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La guerra sporca di Erdogan contro i curdi non si è fermata.

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A un mese dall’invasione delle truppe turche nella Siria del nord  la sorte dei curdi non è più sulle prime pagine dei giornali ma la guerra continua ed sempre peggio per le popolazioni di quel territorio [N.d.R.]

Armi chimiche, bombe sulle ambulanze, favori all’Isis che ha moltiplicato gli attacchi. Rapporto dal fronte siriano di cui non si parla più.

image copyL’Espesso – 19 dicembre 2019 di MARTA BELLINGRERI DA QAMISHLI (SIRIA) – FOTO DI ALESSIO MAMO

A distanza potrebbe sembrare uno dei tanti tel. In arabo significa collina e, dai tel che caratterizzano quest’area, prendono il nome molte cittadine della zona di confine tra Siria e Turchia, come Tell Abiad o Tell Tamer. Ma quella che si scorge sulla strada all’orizzonte non è affatto una collinetta. È una montagna. Una montagna di fumo nero che domina tutto il paesaggio circostante.

Il fumo nero più scuro e denso proviene dai copertoni bruciati apposta per oscurare lo spazio aereo. L’apparente calma dei pascoli, dei bambini che giocano tra le pecore in villaggi minuscoli sulla strada, è scossa dall’immagine di un soldato delle Forze siriane democratiche (Sdf nel suo acronimo inglese) che punta il fucile a una capra solitaria per chiederle di spostarsi da un check-point, l’ultimo prima della rotonda di Tell Tamer.

Le segnaletiche in alto indicano a caratteri cubitali: Aleppo 325 km, Raqqa 180 km, Ras al-Ain 35 km. L’unica indicazione che manca è quella già annunciata dalla montagna di fumo nero: otto chilometri dal fronte della battaglia. E alle nove, puntuali dopo qualche ora notturna di pausa, cominciano i bombardamenti turchi.

Lo scorso 9 ottobre la Turchia ha iniziato l’operazione denominata “Sorgente di Pace” nel nord-est della Siria, attacco contemporaneo a – e incoraggiato da – il ritiro delle truppe statunitensi che hanno supportato le Sdf nella lunga battaglia contro l’Isis. La violenza, i crimini e il progetto di ingegneria demografica dell’incursione di uno stato membro della Nato, la Turchia per l’appunto, e dei suoi alleati siriani, gruppi jihadisti riuniti ora sotto il nome “Esercito nazionale siriano” ricorda molto l’occupazione della provincia di Afrin, nel nord-ovest del paese, all’inizio del 2018.

I combattimenti e bombardamenti ancora in corso non fanno pensare a una fine vicina. Sempre nel nord-ovest della Siria distrutta da otto anni di guerra, le bombe del regime siriano coadiuvato dall’aviazione russa colpiscono invece – e da altrettante settimane, oltre che da mesi, anni – la provincia di Idlib, l’ultima roccaforte dei gruppi ribelli dove vivono tre milioni di persone.

Jamila ha passato un’altra notte insonne. Fuma una sigaretta dietro l’altra e sorseggia un caffè al sole sul tetto dell’ospedale. Nell’altra mano, il telefono e il walkie-talkie in attesa delle chiamate di emergenza. Il rumore delle esplosioni e il fumo nero fanno da sfondo alla sua colazione in piedi.

«Siamo stati vicino al fronte a soccorrere feriti fino alle tre di notte e poi ci siamo dovuti nascondere perché siamo uno dei target dei bombardamenti». Jamila Hemê è la coordinatrice medica dell’ospedale Lêgerîn della Mezzaluna Rossa Curda di Tell Tamer, una cittadina che prima dell’attacco contava circa 50.000 abitanti, per la maggior parte assiri cristiani già scappati tra il 2013 e il 2015 con le incursioni di Jabhat al-Nusra e dell’Isis. Ha uno sguardo profondo e combattivo incorniciato da capelli neri come la pece.

L’ospedale in cui ormai dorme da un mese, costruito grazie al contributo della campagna di crowdfunding “Un ospedale per il Rojava” della onlus Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia e al sostegno di Un ponte Per, organizzazione italiana presente nel nord-est della Siria da quattro anni, è intitolato alla dottoressa argentina che è morta in un incidente stradale lavorando per la ricostruzione di un sistema di salute pubblico nell’area.

Non ha finito il primo dei tanti caffè né il racconto della giornata precedente, quando arriva all’improvviso la chiamata: si lancia dal tetto alle scale e dalle scale alla vettura dell’ambulanza. Il team è pronto a partire. Si corre al fronte. Altre ambulanze e punti medici sono ancora più vicini dell’ospedale ed è tramite loro che si ricevono i feriti e i morti. L’ambulanza corre all’impazzata tra le strade di Tell Tamer e poi verso il villaggio non distante dai combattimenti dove i civili sono rimasti feriti e uccisi, tra i pochi rimasti dopo che l’invasione turca ha costretto molti degli abitanti locali a fuggire.

Un corpo immobile, il volto coperto di terra e il sangue della ferita sull’addome mischiato alla stessa terra e appiccicato ai vestiti, lasciano appena intravedere un giovane ventenne la cui unica colpa è quella di non essere sfollato. Jamila è presto accanto a lui sull’ambulanza insieme a Namiran, infermiera di soli diciannove anni che anche lei da un mese non ha lasciato Tell Tamer nemmeno un giorno. Jamila ne ha invece quarantadue e sono sette anni che gira per diversi fronti della guerra siriana, soprattutto negli ultimi anni a Raqqa e Deir Zor, nella battaglia contro l’Isis. Altra corsa, altra sirena verso Tell Tamer. Una volta giunti in ospedale, il giovane ferito viene trasportato velocemente dal lettino dell’ambulanza al lettino della sala di soccorso: neanche dopo un primo intervento durante il viaggio in ambulanza sembra aver ripreso conoscenza. Deve essere trasferito in ospedale nella città di Hasake, a 40 chilometri dal fronte, per essere curato.

Mentre l’ambulanza che lo trasporterà si avvia, tra un boato e l’altro, in una stanzetta dietro l’ospedale quattro donne della “Fondazione Famiglie dei Martiri”, sono già pronte a pulire i cadaveri sempre più rigidi dei civili per avvolgerli in stoffe bianche: il torace avvolto insieme alle braccia, poi le mani, infine una coperta grigia che copre tutto e facilita il trasporto.

Il primo dei due corpi viene depositato nel camion-cella frigorifero che andrà pure all’ospedale di Hasake. Del secondo corpo c’è poco da avvolgere: rimangono solo le due gambe rigide, il resto è stato maciullato dall’esplosione. Una delle donne della Fondazione si allontana un attimo dal lavoro per piangere in silenzio, mordendosi la mano e scuotendo la testa. Poi riprende ad aiutare la sua collega. Fanno questo lavoro ogni giorno da un mese intero. Alcuni, come Jamila, da anni e anni. «Pensavamo di riposare un pochino dopo la sconfitta di Daesh», dice Jamila usando l’acronimo arabo che indica l’Isis. «Non è mai finita».

All’ospedale arrivano anche feriti dell’esercito siriano di Assad: la bandiera del regime campeggia nelle loro jeep e ambulanza. Un paradosso averli così vicini, sapendo che molte delle persone che lavorano in ospedale (e non solo) sono stati nelle prigioni di Damasco per il loro attivismo politico o ancora oggi sono ricercati dal regime per aver disertato il servizio militare, per aver partecipato alla rivoluzione siriana fin dai suoi esordi o per essere ora affiliati alle istituzioni della Federazione Democratica del Nord-Est della Siria.

La più grande organizzazione umanitaria curda, non affiliata con la Croce Rossa Internazionale, tratta tutti i feriti, civili e militari, ma uno delle più grandi sfide dell’ultimo mese è stata quella di soccorrere sé stessi. «È assurdo che un’ambulanza parta per soccorrere i feriti e debba soccorrere i suoi stessi membri. Eravamo fermi a dieci chilometri dal fronte aspettando di andare a prendere i feriti quando il colpo del missile arrivato al nostro fianco mi ha fatto volare fuori dalla macchina», racconta Dildar Abdelkarim, un volontario, riferendosi all’attacco del 12 ottobre. «Ho guidato verso l’ospedale per quindici chilometri con i nostri colleghi feriti ed io stesso perdevo i sensi e sbandavo, mentre ci allontanavamo dal fronte. Non c’è pietà nemmeno per noi che soccorriamo».

Il 9 novembre il vetro rotto sulla mandibola di un autista di ambulanza e il sangue sui sedili è stato il segno dell’ultimo di una serie di attacchi ad ambulanze di diverse organizzazioni mediche da quelle delle istituzioni della Federazione democratica alla Mezzaluna rossa curda ai Free Burma Rangers, un gruppo umanitario indipendente. Nonostante la Turchia continui a negare attacchi mirati a personale e strutture medico-sanitarie, almeno cinque persone sono rimaste uccise e sette ferite, tre sono stati rapiti e giustiziati, in poche settimane. In un’ennesima fase della guerra in Siria che ha visto già in un mese oltre mille morti, seimila feriti, circa trecentomila sfollati.

«Non capite cosa si prova ad essere vicini ad un ferito che sanguina e non poter andare perché i droni e i missili cadono proprio tra te e quella persona, per impedirci il passaggio», racconta Jamila, trattenendo le lacrime, coi nervi a pezzi dalle poche ore di sonno che solo un’altra sigaretta può per un attimo distendere. «L’attacco a personale medico e strutture sanitario è un crimine di guerra perché nessun paese sta dicendo nulla alla Turchia?».

Originaria di Qamishlo, Jamila è stata eletta due anni fa, insieme a Sherwan Beri, alla direzione di Heyva Sor Kurd (la Mezzaluna rossa curda), fondata nel 2012 da un piccolo gruppo di volontarie e volontari che con pochi mezzi si sono organizzati per rispondere all’esigenza di cure mediche ed ambulanze in una situazione in cui i civili sono rimasti soli in mezzo al conflitto nell’assenza di servizi sanitari nazionali. La co-presidenza e direzione di un’organizzazione o un’istituzione di un uomo e una donna è parte del sistema dell’amministrazione autonoma della Siria del nord e del progetto di confederalismo democratico che mette al centro del progetto politico rivoluzionario la presenza della donna negli organi decisionali, politici, sociali, militari, culturali. «All’inizio della rivoluzione siriana avevamo speranza che ci sarebbero state più giustizia e libertà. Pian piano è diventato un incubo: abbiamo visto compagni di università unirsi a gruppi jihadisti e una guerra senza fine», racconta Sherwan che ha studiato per diventare dentista e si è ritrovato negli ultimi sette anni ai fronti di guerra di mezza Siria, con Jamila.

«Con il progetto del confederalismo democratico chiediamo più diritti per tutti, ma siamo soli, schiacciati tra il regime siriano e quello turco, nonché i gruppi jihadisti e il Kurdistan iracheno che è la destra politica del Kurdistan. Ma dobbiamo andare avanti». Da un mese, gli attacchi delle cellule dell’Isis sono aumentati del 48% secondo le statistiche registrate dal Rojava Information Center. In un solo giorno, l’11 novembre, l’Isis ha rivendicato l’uccisione di un prete armeno e di suo padre nella strada che da Hasake porta a Der Zor dove si stavano recando per monitorare i lavori di ristrutturazione di una delle chiese della città, mentre a Qamishlo tre autobombe sono esplose vicino al mercato, provocando 5 morti e 35 feriti. Si sono fermati i frequenti raid e arresti dei membri dell’Isis che le Sdf operavano e l’Isis spera solo di seguire le parole del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi prima di morire: liberate i prigionieri. Nel frattempo la Mezzaluna sta facendo pressione per aprire un’indagine su probabile attacco con armi chimiche proibite che ha lasciato diversi feriti, come i medici ad Hasake hanno potuto constatare dalle bruciature sulla pelle dei soccorsi.

Nel primo pomeriggio, Jamila corre di nuovo con l’ambulanza per soccorrere nuovi feriti. A causa dei bombardamenti continui, dovranno aspettare un’ora prima di poterli portare in ospedale. Questa volta non sono civili ma combattenti delle Ypg, le Unità di protezione del popolo, la componente curda delle Sdf. Nel frattempo tre sono morti e dei due feriti restanti, uno grida arrabbiato e non vuole farsi trattare dai medici: non è il dolore della ferita a farlo urlare, ma la perdita dei suoi hevalen, compagni in curdo, durante la battaglia. I cadaveri non sono stati ancora recuperati e lui vuole solo tornare indietro a prenderli. Le stesse urla, di pianto e di dolore, che accompagnano le marce e i funerali dei martiri che a cadenza quotidiana si svolgono in tutte le città della Siria per la perdita dei cari. Un appuntamento così frequente negli ultimi anni ma a cui nessuno si abitua mai. Nemmeno chi è in prima linea. «Abbiamo visto troppo, abbiamo bisogno anche noi di sostegno psicologico», chiede Sherwan. «Ma la nostra vita è interamente dedicata a questo, non ci fermeremo», conclude Jamila, prima che arrivi un’altra chiamata urgente dal fronte.

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