Afghanistan, ecco la prigione delle donne che hanno ucciso i mariti
corriere.it – Viviana Mazza – 13 marzo 2020
Questo carcere è destinato alle donne che commettono “delitti morali” che quasi sempre sono commessi da donne che si ribellano a violenze domestiche, stupri, matrimoni precoci, ecc.
I soldi andrebbero investiti in Centri Anti Violenza, in Centri di Aiuto Legale, in Shelter, non in carceri, perché queste donne NON dovrebbero proprio stare in carcere, ma essere aiutate a fuggire dal marito violento.
Negli stanzoni con i letti a castello dalle fantasie sgargianti, nel cortile dove lavano vestiti e pentole, o giocano a pallavolo: una fotografa iraniana-canadese ha seguito i giorni delle uxoricide detenute in un carcere-modello.
Detenute con figli nel centro di detenzione temporaneo di Kabul (foto V. Mazza)
L’acqua scorre dal rubinetto. Parisa, con i capelli raccolti indietro, è china sulla sua bambina in pannolino che strilla mentre le fa il bagnetto in una bacinella di plastica. Quest’immagine potrebbe essere stata scattata ovunque, ma è straordinario che venga da un carcere in Afghanistan.
La fotografa iraniana-canadese Kiana Hayeri solleva il burqa azzurro in cui spesso le donne afghane vengono ritratte, guadagnandosi la fiducia che le permette di accostarsi alla vita delle detenute e delle guardiane della prigione femminile di Herat. Storie drammatiche All’inizio Hayeri arriva con un uomo come accompagnatore, ma una guardia le bisbiglia di tornare da sola. La fotografa lo farà, ripetutamente, per una decina di giorni. Non le è permesso passare la notte dentro, ma le offrono il tè, osserva le carcerate che, in cambio di qualche soldo, badano ai figli delle guardiane, provano nuove acconciature, rompono insieme il digiuno del Ramadan negli stanzoni con i letti a castello allineati e decorati con fantasie sgargianti. La maggior parte del tempo lo passano in cortile, ad appendere il bucato, sfregare pentole, giocare a pallavolo. Parisa è un’assassina. Due anni fa ha ammazzato il marito, come una ventina delle 119 detenute che vivono con i loro 32 bambini in questa prigione-modello, gestita con l’aiuto di Ong locali, in una provincia a lungo affidata ai soldati italiani nella missione della Nato.
QUELLO DI HERAT È UN CARCERE MODELLO: CI VIVONO 119 DETENUTE CON 32 BAMBINI. UNA VENTINA DI LORO HA AMMAZZATO IL MARITO DOPO TERRIBILI STORIE DI VIOLENZE
Parisa non è pentita. «Non potevo vivere un altro giorno con lui». Moltissime donne afghane sono costrette dalle famiglie a sposarsi giovanissime – lei a 16 anni – con uomini assai più anziani, criminali, combattenti, tossicodipendenti (o tutte e tre le cose insieme). In un Paese che, dopo oltre tre decenni di guerra, è assuefatto alla violenza domestica, era routine per Parisa che il marito la legasse e le battesse mani e piedi con un bastone di legno. In due occasioni «per darle una lezione» le ha sparato, ma l’ha mancata. Una volta si è accordato per vendere un rene della moglie: l’ha portata in ospedale, ma il gruppo sanguigno non combaciava con il compratore, perciò l’ha picchiata. Una sera Parisa si è chiusa a chiave in camera da letto, ha caricato il fucile del marito e ha aspettato. Quando lui ha cominciato a inveire fuori dalla porta, lei ha sparato. I proiettili hanno fatto breccia attraverso l’uscio, in pochi minuti è morto.
HAYERI HA RACCONTATO QUESTE NUOVE ESISTENZE, SPESSO MIGLIORI DI QUELLE LASCIATE ALLE SPALLE, NONOSTANTE LA DETENZIONE. COME PARISA, 22 ANNI, OMICIDA: «NON POTEVO VIVERE UN ALTRO GIORNO CON LUI»
Una donna piange centro di detenzione temporaneo di Kabul (foto Viviana Mazza)
Nel 2016, ben prima del recente controverso accordo di pace tra l’America e i talebani, l’atmosfera da fine di un’era si sentiva già a Kabul. Un’avvocata, Latifa Sharifi, ci raccontò che dalla caduta del regime fondamentalista nel 2001 ci sono stati cambiamenti sulla carta, innanzitutto la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne che sanziona lo stupro, le percosse alla moglie, i matrimoni forzati e precoci, e proibisce il controllo della famiglia sulla scelta del coniuge. Ma la stragrande maggioranza dei casi non finisce mai in tribunale: la polizia, i procuratori e i giudici continuano a seguire le loro interpretazioni della sharia, e comunque gli stessi tribunali spesso decidono in base alle mazzette che ricevono. Il divorzio? «Devi provare che lui ti picchia, ma alcune madri, quando scoprono che i figli dopo i sette anni e le figlie dopo i nove restano col padre, preferiscono sopportare le botte». L’avvocata le aiutava e, per questo, riceveva minacce di morte di cui non osava parlare nemmeno al marito, per timore che non le permettesse più di lavorare.
L’unico atto di ribellione: darsi fuoco
Le auto-immolazioni — darsi fuoco — per tante vittime di violenza restano l’unica ribellione. Molte nel carcere di Herat hanno provato a togliersi la vita. La fotografa si chiede cos’è che, invece, fa scattare l’istinto di sopravvivenza, che trasforma la paura in rabbia. Parisa ha 22 anni, resterà dentro fino ai 36, ma ha i figli con sé: Fatima, un anno, e Mohammed di 3. Sembra assurdo, ma in prigione ha trovato, se non la pace, una forma di libertà, per sé e per loro. Parisa e le altre provano “speranza”, ha spiegato Hayeri al New York Times, che per primo ha pubblicato le immagini. Alcuni bambini, nati nel carcere, non hanno mai visto il mondo fuori. Le madri li guardano crescere, dopo i cinque anni li mandano dai parenti o in orfanotrofio per farli studiare. Parisa aveva lasciato che Mohammed andasse a trovare i suoceri: quando loro hanno cercato di sottrarle il bambino, si è battuta per rivendicarne la custodia, ottenendo che lo riportassero da lei.
Una carceriera nel centro di detenzione temporaneo di Kabul, sfoglia il registro con i nomi delle donne incarcerate (foto Viviana Mazza)
La gioia per una borsa di studio ai figli
Le madri di adolescenti si illuminano in viso: mia figlia ha vinto una borsa di studio, il mio è arrivato a piedi in Germania. Le loro storie ci ricordano Yalda, una madre incontrata quattro anni fa in un centro di detenzione temporaneo di Kabul. In uno stanzone assai più derelitto (poche prigioni afghane, conferma la fotografa, sono come quella di Herat), sedici donne aspettavano il verdetto con i figli piccoli al loro fianco. «Tre danzavano, due hanno bevuto vino e si sono azzuffate, due adultere…»: elencava allora la direttrice scorrendo le accuse sul registro. Anche a Herat metà delle condanne sono per crimini “morali”, come la fuga da casa o i rapporti sessuali fuori dal matrimonio (vale pure in caso di stupro), verificati praticando “test di verginità” malgrado i dinieghi ufficiali. Quella donna di 32 anni, Yalda, ci raccontò che il marito beveva, la picchiava, le rubava i soldi. È stato quando lui ha cominciato a molestare le due figlie adolescenti che ha detto basta e ottenuto il divorzio. Allora lui ha presentato in tribunale una foto che la ritraeva con un altro uomo (un fotomontaggio, giurava Yalda): è stata condannata a 13 anni per adulterio.
Una via d’uscita: le manette
Dopo la caduta dei talebani, i signori della guerra che hanno preso il potere si sono dimostrati spesso uguali ai talebani, e i governi occidentali poco disposti a condurre una battaglia culturale. Non tutte le conquiste sono illusorie, ma molte sono fragili e reversibili. Eppure, non sottovalutate la resilienza delle afghane. Da queste parti, si dice che le donne possono lasciare la casa soltanto in un’occasione: quando è tempo di avvolgerle nel sudario. Parisa e le altre hanno trovato un’altra via d’uscita: in manette.
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