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L’AFGHANISTAN NON È UN PAESE PER DONNE

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Nonostante gli accordi di Doha facciano sperare in un futuro di pace la condizione femminile resta ancorata a una concezione patriarcale e misogina che nega persino la possibilità di andare in bicicletta. Il tasso di analfabetismo sfiora il 90 per cento.

Romina Gobbo, Famiglia Cristiana, 25 marzo 2020

Afghanistan donne

Niloofar Rahmani nel 2013 è diventata la prima donna pilota militare dell’aeronautica afghana. La sua foto, foulard nero e occhiali da sole, ha fatto il giro dei media del mondo, simbolo di riscatto femminile nel Paese da decenni considerato il peggiore dove nascere donna. Chissà che cosa dice oggi Rahmani dell’accordo “di pace” firmato il 29 ottobre a Doha, in Qatar, fra Stati Uniti e talebani. Visto che a seguito della sua “emancipazione” salita all’onor delle cronache, Niloofar è stata minacciata dalle frange afghane più conservatrici, tanto da dover chiedere asilo agli Stati Uniti, dove si trova e dove ha smesso di volare.

 

«Gli accordi segreti e quelli ufficiali tra gli imperialisti con i loro fantocci non portano mai come risultato la pace. Solo con un movimento unito contro il fondamentalismo e contro i padroni americani, iraniani e pakistani, c’è la speranza di salvare il nostro Paese da miseria, povertà e frantumazione. No America, né jihadisti, né talebani. Potere al popolo afghano»: a parlare così è Selay Ghaffar, attivista, figlia di un combattente per la libertà, e portavoce di Solidarity, unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan. Selay, da sempre impegnata nell’educazione delle donne, è costretta a vivere sotto protezione. Perché i talebani – e la frangia di Daesh presente in Afghanistan – non hanno mai smesso di compiere attentati: secondo un rapporto di Unama, la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, più di 10.000 civili sono stati uccisi o feriti nel 2019; il 27 febbraio, mentre già erano iniziati i negoziati a Doha, due biciclette-bomba sono esplose a Kabul. Tra l’altro, le biciclette rimandano a un altro spregio dei diritti delle donne, quella che ha visto la distruzione dei mezzi a due ruote con le quali il gruppo di atlete della nazionale femminile di ciclismo sognavano di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo, in programma l’estate prossima. Il loro sogno si è infranto sull’altare di una mentalità patriarcale e misogina che considera provocazione sessuale il fatto che una donna sieda su un sellino, motivo di disonore per l’intera famiglia.

Gli americani hanno deciso di lasciare un Afghanistan più pericoloso che mai, dove gli stranieri possono muoversi solo scortati. Riduzione della presenza militare americana a 8.600 uomini entro 135 giorni e ritiro completo entro 14 mesi (tra l’altro, ci si potrebbe chiedere che cosa ne sarà dei contractor privati, di cui non c’è contezza); dall’altro lato, l’impegno dei talebani a fermare la violenza: questo il contenuto dell’accordo di Doha, che ha visto escluso il Governo afghano, non riconosciuto dai talebani. A firmare sono stati il delegato della Casa Bianca, Zalmay Khalilzad, e quello che è considerato il capo politico dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar. «Ma i talebani non sono un gruppo coeso», ha ribadito più volte nei suoi viaggi internazionali, l’attivista Malalai Joya, che nel 2003 da giovane parlamentare della provincia di Farah, aveva denunciato la presenza di «signori e criminali di guerra», all’interno della jirga, l’assemblea riunita per ratificare la costituzione, per sopravvivere (è scampata a sei attentati), dieci anni fa è dovuta entrare in clandestinità. «Ci sono tanti gruppi di ribelli fondamentalisti che si vendono al miglior offerente. Nelle zone confinanti con l’Iran, fanno accordi con l’Iran, al confine con la Russia si tratta con Putin. Chi ha concluso con il presidente americano Trump è uno dei tanti gruppi, che pertanto non può essere garante degli altri». Uno dei nodi importanti rimane la questione femminile.

Quando l’America nell’ottobre 2001, a seguito dell’attentato delle Torri Gemelle, invase l’Afghanistan, l’allora first lady Laura Bush, in un discorso alla radio, affermò che quell’operazione aveva come obiettivo anche il miglioramento delle condizioni di vita delle donne afghane. «Sono passati 18 anni e non abbiamo evidenze di questo miglioramento, nonostante nella Costituzione i diritti delle donne siano tutelati – dice Laura Quagliuolo, attivista Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), un sodalizio che dal 1999 lavora al fianco di alcune associazioni di donne afghane a sostegno dei loro progetti umanitari e politici -. Davanti al mondo, non sarebbe stato possibile non riconoscere i diritti delle donne sulla carta, il problema è poi quello dell’implementazione. Chi ha “osato” parlare, come Malalai, come Selay, ha pagato il prezzo dell’isolamento. Credo pertanto che non ci si debbano aspettare grandi cambiamenti a seguito delle dichiarazioni “politically correct” rilasciate il 29 febbraio a Doha. Non lo sostengo solo io, ma molte amiche afghane, che non si illudono, nonostante in sede di accordo fossero presenti alcune rappresentanti femminili delle Istituzioni. Una cosa è parlare dall’alto di una condizione comunque privilegiata, un’altra è agire davvero per il popolo. Senza contare il peso reale di questo 25-30% di donne che siede in Parlamento. Non basta essere donna, bisogna vedere che tipo di donna e quale relazione ha con il resto delle donne, soprattutto le più emarginate».

In Afghanistan il tasso di analfabetismo femminile si aggira ancora tra l’84 e l’87%. Nella capitale Kabul va meglio, ma nei villaggi rurali, specialmente quelli controllati dai fondamentalisti, i genitori non si fidano a mandare a scuola i figli, soprattutto le bambine. Pertanto, il 66% delle ragazzine tra i 12 e i 15 anni, non studia. Tra il 60 e l’80% delle donne è costretta dalla famiglia a sposarsi contro il proprio volere. La violenza domestica è molto presente. Le difficoltà riguardano anche il lavoro: chi riesce a lavorare è perché è iper qualificato, ma non lo sono le donne, che al massimo possono occuparsi di pulizie e cucito. Non va meglio per la situazione sanitaria: il 50% delle donne continua a partorire in casa, con la sola assistenza di parenti più anziane, e la mortalità materna è ancora altissima.

selay ghaffar

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