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Afghanistan, il corpo delle donne.

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Nel reportage viene illustrata l’esperienza del centro di maternità di Emergency nella regione del Panjshir che dal 1999 rappresenta una speranza di vita e di riscatto per tante donne afghane. [N.d.R.]

anabah 0206 smallIl Manifesto – 21 dicembre 2019, di Laura Salvinelli

«Una donna Kuchi che aveva già messo al mondo tanti figli aveva un bambino molto grosso in presentazione podalica, quindi il parto non sarebbe stato semplice. Fu lei – com’è giusto che sia ma accade raramente – a dirmi in pieno travaglio: “Tu non hai capito, questo bambino non scende giù, io lo so, lo sento”. Si mise in piedi sul lettino, torreggiando con la sua montagna di carne, e partorì con un atto volitivo quasi di prepotenza.

 

Dovemmo evitare che il neonato cadesse a terra tanta era la velocità con cui venne alla luce». Siamo nel Centro di maternità di Emergency ad Anabah nella valle del Panjshir, e a parlarmi è la ginecologa Keren Picucci, 46 anni, che lavora nell’ospedale da 6 anni (sul suo racconto varrà la pena di tornare più avanti).

Il 15 ottobre Emergency ha pubblicato Una rivoluzione silenziosa. Il centro di maternità di Emergency ad Anabah e l’empowerment femminile, un rapporto basato su una esperienza ventennale sul campo, sulla letteratura esistente e su 370 interviste – a 300 pazienti e 70 operatrici sanitarie locali – uno studio importante sull’attuale condizione della donna in Afghanistan, dove mancano dati nazionali completi e dove le aree più colpite dalla guerra rimangono difficili da raggiungere e osservare. I dati più drammatici rivelano che almeno il 50% delle donne continua a partorire in casa (questa la media nazionale, ma nelle zone rurali i parti in casa sono il doppio di quelli in ospedale), con la sola assistenza di parenti più anziane, spesso senza aver fatto visite di controllo preventive, e che la mortalità materna è ancora altissima: 1 donna su 14 muore per complicazioni legate alla gravidanza, e in età riproduttiva (16-49 anni) le donne muoiono il 50% più degli uomini. I dati più incoraggianti riguardano lo staff nazionale, che ha in media poco più di 25 anni, ed è nubile per due terzi. Anche se le intervistate dichiarano di essere state fortemente ostacolate dall’opposizione delle famiglie, dalla sicurezza, dalle distanze, alla fine l’ospedale di Anabah rappresenta un porto sicuro e una buona scuola per ostetriche e infermiere appena laureate. La loro maggioranza afferma di essere la prima donna della famiglia ad aver mai lavorato fuori casa (58%), la persona che guadagna più in famiglia (53%), capace di opporsi alle decisioni familiari (61,5%). La pratica nell’ospedale è equiparata dal Ministero della Salute all’università e abilita all’esame di Stato.

Il Centro ha formato centinaia di ostetriche e infermiere e alcune specializzande in ostetricia e ginecologia – al momento ne impiega 126, le altre sono molto ricercate dagli altri ospedali – che sono le protagoniste della ‘rivoluzione silenziosa’, a cui si riferisce il titolo del rapporto, all’interno di una società radicalmente patriarcale.

Una lunga esperienza sul campo
Emergency è presente nel Panjshir dal 1999, quando, all’epoca della guerra tra l’Alleanza del Nord comandata da Massoud e i talebani, comprò una caserma e la trasformò nel suo primo Centro chirurgico per le vittime civili di guerra. Nei primi anni 2000 le condizioni di salute erano estremamente drammatiche: l’aspettativa di vita alla nascita era di circa 40 anni per entrambi i sessi, la mortalità materna era tra le più alte al mondo, con 1.600 morti materne ogni 100.000 nati vivi, 4 bambini su 10 non superavano i 5 anni di età. Nel 2003 la Ong aprì un Centro di maternità per fornire cure ginecologiche, ostetriche e neonatali. Sembrava un’idea folle ma funzionò. Nel 2016 inaugurò il nuovo Centro con 104 posti letto, 4 sale parto, 2 sale operatorie, 1 terapia intensiva per le donne in condizioni critiche, 1 sala travaglio, ginecologia e osservazione, reparto di neonatologia con sale di terapia intensiva e semi-intensiva, di isolamento e per la kangaroo mother care (dove i nati prematuri in condizioni stabili vengono trattati col contatto della pelle della mamma), pronto soccorso ostetrico e ambulatori con servizio ecografico. Anche grazie all’apertura di 18 posti di primo soccorso e centri sanitari aperti giorno e notte nelle località più remote e collegati all’ospedale con autoambulanze, il Centro è diventato punto di riferimento di 4 province e di Kabul, oltre ad accogliere le nomadi Kuchi nei loro passaggi stagionali delle transumanze. Al 30 giugno 2019 ad Anabah sono state effettuate 351.520 visite e sono nati 56.329 bambini. Solo nello scorso anno sono stati assistiti 7.560 parti. E tutto ciò è completamente gestito da donne.

Michela
Questi i dati e la storia. E poiché per le donne afghane la maternità è il centro attorno a cui ruota tutta la vita, chiedo a 4 donne di Emergency che lavorano per la maternità e dunque le conoscono da molto vicino, di raccontarmele.
Michela Paschetto ha 37 anni e lavora con Emergency da 10, di cui 7 in Afghanistan. Infermiera, è stata coordinatrice medica e ora coordina la divisione medica della Ong. Si dice «stupefatta dalla differenza tra l’immagine della donna afghana sottomessa col burqa, che è l’unica ad arrivare nel mondo occidentale, e quella delle centinaia di donne che vengono formate o lavorano nei Centri a Kabul, Lashkar-gah e nel Panjshir. Le ragazze con cui ho lavorato sono tutte molto appassionate, determinate, con una gran voglia di studiare, capaci di enormi sacrifici per acquisire una professionalità e lavorare nel miglior modo possibile. Tante partono la mattina alle 4 da Kabul per venire a fare il turno fino alle 3 del pomeriggio, tornano a casa alle 7 di sera dove hanno 3-4 figli da crescere, il marito e la suocera. Molte di noi non ce la farebbero. Chiaramente la vita rurale, quella della campagna e dell’allevamento, è ben diversa, e assomiglia più alla vita che facevano i nostri bisnonni».

Raffaella
Raffaella Baiocchi, 46 anni, ginecologa specialista da 13 anni, lavora da 12 anni in maniera discontinua in Afghanistan. «In occidente si parla sempre del velo, ma queste donne lo vogliono, perché col capo coperto si sentono bene, protette, eleganti. Si parla sempre delle donne oppresse da una tradizione oscurantista, ma qui ho scoperto che le donne possono essere vittime anche delle donne, donne che hanno subito troppo e che appena possono si rifanno su altre più giovani. Il marito, alla fine, è dipendente dell’opinione di sua madre. Ho conosciuto donne fiere della loro cultura, e anche alcune che sono emigrate in Europa e non sono contente, pure quelle che qui sembravano le più occidentalizzate. Intendo dire che quello che si sa di questo Paese è vero: qui nel Panjshir rurale le tradizioni sono fortissime, secolari, tribali, anche a prescindere dall’Islam in senso stretto. Ma quello che non si sa è della bellezza e della fierezza di un popolo che si riconosce nella sua cultura. In Afghanistan partorire è un evento necessario nella vita di una donna, un momento di forza in cui afferma di poter fare senza paura quello per cui crede di essere nata. L’assenza di paura aiuta ad affrontare il dolore fisico. Da noi invece fare un figlio e partorire sono vissuti come eventi eccezionali: le gravidanze sono molto cercate e i nove mesi scorrono da un lato con la romantica attesa del frutto dell’amore, dall’altra con una paura tremenda che qualcosa vada storto, complice anche l’eccessiva medicalizzazione della gravidanza. Qui tutto ciò non esiste. Le mamme afghane non si lamentano, e i loro bambini non piangono. Piangono poco solo quando nascono, per chiedere il latte e quando stanno male, per il resto sono sempre quieti».

Eleonora
Eleonora Bruni, ostetrica, ha 36 anni e lavora in Afghanistan da 10. «Vediamo un raggio molto ampio della popolazione femminile. Da una parte ci sono le ragazze dello staff, di cui ha parlato Michela, dall’altro quelle che non mi piace chiamare pazienti ma le donne che partoriscono: quelle che hanno storie pesanti, quelle più benestanti che vengono per la qualità dell’assistenza, quelle appartenenti a comunità di montagna isolate, le nomadi Kuchi quando passano con le carovane per le transumanze. Le abbiamo viste cambiare nel tempo: ora sono più empatiche, sia lo staff con le partorienti che queste con i loro neonati. Tutte hanno una fibra straordinaria. Dal punto di vista clinico ci sono molte meno lacerazioni del perineo e il recupero, anche dopo i parti cesarei più complicati, è sorprendentemente veloce. Visto che la gravidanza mette in gioco la sopravvivenza, credo che si sviluppi una parte di forza in più. Noi non possiamo somministrare l’epidurale e quindi usiamo il parto, che senza anestesia è più attivo, come una risorsa. Una donna che partorisce si sente come una bomba: sviluppa gli ormoni dell’ossitocina e delle endorfine che danno un senso d’invincibilità. È un processo che fa ricordare l’esperienza come un sogno da cui è rimosso il dolore e aiuta a riprodursi ancora. Qui si fanno più figli possibili: visto che la famiglia è la struttura sociale essenziale, l’unico nucleo di welfare, avere molti figli è la sola garanzia per proteggere gli anziani e le persone fragili. Ci sono anche da considerare la mortalità infantile elevata, la guerra, le condizioni precarie che ne riducono il numero. Non sorprende che avere molti figli sia visto come un riconoscimento sociale».

Keren
Infine torniamo al racconto di Keren. «Le Kuchi sono come mammiferi in natura, assolutamente libere, sono completamente il loro corpo, senza nessuna influenza inibitoria del cervello. Le donne stanziali sono al contrario talmente influenzate dalla loro cultura che è come un imprinting, che si muovono tutte nello stessa maniera. Si mostrano nel modo più raccolto e composto possibile. Non devono mai essere sfacciate, seducenti, esposte: questo le priverebbe di valore. Ma non bisogna prendere il comportamento pubblico distaccato per mancanza di affetto. Per loro l’affetto è legato al pudore: anche con i mariti non si scambierebbero mai effusioni in mezzo alla gente. L’opinione pubblica per loro è così importante che con gli altri si comportano in modo formale. Gli uomini in realtà sono molto legati alle loro mogli. Quando queste stanno male, piangono e si disperano, a volte non sono capaci di una reazione adulta di fronte alla sofferenza e alla perdita. Dire che qui la donna vive una condizione di sottomissione e passività è riduttivo, perché non è così semplice. Per esempio ho avuto una paziente che soffre di una gravissima cifoscoliosi, con una gobba inguardabile, sembra un ragno con un volto bellissimo. Questa donna, che in Italia sarebbe stata sola tutta la vita, ha una famiglia felice con un marito e 3 figli che le vogliono bene. Comunque, tutte le donne afghane sono estremamente forti, hanno quasi un senso di invulnerabilità fisica. Quasi tutte le mie pazienti vivono in campagna e svolgono lavori pesanti, camminano tanto su strade impervie. Non usano le sedie, e passano ore accucciate per allattare, o fare i lavori domestici, e questa posizione rende il loro bacino molto mobile, quindi partoriscono quasi ogni tipo di bambino. Se il loro corpo contiene il loro spirito, anche questo deve essere molto forte. Non sono ribelli, ma in quanto a resistenza sono imbattibili perché abituate a sopportare grandi fatiche e astinenze (per esempio i lunghi digiuni anche in gravidanza) e hanno risorse e capacità di guarire infinite. Socialmente, al contrario, sono altrettanto fragili, completamente indifese: non hanno niente. Hanno una percezione della precarietà della vita che può finire da un momento all’altro, che noi ci siamo scordati. Nel parto, che è il passaggio di una membrana che può produrre la vita o la morte di due persone, rischiano moltissimo, e non c’è un’altra struttura sanitaria decente che le prenda in carico. Quindi io, che voglio bene alle mie pazienti, devo proteggerle. Questo mio atteggiamento potrebbe essere criticato come paternalistico in Europa, dove il rapporto medico-paziente è stato smantellato a favore del rapporto medico-cliente». E conclude: «Sono fortunata. Innanzitutto dovrei pagare io Emergency perché manco se avessi lavorato per 50 anni in Italia avrei visto quello che vedo qui, dove come medici veniamo messi molto alla prova. Siamo ripagati dal miracolo della guarigione, che ha un effetto di riverbero sotto forma di enorme speranza e positività per chi lavora per la salute ed aiuta a far continuare. Per di più nell’ostetricia c’è un elemento gioioso: alla fine della giornata ho visto nascere tanti bambini sani, perché, grazie al cielo, la maggior parte sta bene, e allora di cosa dovrei lamentarmi?»

Il racconto visivo della realtà di Anabah è stato compito ben più difficile. «Un giorno», dice Raffaela, «è arrivato un uomo furibondo, accusandoci di aver fotografato sua moglie. Ma in realtà quella che aveva preso per una fotografia, era un’ecografia». Spesso i fotografi lavorano in un mondo in cui la fotografia delle donne è un tabù, e si devono caricare del ruolo dell’elefante in un negozio di cristalli, ponendosi di continuo la domanda classica del mestiere: se sia giusto entrare nell’intimità degli altri. Non c’è una soluzione che vada sempre bene. Forse la risposta, sempre diversa, dipende da perché e da come si fa quell’intrusione. Ed è bene che quella domanda difficile continui sempre a lavorare dentro di noi.

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