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L’8 marzo di Yanar, Rojda e Selay, tre rivoluzionarie

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www.vanityfair.it di Simona Sirianni – 8 marzo 2019

Yanar MohammedYanar Mohammed

Tre Paesi diversi, tre storie diverse, tre modi di lottare diversi, ma con un punto in comune: sono donne forti e coraggiose che non accettano di vivere in una società ingiusta.

 

Attiviste, combattenti, sempre in prima fila nella battaglia per i diritti. Ma soprattutto donne che rischiano ogni giorno la loro vita per difendere altre donne. Yanar Mohammed, Rojda Felat e Selay Ghaffar, sono le protagoniste del docufilm I am the Revolution diretto dalla reporter italiana Benedetta Argentieri. Tre mondi, l’Iraq, la Siria e l’Afganistan, dove queste donne combattono una stessa guerra, ma in modi diversi. Dove non fanno la rivoluzione, ma sono la rivoluzione.

«Nel 2014 ho cominciato a viaggiare – ci racconta Argentieri – seguendo la guerra in Iraq e in Siria per diversi media internazionali.

Ciò che mi premeva era scoprire se oltre a quelle immagini stereotipate che raccontano questi Paesi solo come luoghi dell’orrore, ci fosse un’altra verità. E ho scoperto che c’era, che tra morte e violenza, esisteva del bello. E quel bello era che alcune, molte donne vogliono essere protagoniste della loro vita, della loro emancipazione e lottano per un mondo più giusto. Ed è esattamente dal desiderio di raccontare questo altro mondo che ho immaginato I am the revolution».

Rojda felatRojda Felat

E in questo scenario di guerra che sembra non abbia speranza di cambiare, invece si scoprono vite incredibili, che non si arrendono mai, vite il cui obiettivo è più forte della paura: «L’idea che tutti hanno di una donna irachena, siriana o afghana, è quella di una donna vittima. Ma questa visione è totalmente sbagliata. Yanar, Rodja e Selay sono l’espressione più vera delle donne di questi Paesi. Donne forti, coraggiose che mi hanno insegnato moltissimo».

Yanar Mohammed, fondatrice dell’organizzazione OWFI a Baghdad, aiuta le donne a scappare dalla violenza domestica ma soprattutto dal delitto d’onore, quella pratica orribile secondo cui se una donna viene colta in atteggiamenti equivoci oppure viene violentata, deve morire: «Dal 2003 ad oggi Yanar è riuscita a salvare almeno 500 donne offrendo loro una seconda vita con una nuova identità, con corsi di alfabetizzazione e di femminismo attraverso il quale capire che hanno dei diritti, che non sono e non devono sentirsi schiave, ma possono ambire ad una vita diversa. Ianar vuole che le donne si trasformino da vittime a difensori e paladine dei diritti. Immaginate che ancora i suoi rifugi non hanno uno status legale ma nonostante tutto lei si muove senza paura».

argentieriBenedetta Argentieri, regista e reporter in zone di guerra

La seconda storia parte da Raqqa in Siria, per 4 anni capitale dell’Isis: «Il 17 novembre del 2017 una coalizione fatta da unità curde, milizie arabe, con l’aiuto degli Stati Uniti si è ripresa la città. A marciare 60mila tra uomini e donne e a capo c’era lei Rojda Felat una donna minuta con un unico vezzo i capelli lunghissimi a cui tiene moltissimo e con un bellissimo sorriso che non usa così spesso.

Rojda è una grandissima stratega militare. L’Isis ha messo su di lei una taglia di un milione di dollari. Ha 37 anni è nata e cresciuta nella zona curda della Siria.

Nel 2012 decide di unirsi all’unità di protezione delle donne. Erano in 4 e oggi sono 24000. Quando le unità di Rojda entrano in un territorio, non lo liberano soltanto, vogliono cambiare la società e dare una nuova speranza.

Oggi, nella zona controllata dai curdi, le donne sono in politica, nei tribunali, in diplomazia, nella polizia e nei militare. La poligamia è stata bandita, non ci sono più matrimoni tra minori. Sanno che la strada è ancora lunga, ma sicuramente Rojda e tutte le altre donne non si fermeranno».

 

selay gheffarSelay Ghaffar

E arriviamo a Kabul. Oggi l’Afghanistan è uno dei posti peggiori dove nascere donna. Dal 2001, quando gli americani entrarono in Afghanistan dichiarando che avrebbero liberato le donne, l’87% delle donne subisce violenza, l’86% non sa leggere e scrivere e solo il 14% è andata a scuola: «È qui che Selay Ghaffar si muove, la prima portavoce donna a entrare nel partito della solidarietà afgana, in un paese governato dai signori della guerra e della droga, con una popolazione affamata che vive nel terrore per i continui attentati, dove le donne vivono una condizione di analfabetismo e violenze senza tregua.

E in Afghanistan mette la sua faccia in tutte le battaglie che riguardano le donne. Non si ferma mai, organizza corsi di alfabetizzazione, di lavoro. Ma tutto questo ha un prezzo. Non ha una casa, vive sotto scorta, hanno cercato di ucciderla, di rapirla, di zittirla in ogni maniera. Ma a lei questo non importa, perché sa che la lotta senza sacrifici non è possibile. Ed è sicura che prima o poi riuscirà a cambiare il suo paese».

Tre Paesi diversi, tre storie diverse, tre modi di lottare diversi, ma con denominatori comuni: primo fra tutti che il cambiamento passa dall’istruzione, elemento fondamentale per costruire insieme una comunità che sia in grado di sostenere e proteggere le altre donne: «Ianar, Rojda e Selay sono un esempio di quello che si può fare, ma da sole non potrebbero fare nulla. E infatti, la cosa a cui tengono infinitamente tutte e tre è che questo percorso sia condiviso, venga fatto insieme agli uomini.

Solo camminando insieme sarà possibile il cambiamento. Altrimenti tutti gli sforzi saranno vani. Quando guardo l’Italia, mi rendo conto di quanto diamo per scontati i nostri diritti. E di quanto invece, in questo momento più che mai vengano rimessi in discussione. E mi rendo conto che pur vivendo in quello che si dice essere il “primo mondo” non possiamo assolutamente permetterci di non continuare a lottare».

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