Skip to main content

L’ALBERGO AFGANO CHE SI RIFIUTA DI CHIUDERE LE PORTE

|

Di Andrew Quilty – Nytimes.com – 18 Settembre 2018

Traduzione a cura di Cristina Cangemi, Giulia Giunta, Alessia Palmiero, Ester Peruzzi, Dalila Scaglione e Sara Somaini.

00boshhotel slide 8X2C superJumbo 1024x683Le finestre a bovindo della sala da pranzo dell’hotel Bost davano sul fiume Helmand. Per l’immensità del fiume, la corrente, trasportata per centinaia di chilometri dall’Hindu Kush, sussurrava. L’aria ronzava di moschiti. Al di là del fiume, nella periferia di Lashkar Gah, capitale della provincia afghana di Helmand, dei rilevatori rossi formavano un arco nel cielo notturno.

Era la primavera del 2016 e i Talebani stavano quasi per invadere Lashkar Gah come quando erano stati cacciati nel 2001. Ero volato via da Kabul per la terza volta in tre mesi per cercare di mostrare, attraverso le fotografie, le ripercussioni della cattiva gestione della missione militare internazionale e le conseguenze del suo ritiro prematuro, mentre il cappio si stringeva lentamente intorno alla capitale di Helmand.

Ogni volta prendevo una stanza all’hotel Bost. Nonostante la facciata in rovina e i servizi improvvisati, con il fiume su un lato, una strada chiusa al traffico sull’altro e un giardino di crisantemi rosa e viola, l’albergo manteneva una tranquillità che sfidava la crisi che si svolgeva a soli pochi chilometri di distanza. Di notte, quella distanza era tale da far sembrare i combattimenti innocui, mentre i proiettili sfrecciavano tristemente nell’oscurità.

Sin dai primi giorni dell’invasione dell’Afghanistan guidata dagli americani, Helmand, nel sud Pashtun del paese, è stata il luogo e il simbolo del completo fallimento degli obiettivi internazionali militari e di sviluppo. Oggi, la produzione di droga e la corruzione dilagano; l’emancipazione delle donne, l’amministrazione e la sicurezza sono logore. Il supporto ai Talebani, i cui rigidi valori tribali e culturali sono, in certa misura, compatibili con le comunità del sud rurale, scorre nei villaggi di Helmand come l’acqua che nutre i raccolti, di cui il più grande e importante è l’oppio. Forse ciò che meglio descrive Helmand ai non-afghani di questa generazione di guerra è che lì sono morti combattendo più soldati stranieri che in qualsiasi altra provincia. Per tutto questo spargimento di sangue, forse fino al 90% del territorio di Helmand (gran parte del quale è deserto) è oggi sotto il controllo talebano. È impossibile averne l’assoluta certezza, e questo da solo la dice lunga.

Lashkar Gah ha subito diversi attacchi isolati ma ovunque è stata difesa dal governo in modo debole. Anche l’hotel Bost è sopravvissuto, nonostante il continuo rischio di attacchi e, oggi, di un’occupazione inferiore al 10%. L’hotel Bost, che prende il nome dall’antica città di Bost, una rovina abbandonata a poche miglia a sud della città moderna, è stato il primo di una dozzina di strutture costruite dagli americani e l’asse attorno al quale Lashkar Gah è diventata la nuova capitale di Helmand negli anni ‘50. Ma dopo una prima esistenza idilliaca, il Bost ha resistito non solo a decenni di guerra, ma anche all’occupazione di gruppi che hanno guidato a turno i conflitti. Ha ospitato i leader delle guerre di Helmand e tutti i loro compagni e cronisti. Se avesse un libro degli ospiti, quello dell’hotel Bost si leggerebbe come un glossario dei quattro decenni di guerra di Helmand.

Una volta completata la costruzione dell’albergo a metà degli anni ‘50, lo sviluppo si estese lungo il fiume e lontano dall’argine orientale, nell’area che ora è il centro della città. Lashkar Gah iniziò ad assomigliare al prototipo della città moderna che il re afghano Zahir Shah aveva immaginato. Le aspirazioni degli americani non erano meno ambiziose; Lashkar Gah fu il centro di un enorme sforzo durante la Guerra Fredda per contrastare l’influenza sovietica nel paese. Gli ingegneri americani del colosso dell’edilizia Morrison Knudsen costruirono dighe e canali e adibirono centinaia di migliaia di ettari di deserto all’agricoltura, dividendo in due il Dasht-e Margo, il Deserto della Morte. L’obiettivo era lanciare l’Afghanistan nei mercati regionali e, un giorno, nel mondo moderno.

Gli ingegneri portarono le famiglie e vivevano in bungalow che si sviluppavano per due isolati lungo il fiume Helmand. Erano costruiti secondo gli standard americani, con prati rigogliosi che davano su strade fiancheggiate da pini. Nei fine settimana, gli americani organizzavano giochi e facevano picnic presso il fiume. I bambini afghani venivano dai villaggi limitrofi per ammirare gli stranieri con i loro bei vestiti. Nel circolo della comunità, gli ingegneri americani e gli ufficiali del governo afgano socializzavano a bordo piscina in un giardino di rose e palme che si affacciava sul fiume. Di sera, durante le partite a carte si serviva gin tonic e nei fine settimana le proiezioni dei film attiravano le famiglie. La gente del posto sostiene che lo stesso re aveva una stanza e un ufficio al primo piano dell’hotel, per sfuggire ai pungenti inverni di Kabul. Quel circolo, il centro della vita nella città di nuova costruzione, era l’edificio che più tardi divenne l’hotel Bost.

“Piccola America”. Così la gente del posto chiamò la città, ma senza un pizzico di cinismo. A differenza degli inglesi, le cui incursioni in Afghanistan fin dalla metà del diciannovesimo secolo hanno ispirato sospetto e sfiducia tra gli abitanti di Helmand anche quando sono tornati nel 2006, gli americani non hanno ancora fatto una cattiva impressione. La sporadica protesta sulla presenza dei non credenti dai fanatici religiosi è stata superata da una maggioranza accogliente e piena di speranza. Ma gli americani se ne andarono nel 1978, quando un colpo di stato, guidato dal partito democratico popolare di sinistra in Afghanistan, spinse Washington a richiamare i suoi cittadini. L’anno seguente, l’esercito sovietico invase l’Afghanistan e Helmand divenne un campo di battaglia. L’hotel Bost fu requisito dai soldati sovietici e la città riprese il ruolo per il quale aveva guadagnato il nome persiano: Lashkar Gah, campo militare.

Nei primi anni ’80, i combattenti afgani dell’opposizione avanzarono fino a Lashkar Gah, ma la città rimase sotto il controllo dei sovietici e degli alleati afgani per tutta l’occupazione durata quasi un decennio. Tuttavia, la lotta nei quartieri fu tremenda. I bombardamenti aerei e il fuoco dell’artiglieria indiscriminata rasero al suolo villaggi e distrussero i canali d’irrigazione. Le truppe sovietiche e del governo furono accusate di stupri di massa e massacri che annientarono villaggi interi. Per placare le fazioni avversarie, i sovietici fomentarono ulteriormente i conflitti intertribali, lasciando sprofondare la provincia in una guerra civile dopo la loro partenza nel 1989. E fu proprio durante questo periodo senza leggi che l’hotel subì il maggior danno fino a oggi. Senza uno stato funzionante capace di contenerla, la lotta tra le fazioni giunse imperterrita a Lashkar Gah e gran parte della facciata vista fiume dell’albergo fu distrutta, i mattoni delle pareti spesse novanta centimetri precipitarono giù per la sponda ripida e finirono nel fiume. L’edificio fu abbandonato e i suoi arredi saccheggiati. L’hotel Bost, come la città da cui prende il nome, è stato lasciato cadere in rovina.

Dopo quindici anni di guerra, con la popolazione stanca dei racket criminali e dei signori della guerra che combattevano per il potere sulla scia della loro jihad, una nuova forza con la considerazione delle alte virtù imperversò nel sud dalla vicina Kandahar: i Talebani presero il controllo di Lashkar Gah nel 1994 con appena un proiettile sparato. Ben presto, i comandanti dei mujaheddin furono disarmati e la violenza fu quasi sradicata. Per gli abitanti di Helmand regolari, la durezza dei talebani – governo basato sulla paura e tolleranza zero per il crimine – era un piccolo prezzo da pagare per la stabilità. In effetti, c’erano pochi combattenti talebani a Helmand. Con poca opposizione al loro dominio nel sud, la maggioranza fu inviata a combattere l’Alleanza del Nord. A Lashkar Gah, la manciata di edifici governativi in mattoni, tra cui l’hotel Bost, fu rapidamente occupata. Dopo aver riparato i danni, l’hotel è diventato il luogo in cui i comandanti talebani e i loro combattenti trascorrono la convalescenza lontano dal campo di battaglia.
Poi giunse l’11 settembre 2001. Dopo l’attentato di Al Qaeda, gli Stati Uniti guidarono l’invasione dell’Afghanistan. Iniziò il 7 ottobre; dodici settimane dopo, l’ultimo giorno del 2001, una squadra di forze speciali entrò a Lashkar Gah. Trovarono l’hotel Bost abbandonato e presero residenza lì, costruendo postazioni mitragliatrici sul fondo piatto.

La maggior parte dei talebani a Helmand lasciò le armi e tornò alla vita nei campi; altri si allearono con la nuova amministrazione a Lashkar Gah. Le squadre delle forze speciali americane lavorarono con le milizie locali, setacciando i quartieri per scovare i Talebani rimanenti e Al Qaeda. Uccisero o catturarono persone che non erano né l’uno né l’altro, ma erano semplicemente rivali dei comandanti di Helmand con cui avevano scelto di lavorare. Alcuni Talebani, temendo la cattura e l’estradizione a Guantanamo Bay, a Cuba, o peggio ancora, potrebbero essere scomparsi oltre il confine con il Pakistan.
Per alcuni anni, con gli americani che operavano principalmente nella provincia rurale di Helmand e con le élite tribali locali a comando della provincia con il benestare di Kabul, Lashkar Gah mantenne una pace precaria.

Nel 2002, un certo leader tribale, Sher Mohammad Akhundzada, si inserì come il nuovo governatore della provincia e aprì il suo ufficio in un edificio affianco al Bost. Uno dei membri del suo staff, Jan Mohammad, aveva lavorato presso l’hotel durante gli anni di tumulti che seguirono il ritiro sovietico, prima che i talebani prendessero il controllo. Lui e altri membri dello staff eliminarono le fortificazioni delle Forze Speciali dal tetto, ridipinsero gli interni, stesero un nuovo tappeto, appesero nuove tende arricciate alle finestre e aprirono al pubblico. Il governatore addebitava $50 a persona per notte. Jan Mohammad è ancora lì oggi a registrare i clienti che arrivano in hotel.

La grande sala ricevimenti, inondata di luce grazie a una serie di vetrate che si affacciano sul fiume e la sala da pranzo lunga e stretta veniva utilizzata per gli incontri tra gli ufficiali afghani locali e quelli dell’esercito americano. Gli ospiti che pagavano erano principalmente giornalisti, inviati internazionali e ufficiali afghani in visita. Tra i primi clienti stranieri c’era un gruppo di inglese mandato a coordinare le iniziative di eliminazione degli oppiacei. Secondo Mike Martin, che ha servito a Helman come ufficiale dell’esercito inglese e che oggi è uno dei maggiori esperti occidentali della complessa rete di guerre tra fazioni della provincia, Akhudzada, preoccupato che potessero limitare il business lucrativo sull’oppio dei suoi amici, li convinse, “per la loro incolumità”, a non lasciare l’hotel. Una volta, ricorda un ospite che all’epoca era in visita da Kabul come assistente politico, un generale afghano famoso per la sua ferocia tenne udienza a capotavola nella sala da pranzo e, con la sua finta umiltà che provocò occhiatacce nascoste da tutto il tavolo, servì tè verde e Pilau ai soldati di rango inferiore e ai collaboratori di governo. Durante le serate estive, i giornalisti cenavano fuori dalle mura dell’hotel sotto gli alberi di eucalipto che crescevano lungo il fiume, la cui acqua grigio-verde sembrava assorbisse un po’ del caldo torrido. Nella comodità delle camere pulite piene di morbidi cuscini, i visitatori possono persino aver intravisto l’inizio del ritorno ai giorni della “Piccola America”.

Tuttavia, l’ottimismo ebbe vita breve. Nel 2005, le insurrezioni ripresero piede nella zona rurale di Helmand. Gli assassini, il cui lavoro era spesso, a torto o a ragione, attribuito ai Talebani, iniziarono a far fuori gli ufficiali del nuovo governo provinciale e, nel 2006, le sue fondamenta instabili erano a rischio di collasso. Gli inglesi schierarono circa settecento soldati a Helmand ma la presenza militare straniera più ingente provocò solamente un inasprimento della violenza.
L’interesse dell’Occidente per la situazione a Helmand era proporzionale alla sua presenza militare nella provincia e i giornalisti iniziarono ad andare e venire. Con il peggioramento della sicurezza, il Bost divenne uno dei pochi luoghi abbastanza sicuri per i visitatori. A volte, l’hotel ha raccolto i profitti inaspettati dell’economica bellica. Un anno, l’esterno è stato ridipinto. In un altro periodo ci furono abbastanza soldi per l’acquisto di vistosi divani in vinile, che sono ancora lì, posti attorno al perimetro delle camere comuni come carri disposti in cerchio.

I giornalisti apprezzavano la relativa sicurezza del Bost e la maestosa vista sul fiume. Qais Azimy, all’epoca produttore esecutivo di Al Jazeera che aveva alloggiato lì molte volte dalla seconda metà degli anni 2000, disse che per lui l’hotel Bost era “come una bolla sicura all’interno di un fuoco”. Ma con la presenza del governatore nei paraggi, la minaccia non era mai lontana. La boscaglia lungo il fiume fungeva da riparo perfetto per i mortai dei ribelli e per le granate con propulsione a razzo. Una delle guardie di sicurezza del Bost indossa ancora un pezzo di tessuto su un’orbita oculare scavata da un frammento di proiettile di un attacco missilistico avvenuto nel 2016. Al tramonto, le tende dell’hotel venivano sempre chiuse per evitare che la luce inducesse un cecchino a sparare.

Il Bost ha rischiato di essere colpito da attacchi più mirati in almeno due occasioni. Nel 2008, trecento combattenti antigovernativi lanciarono un attacco nell’edificio del governatore. Si fecero strada attraverso la zona ovest del fiume, ma furono travolti dagli elicotteri d’assalto inglesi prima che potessero raggiungere il loro obiettivo. Nel 2010, i ribelli bene armati e con addosso giubbotti esplosivi occuparono l’hotel Sun and Moon, che era ancora in costruzione e che si trovava proprio sulla stessa strada. Gli ufficiali inglesi organizzarono una postazione di comando all’interno del Bost e coordinarono il contrattacco congiunto afghano-britannico.

In estate, durante il giorno le temperature a Lashkar Gah spesso raggiungono i 46°. Il cielo diventa bianco, come sbiadito dal sole, e nelle ore centrali, la metà delle strade principali è vuota. I giornalisti in visita possono trovare sollievo in poche stanze buie, simili a celle che si trovano sul lato opposto del fiume e del sole rovente del pomeriggio, dotate di condizionatori inefficienti. Tuttavia, alcune volte, negli ultimi anni del 2000 agli ospiti che arrivavano, veniva detto che le stanze erano occupate. Non era subito chiaro chi stesse alloggiando in albergo, perché in sostanza gli ospiti vivevano di notte. Apparivano di tanto in tanto: una dozzina di uomini massicci e barbuti con indosso delle shalwar kameez aderenti come quelle preferite dai giovani alla moda di Kabul e occhiali da sole. Appartenevano alle Forze Operative Speciali Americane, secondo due giornalisti che ogni tanto li incontravano. Di notte sparivano tra i quartieri, e ritornavano in albergo guidando delle Toyota Corolla impolverate per dormire durante il giorno. Non era l’unico edificio sulla strada in cui gli stranieri cercavano di passare inosservati. Per diversi anni, l’insignificante edificio di fronte al Bost era una base della CIA, afferma un ufficiale militare delle forze occidentali che lavorava nella zona in quel periodo.

Nel 2014, dopo che le forze inglesi e i Marines americani si erano ritirati da Helmand, l’interesse nei confronti della Provincia di Helmand e in generale dell’Afghanistan, diminuì. Le agenzie giornalistiche a Kabul erano diventate più piccole o avevano chiuso definitivamente e, non avendo storie di americani ed europei in prima linea, la fame di rischio delle testate giornalistiche era scemata. Per la manciata di giornalisti stranieri che continuavano a occuparsi di Helmand, che si potevano contare letteralmente su una mano, la provincia era piena zeppa di storie sullo sforzo internazionale fallito, secondo quanto dicevano gli abitanti di Helmand che erano stati lasciati soli ad affrontare le conseguenze.

00boshhotel slide R3R0 superJumbo 768x512Le condizioni sempre più precarie avevano strangolato l’economia locale. L’industria dell’oppio era prospera, tuttavia i milioni di dollari ricavati finivano nei fondi per la guerra dei Talebani e dei loro cartelli alleati, oppure lasciavano il paese. Oltre al decadimento del parco divertimenti di Lashkar Gah e l’abbandono della sgranatrice di cotone, l’hotel era stato trascurato. Con le frequenti interruzioni della fornitura di energia elettrica a Lashkar Gah, tutti i soldi provenienti dagli ospiti in diminuzione erano utilizzati per il generatore diesel dell’hotel. La piscina si era asciugata, non era più stata riempita e i poliziotti annoiati la usavano, invece, come campo di cricket. Sui soffitti e sui muri si erano formate bolle per l’umidità e crepe per il caldo estremo. Le lenzuola erano sporche, i bagni e le maniglie delle porte erano danneggiati e la cucina era caduta in una fiacca routine: uova soda e pane per colazione, okra stufata e pane per cena.

Quando nel 2014 andai per la prima volta a Helmand, le Forze per le Operazioni Speciali si erano ritirate nelle basi militari ben protette e non si erano viste al Bost per anni. Anche i giornalisti erano sempre meno. Infatti, prima si avevano molte più possibilità di cenare con governatori distrettuali esiliati dalle roccaforti talebane come Musa Qala e Baghran. I ribelli si stavano avvicinando passo dopo passo a Lashkar Gah. Ogni volta che tornavo, i villaggi in prima linea che avevo visitato in precedenza – e le disorganizzate forze governative che combattevano per tenerli – erano stati conquistati dai ribelli. Nel settembre 2016, i Talebani erano alle porte della città. Controllavano quasi tutta la zona di Helmand oltre le linee difensive del governo, a meno di due chilometri dall’hotel. Gli abitanti scappavano in tutti i modi possibili. Di notte, i Talebani, al di là del fiume, sparavano costantemente alla casa del governatore. Gli affari del Bost si paralizzarono un’altra volta. Jan Mohammad, membro di lunga data del personale del governatore, non volle accogliere ospiti per mesi.
Nel 2017, l’ultima notte della mia permanenza, seduto sul tetto dell’hotel al tramonto, bevvi, con un altro giornalista, due bottiglie di birra che ero riuscito a far entrare illegalmente da Kabul. Le avevo fatte raffreddare nell’unico frigorifero del Bost. Le nostre gambe dondolavano oltre il cornicione del tetto, nell’oscurità. Quella notte, solo le stelle illuminavano il cielo e, sotto, scorreva silenzioso il fiume Helmand.

Andrew Quilty è un fotoreporter stabilitosi a Kabul, Afghanistan, dove lavora dal 2014. Grazie al suo lavoro, ha ottenuto molti premi tra cui il Polk Award e il Picture of the Year International.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *