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Mia figlia al fronte contro l’Isis e ora sorvegliata speciale

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Azzurra Digiovanni – vanityfair.it – 19 novembre 2020

La storia di Eddi, combattente in Rojava e al suo ritorno in Italia sorvegliata speciale, nelle parole della madre. Due vite cambiate per sempre.

Eddi

Una figlia che va in Siria per studiare il confederalismo democratico. Poi, però, con l’avanzare dell’Isis, decide di combattere con i curdi al fronte.

Al suo ritorno in Italia viene sottoposta alla misura di “sorveglianza speciale” perché considerata socialmente pericolosa. Roberta Lena, sua madre, ha deciso di raccontare quei lunghi mesi di paura e angoscia nel libro diario “Dove sei?”

«Mamacita, ti volevo mettere al corrente che tra una settimana parto»
«E dove vai?»,
«In Rojava, Siria»
«No, non scherzare, in Siria c’è la guerra, non si va in Siria»

È il 6 settembre del 2017, quando in un appartamento di Torino, le esistenze di Maria Edgarda Marcucci – detta Eddi – e di sua madre Roberta Lena cambiano per sempre.

Leggendo le parole di Roberta, se sei madre, spartisci con lei quell’ansia che senti dal momento in cui metti al mondo un bimbo. Sei sei figlio, condividi quel senso di colpa per non aver mai scritto quel messaggio in più ai tuoi genitori.

«All’inizio ero preoccupata. Ma non puoi dire a una 26enne indipendente: “No, tu non ci vai”.  Non è partita per arruolarsi nello Ypj (Unità di protezione delle donne ndr.) e combattere l’Isis. È andata in Siria del Nord, nel Rojava, per studiare e vedere con i suoi occhi la prima rivoluzione partita dalla centralità del ruolo della donna. Hanno trasformato la tragedia della guerra nell’opportunità di dare forza e concretezza alla proposta del confederalismo democratico», racconta Roberta.

È come se il popolo curdo avesse trovato, in una situazione così difficile, una soluzione possibile.

«Poi ha frequentato un corso per l’arruolamento nello Ypj. In accademia studi Economia, Filosofia, Scienza delle donne. L’uso delle armi è solo una piccola parte di tutto. Era lì come internazionalista, divulgatrice, quindi non ti mandano a combattere», ma proprio in quei mesi, Afrin viene conquistata dai guerriglieri jihadisti che sostengono Erdogan. Per Eddi difendere i curdi e la loro rivoluzione è come proteggere tutto il mondo, noi compresi. E poi, come puoi stare solo a guardare quando le tue amiche, compagne di avventura, di confidenze, diventate inevitabilmente “Famiglia”, vengono seviziate, stuprate, mutilate, uccise.

«All’inizio non ha voluto dirmelo. Sapeva che non ero in grado di sopportare una notizia così. Mi auto convincevo che non era al fronte. Poi, però, mi si bloccava una spalla. Come se stessi somatizzando la verità. Finché non ne ho avuto certezza. È stato difficile ammetterlo. Siamo una famiglia pacifica. Eddi crede e sostiene la pace. Ma il Medio Oriente non è l’Europa. Se non ti ammazzano, diventi loro schiava. Così, con difficoltà l’ho capito. Non sono curda, ma sono donna».

Quando scopri che tua figlia di 27 anni è al fronte, ti poni una sola, grande, unica domanda: «Perché?»

«Perché non è come tutte le altre ragazze? Ma lei è nata così, con il fuoco dentro. Quando aveva 18 anni è morta la sua migliore amica di un tumore rarissimo. Si è ammalata perché è crescita nella terra dei fuochi. Sul braccio ha tatuato il nome di questa ragazza. Tutto questo l’ha segnata e dal quel momento ha iniziato a fare attività sociale». Poi, metti in discussione il tuo ruolo di madre.

«In quei mesi di disperazione sono arrivata a pensare di tutto. Sono un’attrice, una regista. Allora mi è venuta in mente quella volta in cui stavo studiando una parte da guerrigliera contro le ingiustizie. Ero incinta di Eddi e secondo alcuni studi, durante la gravidanza, la bambina può ascoltare le parole della madre, sentirne le emozioni. Oppure, le volte in cui la portavo sul set di un film che parlava di una strage fascista. Ci sono tanti episodi. Pensavo di averla influenzata troppo. Mi incolpavo di tutto».

Lunghi mesi di paura, terrore e comunicazione a singhiozzo. E se ai messaggi mandati ricevi solo silenzio, il panico sale.

«Non avevo sue notizie. Ed ero completamente sconnessa dalla realtà circostante. Non capivo, sentivo, vedevo gli altri. Era come se fossi diventata un cubetto di ghiaccio. Sono buddista. Pregavo l’universo di salvarla. Mettevo delle gocce di fiori di Bach su una sua foto per proteggerla. Ma ero pronta al peggio». Roberta era preparata alla chiamata che nessuna madre vorrebbe mai ricevere.

Quando sente le parole dei genitori di Lorenzo Orsetti -giovane di 33 anni, morto nel 2019, combattendo l’Isis a fianco dei curdi- o quelle di Anna Campell- 27enne arruolata nello Ypj, morta per mano dell’Isis- si rende conto di poter vivisezionare il loro cuore pieno di dolore, stanchezza, angoscia. Il loro organo è il suo.

Poi il 27 giugno 2018 il grande ritorno. Quanto possono metterci corpo e mente a riprendersi da così tanta paura? Roberta appena risente il calore di sua figlia, in quell’abbraccio difficile da dimenticare, sviene. Pensa che non sia reale. Ci mette più di anno a sanare quelle cicatrici che le hanno devastato l’anima in quei lunghi 9 mesi. È come se, alla fine dell’attesa, l’avesse partorita per una seconda volta.

Eddi è inevitabilmente cambiata. Anche il rapporto odio- amore tipico della relazione madre-figlia rinasce. «Siamo unite come non mai. Lei è tornata con il desiderio di pace. Dice sempre di non aver fatto niente, di aver contribuito come una briciliona. Ma di non essersi mai sentita così bene a essere donna in quella società».

Con il suo ritorno in Italia, ha dovuto iniziare un’altra battaglia. Il 17 marzo 2020 la Procura di Torino ha emesso una misura di “sorveglianza speciale” – retaggio del Codice Rocco- di due anni contro Maria Edgarda Marcucci, accusata di essere socialmente pericolosa. I giudici hanno invece respinto la richiesta di misura per altri quattro ragazzi partititi per la Siria, che hanno combattuto come Eddi. Il 12 novembre si è tenuta l’udienza per l’appello contro questa applicazione, ma la corte non si è pronunciata, riservandosi 40 giorni per decidere. Il pubblico ministero sostiene che da quando Eddi ha imparato a maneggiare le armi in Rojava, probabilmente le userebbe in Italia. Nel dispositivo di sentenza si fa inoltre riferimento alla sua partecipazione a cortei e presidi di solidarietà ed all’essere un’attivista No Tav.

Ora Eddi vive in un costante lockdown: non ha patente, passaporto; non può uscire di casa senza autorizzazione e obbligo di rientro nel proprio domicilio per le 21; divieto di partecipare a pubbliche riunioni (anche di carattere non politico) e ovviamente, il divieto di svolgere attività sociali e politiche.

«Questa è la parte più difficile da accettare. Non può raccontare cosa ha visto e sta succedendo in Siria. Se ho mai avuto il rimpianto per non averla fermata? Cosa potevo fare? Chiuderla in casa? La vita è sua, questa è la grande cosa che imparato. Che poi te lo chiedi. In fondo, la vita cos’è? C’è chi passa un’esistenza a lavorare come una macchina per arrivare a fine mese. E c’è chi dice no. C’è chi vuole mantenere le conquiste femministe e continua a farne. C’è chi vuole fare la differenza. Combattere con le donne, per le donne».

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