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Autonomia e pandemia nel Rojava

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Comune info – Raúl Zibechi, 6 Maggio 2020

RjavaPandemia1Nei cantoni della Federazione democratica della Siria del Nord l’epidemia non avanza ma la situazione del Rojava, dopo l’offensiva dell’aggressione turca che ha distrutto anche buona parte delle apparecchiature sanitarie, resta molto fragile. Per una popolazione di circa quattro milioni di abitanti, c’è un ventilatore polmonare ogni centomila persone. La difesa della salute, in una delle pochissime zone del mondo dove viene davvero considerata un bene comunitario e non individuale, si basa in primo luogo sull’autonomia, la prevenzione sociale e l’educazione.
Una scelta molto diversa da quella dove vengono imposte misure statali repressive e centralizzatrici. L’auto-organizzazione, quando decide restrizioni delle libertà di movimento, lo fa dopo averlo discusso a fondo e deciso con il consenso di tutti. Anche con la pandemia, così come contro l’aggressione militare ancora in corso, l’organizzazione politica delle Comuni del Rojava e l’attività delle cooperative che producono il cibo e quel che serve alla protezione sanitaria di tutti, si fonda sulla stessa quotidianità della resistenza che serve a difendersi dalle aggressioni armate. Non esiste separazione reale tra la gente e chi deve occuparsi più direttamente di difendere la comunità dai pericoli che la minacciano

Quando lo Stato è poco più che un miserabile spettro genocida, le risorse dei popoli sono la sola riserva possibile per combattere guerre e malattie, le cui conseguenze non hanno quasi la minima differenza. Certo, le guerre distruggono, oltre alle persone, anche edifici e infrastrutture, mentre le epidemie colpiscono, in primo luogo, proprio gli esseri umani.

Dopo un lungo decennio di guerra aizzata dai principali stati del pianeta e della regione, quelli più armati e più irragionevoli, capaci perfino di creare e alimentare quel mostro chiamato Stato Islamico, nel nordest della Siria i popoli organizzati stanno adesso resistendo alla pandemia del coronavirus.

Quel che sembra più importante, secondo le notizie che ci arrivano, è che combattono il virus con le stesse armi che hanno utilizzato durante la guerra: la coesione comunitaria, l’organizzazione di base e la determinazione, in quanto popoli, nel far fronte in modo collettivo ai maggiori ostacoli. È così la vita nei territori dove il popolo kurdo fa dell’autonomia il suo tratto identitario.

Un ventilatore polmonare ogni centomila abitanti, è questo lo stato delle risorse tecniche su cui conta la regione, secondo il Centro d’Informazione del Rojava. Buona parte della strumentazione sanitaria è stata distrutta dai recenti attacchi della Turchia alle regioni autonome kurde.

Le cooperative tessili e agricole sono incaricate di produrre mascherine per la protezione e gli alimenti necessari. Le Comuni del Rojava hanno deciso di proclamare lo stato d’emergenza dal 23 marzo, sottomettendo chi arriva nella zona a una quarantena preventiva, mentre le strutture economiche e politiche dell’autonomia, le stesse che hanno permesso la sopravvivenza durante un decennio di guerra civile in Siria, garantiscono la vita della popolazione.

RjavaPandemia2Le cooperative sono più in sintonia con le necessità delle comunità in cui vivono i loro membri e, pertanto, hanno maggiori probabilità di prendere decisioni basate più sulla necessità che sui ricavi, segnala un reportage di Kurdistán América Latina.

Le Comuni, cioè le unità di base con le quali è organizzata la popolazione, garantiscono il rispetto del confinamento in casa e la distribuzione degli alimenti, si basano soprattutto sulla conoscenza del luogo e la piccola scala di queste strutture. Elaborano liste con le famiglie che hanno maggiore bisogno di cibo, prodotti igienici e medicinali e vanno di casa in casa distribuendo gli aiuti, per evitare affollamenti. È una forma di organizzazione che facilita la protezione delle famiglie, giacché “i partecipanti alla Comune non hanno bisogno di andare oltre il vicinato per distribuire aiuti, facendo così scendere il numero delle persone che si spostano tra una città e l’altra”.

Questo ordine comunitario e autonomo si mantiene in una regione popolata da quattro milioni di persone, compreso il milione (circa) di rifugiati che vivono nelle tende a causa dell’aggressione turca. Malgrado la rigorosa organizzazione, il lavoro delle cooperative, delle comuni e della solidarietà internazionale, gli ospedali e i centri di salute hanno la capacità di prendersi in cura solo 460 casi di coronavirus.  

Un Rapporto del Comitato di Solidarietà con il Kurdistan di Città del Messico sottolinea che gli Stati e le organizzazioni internazionali, come l’ONU e l’OMS, stanno agendo in modo irresponsabile di fronte ai continui bombardamenti turchi sui villaggi del Rojava, che – tra le altre cose – provocano anche la mancanza di acqua con il relativo aggravamento della situazione sanitaria.

Di fronte a questa situazione, quello che funziona è solo “l’autorganizzazione delle Comuni, cioè un’organizzazione ecologica e pacifica dei popoli, nel contesto dell’Amministrazione Autonoma del Nordest della Siria, ispirata al confederalismo democratico teorizzato da Abdullah Öcalan, il leader kurdo prigioniero nell’isola turca di Imrali.

In sintonia con l’esperienza zapatista e di altri popoli latinoamericani, continua il Comitato di Solidarietà, nel Rojava si difende una salute comunitaria basata in primo luogo sull’autonomia, la prevenzione sociale e l’educazione, ben al di là delle misure statali repressive e centralizzatrici.

Ritornare alla terra e alla natura è uno degli slogan del popolo kurdo, che tenta di affrontare questa e le future pandemie ripopolando i villaggi rurali e riforestando, con coltivazioni diversificate in base al lavoro comunitario.

La Mezzaluna Rossa ha lanciato un appello per intensificare gli aiuti e la solidarietà di fronte alla minaccia del coronavirus.

RjavaPandemia3Autodifesa, autonomia e salute comunitaria sono le parole che risuonano in questi giorni nefasti dal Rojava fino al Chiapas, passando per Lima, dove centinaia di persone andine ritornano ai loro paesi di montagna, con lo slogan “Qui finisce Lima, come racconta una magnifica descrizione di Rodrigo Montoya. Lontane dalla modernità urbana individualista, quelle persone vogliono rifarsi una vita nelle comunità intessute sulla base della reciprocità e del mutuo aiuto.

Il futuro dell’umanità si gioca in questi spazi e territori de los de abajo, perché resistere alla pandemia comporta per loro mettere in gioco le stesse risorse con cui resistono allo Stato e al capitale.

Questo articolo è uscito anche su la Jornada

Traduzione per Comune-info: marco calabria

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