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“Siamo tutte prigioniere in questo Paese”. Perché l’Afghanistan è ancora considerato il luogo peggiore al mondo per essere una donna.

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Rawa News, 13 dicembre 2018 – Lauren Bohn

L’Afghanistan è ancora oggi classificato come il luogo peggiore in cui vivere per le donne

Traduzione a cura di: Lucia Olimpia, Claudia Pisell, Elena Boraschi, Simone Rivello

selfburn afghan womenMariam piange per sua figlia Najiba, 13 anni. Najiba, che è stata sposata per sei mesi, ha dichiarato, tramite la madre, che sua suocera l’avrebbe cosparsa di benzina e le avrebbe dato fuoco. Alcune infermiere dell’ospedale sono rimaste scettiche di fronte a questa storia e, sin da subito, hanno sospettato potesse essersi data fuoco da sola in un tentativo di suicidio. (Foto: Lynsey Addario/ NYTimes)

Era una mattinata di sole all’inizio di dicembre dello scorso anno quando la ventitreenne Khadija si è data alle fiamme. Ha dato un bacio d’addio a suo figlio di tre mesi, Mohammed, e ha pronunciato una breve preghiera.

Ha supplicato:“Dio ti prego, metti fine a questa sofferenza” nel cortile assolato della sua casa a Herat, Afghanistan, mentre rovesciava cherosene da una lampada sul suo esile corpo. Poi ha acceso un fiammifero. Il cinguettio degli uccelli è stata l’ultima cosa che ha sentito.

La mattina seguente, si è resa conto che le sue preghiere non erano state ascoltate. Khadija, che ha chiesto al TIME di non pubblicare il suo cognome né quello della sua famiglia, si è svegliata nell’unico centro ustioni dell’ospedale di Herat, il corpo con ustioni di terzo grado avvolto da bende.

“Non sono viva e non sono nemmeno morta” mi ha detto Khadija la settimana scorsa, piangendo e stringendo le mani della sorella, Aisha. “Ho cercato di fuggire e ho fallito”. Come la maggioranza delle donne afghane, Khadija è vittima di violenza domestica. Ci ha raccontato per quattro anni suo marito l’ha picchiata e insultata: “sei brutta e stupida”, “una nullità.”

“Le donne non hanno mai una scelta,” ha detto Khadija lo scorso dicembre, in ospedale, con le lacrime che le rigavano il viso, un mosaico carbonizzato di cicatrici quasi irriconoscibile. “Se avessi potuto, non l’avrei sposato. Siamo tutte prigioniere in questo paese.”

zahra acid attack by husband aug10 18

Zahra è stata picchiata dal marito che le ha poi versato dell’acido sul viso. In questa foto si trova all’ospedale di Kabul. (Photo: TOLOnews.com)

La decisione di Khadija di darsi alle fiamme ha fatto arrestare il marito con l’accusa di violenza domestica, una situazione alquanto insolita in un paese in cui la violenza sulle donne è raramente criminalizzata. Ma anche se il marito sta scontando la sua pena in prigione, Khadija si sente comunque in trappola, più di quando ha cercato di togliersi la vita. I genitori del marito, che si stanno occupando di suo figlio, hanno dato un ultimatum a Khadija: se dice alla polizia di aver mentito, se dice che suo marito non abusa veramente di lei e se torna a casa allora potrà rivedere suo figlio. Se rifiuta, non lo vedrà mai più.

In un paese distrutto da decenni di guerre e povertà, la storia di Khadija mostra come le donne in Afghanistan stiano lottando per vivere dignitosamente. Evidenzia inoltre come, di fronte al misero sostegno del governo e ai sempre inferiori aiuti internazionali, le donne stiano cercando di intervenire per aiutarsi l’una con l’altra.

Non doveva andare così in Afghanistan, il paese di 35 milioni di abitanti in cui gli Stati Uniti hanno intrapreso una lunghissima guerra che era stata promossa, in parte, come “una lotta per i diritti e la dignità delle donne”. I Talebani hanno governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001, periodo in cui le donne erano praticamente invisibili nella vita pubblica, andare a scuola e lavorare era proibito. In un discorso via radio alla nazione del 2001, la allora First Lady Laura Bush, incoraggiò gli americani a “unirsi alle nostre forze e lavorare per garantire e mettere al sicuro la dignità e le opportunità di donne e bambini in Afghanistan.” Nel 2004, il presidente George W. Bush dichiarò la vittoria degli Stati Uniti.

 

Ma dopo diciassette anni, e quasi 2,000 miliardi di dollari, il paese è ancora in tumulto mentre i Talebani controllano quasi il 60% del territorio, la percentuale più elevata dal 2001. A ottobre, l’ONU ha dichiarato che il numero di morti civili afghani è il più alto dal 2014: da gennaio a settembre, hanno perso la vita almeno 2,798 civili, e più di 5,000 sono stati feriti. Il sondaggio più recente in Afghanistan, effettuato a luglio dalla Gallup, ha rivelato livelli di ottimismo notevolmente bassi: le valutazioni degli afghani sulla propria vita sono le più basse mai rilevate negli anni precedenti in ogni paese.

     
 

Come in tutte le società devastate dalla guerra, le donne soffrono in modo sproporzionato. L’Afghanistan è ancora oggi classificato come il luogo peggiore in cui vivere per le donne. Nonostante i tentativi da parte del governo afghano e degli aiuti internazionali per educare le bambine, iniziati nel 2001, si stima che i due terzi delle bambine afghane non vadano a scuola. L’87% delle donne è analfabeta, e il 70/80% è obbligato a matrimoni forzati, molti prima dei 16 anni. A settembre, un reportage dell’osservatorio ha definito il programma Promote da 280 milioni di dollari dell’USAID – il più grande investimento mai effettuato dal governo degli Stati Uniti per promuovere i diritti delle donne a livello globale – un fallimento totale e uno spreco di soldi per i contribuenti.

Time, 8 Dic, 2018

 
     

 

Le statistiche governative dal 2014 a oggi indicano che sono le donne a commettere l’80% dei suicidi, rendendo l’Afghanistan uno dei pochi paesi al mondo ad avere percentuali più alte tra le donne. Gli psicologi attribuiscono quest’anomalia a un circolo vizioso di violenza domestica e povertà. Dal sondaggio del 2008 della Global Rights è emerso che circa il 90% delle donne afghane ha subito violenza domestica.

“Mi costa ammetterlo, ma la situazione non fa che peggiorare,” ha detto Jameela Naseri, avvocato di 31 anni del Medica Afghanistan, una ONG fondata dalla tedesca Medica Mondiale, che difende donne e ragazze in zone di guerra e crisi su scala mondiale. Naseri si occupa del caso di Khadija, così come dei casi di dozzine di altre donne in cerca di rifugio o divorzio da mariti presumibilmente violenti. A dispetto di ciò che lei chiama “una guerra contro le donne”, si è messa alla guida di una coalizione informale, ma decisa, di psicologhe, dottoresse e attiviste ad Herat, che si occupa di casi come quello di Khadija.

“Incontro una Khadija nuova quasi ogni giorno,” ha detto Naseri, mentre rispondeva alla chiamata di un’attivista. Quella settimana, un uomo aveva affermato che sua moglie fosse morta a seguito di una lunga malattia, ma ora le attiviste sospettano si tratti di uxoricidio. “Facciamo del nostro meglio per aiutare queste donne, ma non è sempre possibile. È una cosa difficile da accettare.”

Herat, provincia dell’Afghanistan occidentale, vicino al confine con l’Iran, ha uno dei tassi più elevati del paese per quanto riguarda la violenza sulle donne e i suicidi femminili. La psicologa Naema Nikaed, che lavorava con Khadija, ha dichiarato di occuparsi, ogni settimana, di molti casi di tentati suicidi, la maggior parte dei quali non denunciati per paura di macchiare l’onore della famiglia.

“Il governo ci tiene a sottolineare la propria volontà di dare priorità alle donne,” mi ha detto una diplomatica afghana, parlando in condizioni di anonimato durante il vertice NATO a Bruxelles lo scorso luglio. “Ma non è realmente così. Sostenere le donne afghane è qualcosa che le persone di tutto il mondo farebbero solo a parole, perché non riuscirebbero mai a mandare loro soldi e assistenza. È tutto divorato dalla corruzione, il mostro della guerra.” Transparency International colloca l’Afghanistan al quarto posto tra gli stati più corrotti al mondo, prendendo atto del fatto che la corruzione impedisce agli aiuti umanitari di arrivare dove necessario.

Al vertice NATO, ho domandato al Presidente Ashraf Ghani il motivo per cui i due terzi delle ragazze non sono ancora andate a scuola e lui ha attribuito la maggior parte della colpa al numero degli interventi umanitari occidentali errati e sconclusionati, che non hanno preso in considerazione le realtà locali.

“Andando al nocciolo della questione, quanti istituti femminili durante la pubertà sono dotati di servizi igienici? Questo è fondamentale” ha detto il Presidente. “Quanti istituti femminili sono a tre chilometri di distanza? Qui, la questione è che esperti internazionali hanno da sempre una visione androcentrica. Parlano di genere, ma i loro volantini sono patinati e totalmente privi di contenuto”.

Eppure, le attiviste dicono che il governo di Ashraf Ghani non si è realmente assunto le proprie responsabilità per gli evidenti passi indietro fatti in tema di diritti delle donne. Nel 2015, a Kabul, la ventisettenne Farkhunda Malikzada è stata picchiata a morte da una banda, dopo esser stata accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano. Il governo non ha fatto nulla per renderle giustizia e ha ignorato le richieste di intervento per combattere la violenza sulle donne.

Inoltre, nel febbraio 2018, l’Afghanistan ha approvato il disegno di legge di un nuovo codice penale che la Missione di Assistenza dell’ONU in Afghanistan (UNAMA) ha accolto come un traguardo nella riforma del diritto penale del paese. Tuttavia, un capitolo del codice è stato rimosso prima che fosse approvato: il capitolo penalizzava la violenza sulle donne. A giugno, un rapporto delle Nazioni Unite ha richiamato all’ordine il sistema giudiziario penale afghano per aver ignorato la violenza sulle donne.

     
 

Le statistiche governative dal 2014 a oggi indicano che sono le donne a commettere l’80% dei suicidi, rendendo l’Afghanistan uno dei pochi paesi al mondo ad avere percentuali più alte tra le donne. Gli psicologi attribuiscono quest’anomalia ad un circolo vizioso di violenza domestica e povertà. Dal sondaggio del 2008 della Global Rights è emerso che circa il 90% delle donne afghane ha subito violenza domestica.

Time, 8 Dic, 2018

 
     

 

“Sembrava che i diritti delle donne dovessero essere la storia di successo dell’invasione del 2001”, afferma Naseri. “Il retaggio della guerra, tuttavia, continua a uccidere le nostre donne”.

Naseri conosce questo retaggio fin troppo bene. Anche sua madre fu costretta a sposare suo padre a soli 12 anni e in seguito subì abusi per anni. Per poter andare a scuola, Naseri e sua madre raccontavano bugie per far sì che il padre la lasciasse uscire di casa. Gli dicevano che Naseri andava in moschea o a studiare il Corano. La scuola non è un posto per ragazze, ribatteva il padre. Alla fine, comunque, riuscirono a convincerlo a farla andare all’università. Naseri divenne la prima e unica donna della famiglia a laurearsi.

Davanti a tale oppressione, Naseri si ripromise di diventare un avvocato e di aiutare donne come sua madre e sua sorella, costretta a sposarsi a 14 anni.

“Noi donne afghane dobbiamo risolvere i nostri problemi da sole. Non possiamo aspettare che il governo e le organizzazioni di beneficenza internazionali ci salvino o ci liberino”, sostiene Naseri nel suo ufficio Medica. Dall’altra parte del corridoio è seduta Sahar, una ragazza di 16 anni che aspetta di parlare con Naseri. È stata portata a Medica da sua madre dopo aver tentato di buttarsi dal balcone al sesto piano del palazzo in cui vivono. Nel giro di pochi giorni doveva sposare suo cugino e ci ha raccontato che suo zio la violentava da quando aveva appena 10 anni.

“Fare questo lavoro da sole è altamente rischioso. Possono ucciderti in qualsiasi momento”, afferma Naseri. Non c’è settimana in cui non venga minacciata di morte. Giusto l’anno scorso, una banda di uomini inferociti è entrata nel centro minacciando di dargli fuoco, sostenendo che Naseri stesse promuovendo il divorzio e danneggiando il tessuto sociale afghano.

“So cosa significa essere vittime”, dichiara Naseri. All’università si innamorò di un compagno di corso. Dice di essere la prima donna della sua famiglia il cui matrimonio non è stato combinato.

     
 

samia nine year old wife killed by husband badghis afghanistanTOLOnews.com (Tradotto da RAWA), 30 luglio 2018: a soli 7 anni, Samia è stata costretta da suo padre a sposare un uomo di 33 anni in cambio di un milione di afghani. Due anni dopo, a soli 9 anni, è stata uccisa da suo marito nella provincia di Badghis, nell’ovest dell’Afghanistan

(Foto: TOLOnews.com)

 
     

A marzo, proprio nella Giornata Internazionale della Donna, Naseri ha dato alla luce suo figlio. “Mi rifiuto di far vivere mio figlio in un mondo in cui si reputa le donne cittadine di serie B”.

Lo scorso dicembre i corridoi dell’ospedale di Herat erano stracolmi di pazienti seduti per terra in attesa di cure. Tutto era gialliccio: le sedie, le pareti, il pavimento. Gemiti di dolore echeggiavano nel reparto ustionati.

La dottoressa di Khadija, la ventinovenne Hasina Ersad, l’ha visitata più volte al giorno per mesi. “Ho sempre visto donne come Khadija”, afferma Ersad. “È grazie a lei se ho voluto fare la dottoressa”.

Khadija dice di aver iniziato a subire abusi subito dopo il matrimonio. Suo padre, Mohammed, era povero e l’ha venduta. Il marito le aveva promesso che avrebbe avuto il permesso di andare a scuola e di inseguire il sogno di diventare estetista, ma già dalla prima settimana di matrimonio capì che probabilmente non sarebbe mai stato così. Sua suocera le disse che il suo compito era crescere dei figli. Dopo diversi aborti nacque finalmente suo figlio Mohammed. Khadija pensava che dopo il lieto evento le violenze sarebbero terminate, ma le cose peggiorarono.

Secondo sua sorella Aisha, le violenze domestiche sono all’ordine del giorno. “Mio marito mi ha picchiata per anni” dice con un’alzata di spalle.

Il marito di Aisha ha 71 anni. Lei ne ha 26. Con il passare degli anni ha pensato al divorzio, ma sa come stanno le cose: perderebbe la custodia dei suoi tre figli e probabilmente non potrebbe risposarsi mai più. In caso di divorzio, alle donne spetta la custodia dei figli fino all’età di 7 anni, dopodiché questa passa al padre.

“Non siamo state ragazze fortunate”, afferma Aisha. Khadija annuisce con uno sforzo. “In realtà, nessuna ragazza è fortunata in Afghanistan.”

La psicologa di Khadija, Naema Nikaed, una delle poche in Afghanistan a dare supporto alle donne sopravvissute a suicidio, e le sue colleghe affermano che negli ultimi anni si è registrato un boom di suicidi tra le donne.

“Se il governo non inizia a considerare la vita delle donne una priorità, qui in Afghanistan ci sarà una guerra eterna”, dichiara la psicologa, che quel giorno aveva già visitato una paziente quindicenne che al mattino era andata in overdose da pillole sconosciute acquistate in farmacia.

“Sta solo a noi – donne come me, Jameela e altre – combattere questa discriminazione e salvare vite. Solo noi possiamo salvare noi stesse”.

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Una bambina di sette anni è stata violentata a Badakhshan, una provincia nel nord dell’Afghanistan. La gente del posto, arrabbiata, afferma che la polizia non ha arrestato il colpevole. (Foto: TOLOnews.com)

Quando Khadija aveva tre anni, sua madre morì per complicazioni durante il parto, lasciando il marito Mohammed a crescere lei e i suoi quattro fratelli. (L’Afghanistan è tra i paesi con il tasso più alto di mortalità materna al mondo).

“Ho sempre desiderato dare alle mie figlie una vita migliore, ma come potevo fare?” racconta Mohammed mentre cerca lavoro occasionale all’incrocio di una strada chiassosa. È una fredda mattina di dicembre e lui ed altri uomini si scaldano le mani su un fuoco improvvisato. Ha solo 50 anni, ma il suo volto è consumato prematuramente da anni di depressione e indigenza.

Entrambi i genitori di Mohammed sono morti quando aveva un anno; dice di essere cresciuto con uno zio violento che gli ha rubato la terra. “La guerra ha colpito tutto il paese”, dice. “È tutto ciò che conosciamo e ci ha distrutti e resi ciechi”.

Quando Khadija aveva 15 anni, il padre iniziò a comprare la dote. L’offerta più alta arrivò da una famiglia della classe operaia di Herat con una reputazione “abbastanza decente”. Mohammed ricevette $3,400 in cambio di Khadija.

Mohammed dice che capisce che la figlia sia infelice, ma che lei non ha scelta. Anche se il marito è violento, è risoluto su cosa dovrebbe fare la figlia: rimanere con lui. “Non posso occuparmi di lei. Vorrei poterlo fare, ma starà meglio con loro” dice. “Fidatevi, starà meglio lì”.

Per arrivare a casa di Khadija e dei suoi suoceri, si passa attraverso un labirinto di strade disseminate di spazzatura e piccoli negozi agli incroci che vendono null’altro che bibite e patatine. A un incrocio, c’è un piccolo asilo pieno di maschietti con le camicie blu, lì vicino un negozio di articoli di bellezza dove Khadija ha lavorato qualche volta– unico sollievo dalla vita domestica. Nella piccola sala, i parenti acquisiti di Khadija mi dicono che loro figlio “non ha mai toccato” Khadija, e che per colpa sua, ora la famiglia aveva perso rispettabilità. Quando il figlio chiamò dalla prigione, dove gli era concessa una chiamata al giorno, mi disse che era innocente.

Hassina Nikzad, un’amica di Naseri, direttrice dell’Afghan Women’s Network, andava a trovare Khadija ogni settimana, ricordandole che poteva chiedere il divorzio. “Ma dove andrò? La mamma è morta e il papà è vecchio” diceva a sua sorella Aisha.

woman injured in airstrike herat afghanistan aug28 1729 agosto, 2017: Una donna riceve cure per una ferita in seguito a un attacco aereo nella provincia di Herat, Afghanistan, L’attacco è stato portato a termine da un drone che ha ucciso almeno 13 civili, tra cui donne e bambini. (Foto: Mohammad Shoib/Reuters)

Nikzad le suggerisce che potrebbe andare a stare in un ricovero e imparare un mestiere, magari sartoria. Khadija scuote la testa e guarda in basso.

Lo scorso dicembre, Nikzad mi disse che non era sicura che Khadija sarebbe andata fino in fondo con il divorzio. “A volte è più facile rimanere nel dolore. Iniziare una nuova vita in Afghanistan sembra impossibile” dice. “Non ci danno possibilità, figuriamoci una seconda occasione”.

Lo scorso giugno, quando Khadija ha lasciato l’ospedale, ha comunicato rassegnata a Naseri che aveva deciso cosa fare. Nonostante il suggerimento di Naseri fosse quello di andare in ricovero, Khadija ha deciso di tornare dai genitori del marito. Il dolore di non vedere il figlio è insopportabile e la possibilità di crescere un bambino in un ricovero le sembra troppo spaventoso.

Ma dopo un mese dall’essere tornata a casa, Khadija chiama Naseri nel mezzo della notte, piangendo. I suoceri non la lasciano toccare il figlio, dice Khadija. E il marito la continua a minacciare dicendo che l’avrebbe “punita” una volta uscito di prigione.

Siccome a Herat non c’è un centro di accoglienza adeguato, Khadija decide di andare a stare nel monolocale del padre. Ma la matrigna è chiara sul fatto che Khadija non è la benvenuta lì.

“Non mi pento di quello che ho fatto, ma ho ancora le mani legate”, mi racconta Khadija su Skype a novembre. Non vede il figlio da mesi. “Un giorno, proverò a spiegare a mio figlio perché l’ho fatto. Spero possa capire”. Naseri l’abbraccia mentre singhiozza.

Verso la fine di novembre, il marito di Khadija è uscito di prigione. Poco dopo, Naseri ha provato a contattarla ma non ci è riuscita. Il telefono è stato sempre spento da allora. Naseri sospetta che Khadija sia scappata oltreconfine, in Iran. Probabilmente non rivedrà il figlio – almeno per un po’.

Per Naseri, Khadija è una delle tantissime vittime invisibili della guerra che il paese combatte contro le donne. “Sarei potuta essere Khadija” afferma Naseri. “Cosa ci rende diverse? Nulla”.

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