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L’esperimento più radicale al mondo sui diritti delle donne

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DefenseOne – febbraio 2018

defense large 150x150Il movimento delle donne nel nord della Siria sembra più un terremoto femminile, nella politica, nell’amministrazione e nella sicurezza della regione.

QAMISHLI, Siria – È in atto ora l’esperimento più radicale nei diritti delle donne nel posto che potrebbe essere il meno probabile del mondo: il nord della Siria.

Nel mio secondo reportage nella regione in sei mesi, questo era più che evidente: il movimento delle donne nel nord della Siria sembra più un terremoto femminile. In questo pezzetto di Medio Oriente è in atto un cambiamento tettonico della politica e dell’amministrazione in fatto di uguaglianza delle donne che ora è al centro di tutto quello che avverrà nella regione.

Sulle ceneri lasciate della campagna dell’ISIS e in mezzo alla violenta guerra civile siriana, questo è un esperimento su ciò che accade quando le donne hanno voce in capitolo nell’amministrazione locale secolare che si sta creando alla luce del sole e in tempo reale. È stato chiamato socialista, utopico, marxista, femminista e altro ancora ma, indipendentemente dall’aggettivo che si sceglie, questo è quello che si vede: carri armati turchi che avanzano, pressioni del regime, minacce di Al-Qaeda e la lotta continua contro lo Stato islamico, o ISIS, in Deir El-Zor e i curdi-siriani che nondimeno hanno insistito ulteriormente su quello che chiamano “progetto democratico”. E come è successo alle donne in tante altri parti del mondo, l’apertura sociale creata dall’inferno, dall’orrore e dallo sconvolgimento della guerra è ciò che l’ha reso possibile.

Le donne curde-siriane che hanno passato gli ultimi quattro anni a combattere l’ISIS hanno conquistato le prime pagine. Loro sono il simbolo più evidente di questa operazione di diffondere il principio di uguaglianza. L’Unità di Protezione Popolare composta interamente da donne, o YPJ (in curdo Yekîneyên Parastina Jin), ha giocato un ruolo centrale nello sradicamento dei militanti dell’ISIS dalle loro fortezze siriane.

 

Passate del tempo con queste donne che hanno comandato uomini e donne, curdi e arabi, nella guerra all’ISIS, e loro vi parleranno della necessità di difendere sé stesse e la loro popolazione e anche della necessità di liberare le donne in tutta la regione. Discutono dei militanti dell’ISIS e delle loro tattiche con una dimestichezza che è impressionante. Per queste donne, l’ISIS è tutto fuorché un’astrazione. Per giorni, durante i conflitti, hanno ascoltato i combattenti dell’ISIS parlare via radio della volontà di decapitarle e ucciderle, sporadicamente esortando le militanti ad arrendersi prima di dire ai loro compagni delle truppe dello Stato Islamico di sfuggire alle “intelligenti” donne-cecchino. Le militanti più giovani dello YPJ hanno perso talmente tanti amici da riempire i cimiteri della regione. Ma dato che loro hanno combattuto le forze militari dell’ISIS piano dopo piano nelle case e nelle strade di Kobani o Raqqa, sono venute a sapere dei tragitti dei loro nemici, a volte guardandoli anche negli occhi prima di ucciderli.

“Solitamente, nella società mediorientale, non tutti credono che le donne abbiano potere, che lo abbiano dentro di loro. Si chiedono: “È coraggiosa in battaglia? Può proteggere sé stessa o dipende dagli uomini?’”, dice Rojda Felat, una comandante dello YPJ. “Quella è stata l’idea dietro la creazione di queste unità”.

Quando gli Stati Uniti appoggiarono le Forze Democratiche Siriane, o SDF, per riconquistare la zona est e ovest della città di Raqqa, le comandanti curdo-siriane divennero una vera e propria guida – e Felat faceva parte del gruppo che guidò la campagna. Parlate con le forze delle operazioni speciali americane impegnate nelle battaglie siriane e vi sarà evidente che vedevano Felat e le altre leader dello YPJ come comandanti alleate, proprio come chiunque altro. All’inizio, il fatto che stessero pianificando scontri e strategie insieme a uomini e donne era notevole, raccontano, ma, alla fine, è risultato irrilevante.

Appese ai cartelli stradali di tutta la regione vedrete le immagini delle donne rimaste uccise durante la guerra all’ISIS. Al centro di Kobanê, città assediata dallo Stato Islamico nel 2015, troverete la statua di una ragazza che si è fatta esplodere combattendo l’ISIS. Visitando i cimiteri dei caduti, scoprirete foto di giovani donne fissate con il nastro adesivo alle file ordinate delle tombe bianche.

Ma le combattenti in prima linea sono solo una parte della storia.

Guidando lungo le strade del nord della Siria, incontrerete donne intente a dirigere il traffico o di guardia nei posti di blocco. Chiedendo un permesso alle forze di sicurezza locali, vi ritroverete spesso in un ufficio diretto da una donna. Nelle aree locali, le donne lavorano come ministri della difesa; in alcuni casi, i loro vice sono uomini molto più vecchi di loro.

Ovviamente, i militari che la guerra ha reso inflessibili sono tanto propensi a parlare dell’esigenza di tornare a una “società femminilizzata” e del pericolo dell’oggettivazione delle donne quanto lo sarebbero di spiegarvi le tattiche che hanno utilizzato durante i loro combattimenti contro l’ISIS.

“La rivoluzione del Rojava è una rivoluzione al femminile” afferma in un’intervista Nori Mahmoud, veterano della lotta all’ISIS e portavoce dell’Unità di Difesa del Popolo (in curdo Units Yekîneyên Parastina Gel, YPG), “lo consideriamo normale e giusto perché è un loro diritto. L’obiettivo della rivoluzione è raggiunto quando saranno riconosciuti alle donne i loro diritti”. Sembra che nessuno lo trovi strano, tranne i pochi visitatori esterni.

I cambiamenti non riguardano, però, solo le forze di sicurezza. Sulla scia delle battaglie in tutto il nord della Siria, si è diffuso un esperimento politico di autogoverno in cui le donne ottengono diritti e uguaglianza – per lo meno sulla carta – che va ben al di là di quello a cui il mondo era abituato.

Leggendo gli atti costitutivi che regolano la regione autonoma – una regione che ufficialmente non ha sufficiente potere per autogovernarsi ed è considerata, dunque, parte dello stato siriano – noterete che le donne svolgono un ruolo centrale.

Nella Carta del contratto sociale per l’autogestione del Rojava, si legge: “Le donne hanno il diritto inviolabile di partecipare alla vita politica, sociale, economica e culturale. Uomini e donne sono uguali di fronte alla legge. La Carta garantisce l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza delle donne e incarica le istituzioni pubbliche di lavorare per eliminare la discriminazione di genere”.

 Il linguaggio è intenzionale.

“Abbiamo imparato dalle rivoluzioni avvenute nelle altre parti del mondo” afferma Ilham Ahmed, co-presidente del Consiglio Democratico Siriano e attivista politica di lunga data nella regione. “Le donne hanno preso parte alla rivoluzione ma dopo sono dovute ritornare in cucina. Per questa ragione abbiamo messo la libertà delle donne al centro del nostro documento”.

Nelle città di tutta la regione, i consigli politici hanno guide maschili e femminili. Sono comprese città prevalentemente arabe, come Tabqa, città natale di Ahmed. Accennatelo a chi studia la regione e tale mossa sarà spesso liquidata come “rappresentativa” o “pro-forma”. Eppure, dando un’occhiata più da vicino, è chiaro che mentre il cambiamento non può avvenire in sei mesi o in un anno, il fatto che le donne siano incaricate della governance locale è notato anche dalle famiglie in cui sia l’educazione delle ragazze sia la mobilità delle donne sono limitate.

Anche le leggi stanno cambiando. Oggi la legislazione vieta la poligamia e il matrimonio infantile. La dote è stata proibita. I genitori sorpresi nel tentativo di far sposare i propri figli rischiano la prigione. Di sicuro le leggi non cambiano le tradizioni, ma riescono a indebolirle.

“Una cultura di cinquemila anni non può cambiare in sette”, sostiene Ahmed. Ricorda che lei e i suoi colleghi “hanno avuto diversi incontri con sceicchi e preti in merito a queste leggi.”

I leader sostengono che questo dialogo è necessario ed è ancora in corso nella ricerca graduale per realizzare la visione di un completo accesso alle opportunità per le donne arabe e curde.

“Ci concentriamo sull’educazione” afferma Ahmed. “Cambiamo queste società piano piano…stiamo educando i bambini a credere nell’eguaglianza tra uomini e donne.”

Anche le strutture sociali stanno cambiando. Ho visitato una comunità di sole donne per vedove e altre ragazze e donne che non hanno un posto dove andare, in costruzione appena fuori la città di Amudah. Le donne che ho incontrato passavano la giornata scavando e preparando progetti per la panetteria che sarà realizzata sul posto, insieme a una scuola, un centro di formazione e un centro sanitario. (Dopo la nostra visita, ho chiesto al mio collega siriano cosa ne pensasse del posto. “Gli uomini sono finiti” ha detto sorridendo.)

Un’organizzazione chiamata Star Congress suddivide le donne in dieci comitati in ambiti che vanno dall’educazione ai media e agli affari sociali. Il gruppo sostiene che il proprio lavoro deriva “dalla convinzione” che solo una “forte associazione di donne possa formare il sistema di autodifesa necessario per fronteggiare le attuali istituzioni dominate dagli uomini. Crediamo che solo quando le donne saranno capaci di organizzarsi potranno sfidare le attuali strutture patriarcali e le mentalità per costruire delle alternative fattibili e sostenibili.”

Nell’Università Rojava da poco istituita, s’insegna gineologia, o “scienza delle donne”. I diritti delle donne sono una parte cruciale del corso. Un documento del comitato per gli affari esteri della regione spiega che il movimento ha radici vecchie di quarant’anni e dà credito al leader curdo Abdullah Ocalan che oggi ha aperto la strada ai diritti delle donne nella regione.

“Le donne curde del Rojava hanno sfruttato l’opportunità data dallo scoppio della primavera araba in Siria; hanno tratto vantaggio da questa teoria e hanno contribuito ad arricchirla attraverso ricerche, analisi e scavando a fondo nei temi relativi alle donne e alla loro storia. Hanno applicato le loro teorie per organizzarsi, fare politica, proteggersi e diventare libere. Hanno anche dato vita a speciali organizzazioni e si sono rafforzate grazie all’ideologia di emancipazione basata sulla gineologia che è diventata la prova schiacciante della loro esistenza”.

Ovviamente il nemico numero uno della Turchia è Ocalan. La Turchia considera il movimento separatista turco-curdo, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan, PKK), fondato da Ocalan, ora in carcere, un gruppo di terroristi. La Turchia non fa alcuna distinzione tra il PKK e i curdi-siriani che, con il supporto degli USA, hanno creato la potente forza militare SDF che ha sconfitto l’Isis. Infatti, due settimane fa l’esercito turco ha lanciato un’offensiva contro la città di Afrin, nella Siria settentrionale, e sta combattendo ancora oggi le forze armate dello YPG e dello YPJ.

In altre parole, il terremoto femminile sta lottando per farsi sentire in mezzo a un’altra potenziale esplosione geopolitica, cioè quella tra gli alleati della NATO: Turchia e Stati Uniti.

Nel nord della Siria, una minoranza isolata e oppressa politicamente sta cogliendo l’occasione per mettere in pratica le sue idee radicali di autogoverno e democrazia. Nel frattempo, il Medioriente, regione considerata non proprio un simbolo della parità, sta mostrando al resto del mondo cosa succede quando le donne sono al centro delle lotte, della Costituzione e della legge. Per gli scettici e cinici osservatori esterni, tutto questo può sembrare poco credibile. Troppo strano. Troppo per un cambiamento. Per la generazione di giovani donne e uomini, che crescono in mezzo all’esperimento di questa lotta, è del tutto normale.

“In nome della religione, della legge o della tradizione, le donne sono diventate haram (peccatrici), escluse e trattate come oggetti” mi dice Mahmoud dello YPG a intervista conclusa. “Le donne che hanno forza di volontà, possono diventare politici, leader, possono proteggersi. Possono far parte di ogni settore della società – non grazie al permesso degli uomini, ma grazie alla loro forza di volontà”.

O come Newroz, una comandante dell’YPJ, che ha condotto la campagna per riconquistare la città di Manbij, ha detto quando ci siamo seduti nella sede principale del SDF non lontano da Raqqa: “In questa regione si pensa che le donne siano deboli e questa è stata una delle nostre sfide, aiutare le donne a riconoscere la loro forza così da poter entrare a far parte di questa società. L’abbiamo raggiunto con il nostro sangue. Il nostro sacrificio. Non sono solo parole”.

Traduzione: Dalila Scaglione, Ester Peruzzi, Cristina Cangemi, Sara Somaini.

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