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Pace in Afghanistan. Quanto durerà?

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Enrico Campofreda – 29 febbraio 2020

doha

Dicono pace e la firmano. Sui tavoli diplomatici di Doha, dove per mesi i rappresentanti talebani e statunitensi si sono incontrati sotto la regia di mister Khalilzad, l’ambasciatore dell’accordo. Alla stipula, evidenziata con enfasi dal Segretario di Stato americano Pompeo, erano presenti delegazioni di Pakistan, India, Turchia, Indonesia, Uzbekistan, Tajikistan e Qatar. Gli annunci delle parti hanno sottolineato ciò che a ciascuno, fra un alterco e l’altro, stava maggiormente a cuore: il ritiro delle truppe Usa per i turbanti, la cessata ostilità per le truppe a stelle e strisce. Se sarà una vera pacificazione, si vedrà nell’immediato futuro, perché in quella latitudine anche i patti sottoscritti può portarseli via il vento di interessi che restano contrapposti.

I taliban per quanto hanno fatto intendere sino alla vigilia dell’accordo non accettano collaborazioni con l’apparato politico gradito a Washington, che con le presidenziali meno votate dal 2001 ha rilanciato la coppia Ghani presidente e Abdullah premier. Gli Usa perché mai dovrebbero chiudere la decina di basi aeree superattrezzate con caccia e droni per controllare, spiare, bombardare nemici nella vasta area dell’Asia centrale dove l’Afghanistan si colloca? Certo, per ora restano le dichiarazioni del portavoce talib, lanciate ufficialmente davanti ai microfoni dell’emittente Al Jazeera, di “una guerra che è finita”. I tempi per il ritiro delle truppe americane è indicato attorno ai quattordici mesi. Comprenderanno i 14.000 propri soldati e gli altrettanti dei 39 Paesi Nato che hanno dato manforte e vite a quell’occupazione. Nulla si dice dei contractor che ammontano a 30.000. Il ritiro, anche per questioni logistiche sarà graduale, ma la stessa gradualità s’era discussa durante l’amministrazione Obama nel 2013-14. Tanto che l’operazione Nato in corso, Resolute Support, introdotta dal gennaio 2015 è durata finora quattro anni e due mesi, alternando i militari, non ritirandoli. Alle contraddizioni passate e presenti il rappresentante del gruppo Internazionale di Crisi Robert Malley risponde con un filosofico “Nessun accordo è perfetto e anche questo non fa eccezione”. Vero, verissimo. Ma la puntualizzazione può anche far pensare al peggio, che vuol dire quella carta può essere stracciata. In futuro i talebani dovrebbero incamerare la cancellazione dei loro membri dalla lista dei sanzionati, o forse sarebbe meglio dire militarmente cacciati. In questi mesi hanno guadagnato il rilascio dalle prigioni di cinquemila loro adepti, gran parte combattenti e  non solo. Effettivamente i turbanti nell’ultima settimana hanno completamente azzerato qualsiasi iniziativa di guerriglia, cosa che nell’anno e mezzo di colloqui non era mai accaduta. Mentre fra dieci giorni dovrebbe seguire l’apertura d’un confronto inter afghano. C’è da chiedersi chi parlerà con chi. Per i talib l’attuale establishment del Paese non è altro che un fantoccio al servizio dell’Occidente, dunque proprio l’auspicata continuità di colloquio potrebbe creare il primo intoppo a un risultato che l’amministrazione Trump vuole usare come ennesimo traguardo raggiunto nell’ambito della sua ricandidatura  presidenziale. 

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