )Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) ed altre associazioni che hanno realizzato un network clandestino della resistenza, realizzano quanto possono e non condannano coloro che se ne sono andati. Dal 15 al 30 agosto sono state sfollate 120 mila persone, tra cui 90 mila civili, in quanto collaboratori, a diverso titolo, con i paesi occupanti o col governo Ghani che rischiavano ritorsioni da parte dei talebani. A tutti loro sarà concesso asilo politico: 66 mila sono andati negli Usa, 8 mila in Gran Bretagna, 4.890 in Italia, 4.100 in Germania, 2.800 in Francia, 1.898 in Spagna. Non sono molti coloro che hanno cercato rifugio in Pakistan e Iran – paesi confinanti – circa 25 mila. C’è attesa in Afghanistan per decidere se andarsene, forse per sempre o restare in attesa di nuovi sviluppi. Addirittura alcuni, vicini al nuovo governo, rifugiatisi in passato in Pakistan sono tornati indietro. Tutti i paesi confinanti hanno poi di fatto pressoché bloccato gli ingressi. Si riesce a passare corrompendo le guardie di frontiera per poi ritrovarsi in un limbo da cui è difficile uscire. L’UE tanto disponibile ad avviare trattative e iniziative di sostegno in Afghanistan che nei paesi disponibili a trattenere profughi, rifiuta qualsiasi disponibilità verso nuovi ingressi. Di tale indisponibilità – esplosa come si è già scritto, con la proposta di 12 paesi UE di realizzare a spese dell’Unione un muro orientale per “fermare le invasioni” – si avvantaggeranno i governi di Turchia e Pakistan, disponibili a fermare i passaggi in cambio di forti sostegni economici che continueranno a fungere come arma di ricatto. Ci sono poi gli afghani fuggiti in passato e che hanno chiesto asilo in Ue. Dal 2008 al 2020 ci sono state 691 mila richieste d’asilo: quasi il 40% in Germania (241.870), 41.115 mila in Francia, 23.720 nel Regno Unito, 22.390 in Italia. Solo meno della metà, 311.000, sono state accolte. L’Italia ha protetto il 90% di chi ha richiesto asilo, la Spagna il 71%, la Francia il 69%, la Germania il 50% e la Gran Bretagna il 39%. Circa in 70 mila, nonostante l’Afghanistan non abbia mai smesso di essere paese a rischio, sono stati negli anni rimpatriati, a 290 mila è stata rigettata la richiesta di asilo e in 90 mila sono in attesa di una risposta. Quindi oggi in Europa risultano esserci 220.000 afghani irregolari. A meno di cambiamenti legislativi non potranno presentare una nuova domanda di asilo o protezione e non potranno essere rimpatriati con i talebani al potere. Potranno unicamente lavorare in nero, spettri esposti al rischio di venire risucchiati nella microcriminalità. Secondo Eurostat è possibile stimare che gli afghani irregolari in Germania siano 111.220 mila, in Austria 26.745, in Svezia 24.925, in Belgio 12.850, in Francia 6.424, e in Italia quasi 2 mila. In Turchia, nello stesso periodo risultano essere entrati 520 mila richiedenti asilo afghani di cui 400 mila ancora irregolari. Nelle condizioni date è così assurdo chiedere intanto che agli “irregolari” ad oggi presenti, venga immediatamente garantito l’asilo? Ed è assurdo porsi tanto il problema di chi vuole restare nel Paese quanto di chi non è in condizione di farlo, senza regalare ulteriore potere di ricatto agli Erdogan di turno? Per farlo ci vorrebbe una politica europea degna di questo nome e intenzionata tanto a non favorire i talebani quanto a porre al centro la salvaguardia di una popolazione a rischio genocidio. L’Italia sembra essersi lavata la coscienza garantendo, per ora, discreti livelli di accoglienza agli ultimi fuggitivi e non deportando in passato i profughi ma potrebbe dare un segnale più forte e diverso. Un segnale che costa tanto in termini di consenso quanto di risorse. Draghi ricorrerà ancora una volta ai “dittatori necessari”? Lo sapremo presto.

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