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In Afghanistan abbiamo sbagliato tutto, dobbiamo dircelo

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limesonline – 12 ottobre 2020, di Giuseppe Cucchi

Segnaliamo questo articolo che in breve mette in evidenza tutti gli errori che sono stati fatti in quel paese, anche se cerca di assolvere in qualche modo il ruolo degli italiani sul territorio. N.d.R.

afghanistan degli insorti 210

Dopo quasi 20 anni, la Nato se ne va alla chetichella. Senza aver fatto compiere al paese alcun balzo verso il progresso e tradendo chi aveva creduto in noi. Per l’Italia l’unica consolazione è aver assolto fino alla fine al suo compito.

Tanti anni sprecati. Diciannove, ormai. E diventeranno certamente più di venti prima che a Doha o altrove si elabori l’accordo definitivo sull’Afghanistan.

Tante speranze chiuse di nuovo nell’affollato cassetto dei sogni: prima fra tutte quella di riuscire a far evolvere nell’arco di una generazione un intero paese addormentato nel medioevo islamico in uno Stato moderno in cui tutti i cittadini possano godere di inalienabili e irrinunciabili diritti umani.

Tanto sangue sparso invano: a noi italiani il tentativo di modernizzare l’Afghanistan è costato 54 morti, ma vi sono paesi Nato – come gli Usa e il Regno Unito – il cui bilancio di sofferenza è stato ben più alto. Per non parlare poi del prezzo spaventoso pagato in termini di morti, feriti e mutilati da una popolazione locale che in molte province non conosce un giorno di pace da generazioni e su cui spesso è piovuto il fuoco di entrambe le parti.

Tanti soldi buttati al vento, senza che l’impegno si concretizzasse in un balzo deciso verso il progresso. Le spese destinate alla presenza militare alla lunga si sono rivelate astronomiche. Basti pensare che il mantenimento di un soldato americano in quel paese ha un costo complessivo mediamente prossimo al milione di dollari annui, mentre per noi europei il totale si aggira su livelli leggermente inferiori.

Tanti sogni andati in fumo: quelli delle donne afghane che speravano in un futuro più umano; di chi ha creduto nell’avvento dello Stato di diritto; di chi si è battuto – armi in pugno – per cercare di arrestare il ritorno del passato; delle minoranze, come gli hazara, schiavizzate da secoli; dei bambini che speravano di poter far di nuovo volare gli aquiloni.

Afghanistan 2017

A questo punto, per noi occidentali è opportuno almeno trovare il coraggio di tracciare un bilancio sincero e obiettivo, in modo da comprendere quando, dove e in cosa abbiamo sbagliato e da non ripetere gli errori commessi. Al di là di ogni scusa, di ogni giro di parole, di elaborati distinguo capaci di addolcire la pillola, bisogna innanzitutto ammettere che anche noi usciamo sconfitti da quell’Afghanistan che nei secoli ha ben meritato il soprannome di “cimitero degli imperi”.

La Nato, trionfatrice nella guerra fredda, se ne sta andando quasi alla chetichella da un paese dove non è riuscita a imporre la propria volontà, più o meno come successe a suo tempo all’invinto Esercito imperiale anglo-indiano e più tardi alla “gloriosa” Armata Rossa sovietica. Si tratta tra l’altro di una sconfitta atipica, visto che riprendiamo la strada di casa senza aver perso una sola battaglia e avendo mantenuto sino all’ultimo – almeno potenzialmente – una superiorità di forze tale da inchiodare costantemente l’avversario alla guerriglia, senza mai concedergli lo spazio indispensabile per uno scontro campale. In Afghanistan abbiamo dimostrato di essere capaci di trionfare in una guerra classica, ma di non essere in grado di portare a compimento in maniera adeguata il processo di ricostruzione che segue al conflitto.

Dove abbiamo sbagliato, dunque? Innanzitutto, abbiamo peccato di faciloneria e acquiescenza accettando la richiesta americana di entrare in Afghanistan senza prima aver chiaro l’intero percorso della nostra futura presenza e senza esserci chiesti preventivamente quale sarebbe stata la “exit strategy”.

Pur compiendo in parecchi campi sforzi considerevoli non ci siamo mai impegnati politicamente, finanziariamente, in termini di assistenza tecnica e nello stesso settore militare al livello che la situazione avrebbe richiesto. Infine, non siamo riusciti a impedire che per i governanti e l’opinione pubblica dei nostri paesi il salvataggio dell’Afghanistan scadesse rapidamente d’importanza, scendendo nella lista delle priorità sino al punto che nella più grande democrazia dell’Occidente il rientro in patria di alcune migliaia di boys – deciso tra l’altro per motivi essenzialmente elettorali – è divenuto più remunerante che continuare a sostenere e difendere chi per vent’anni ha creduto in noi.

Vi era modo di agire diversamente? Forse no, considerati i difetti congeniti delle nostre democrazie novecentesche ormai in crisi, capaci solo di pensare e agire con un orizzonte di breve periodo e ormai del tutto aliene al pensiero strategico e agli investimenti di lungo termine, nonché assolutamente incapaci – almeno per il momento – di rinnovarsi efficacemente.

A noi italiani resta comunque la consolazione di aver assolto il nostro compito, mantenendo in teatro sino all’ultimo il contingente Nato più grande dopo quello americano. Se un giorno riuscissimo ad avere di nuovo quella politica estera costruttiva che nel nostro paese latita da anni, sarebbe magari anche il caso che pensassimo a seguire anche in forme diverse da quella militare la transizione ormai praticamente in atto, provando ad attenuarne gli impatti negativi. E a salvare almeno parte di quel mondo nuovo per cui afghani e Nato hanno combattuto insieme per due lunghi e sanguinosi decenni.

 

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