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La giornalista afghana che sfida i talebani

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Giornale del Popolo, 18 aprile 2018, di Leone Grotti

tipress 327992Intervista a Nargis Mosavi, che ogni giorno rischia la vita per amore del suo Paese. È stata inviata in Svizzera da Reporters sens frontière per raccontare la situazione.

«Quello che ti è successo è perfettamente normale, visto che sei una giornalista e una donna». È con questa sufficienza che la polizia ha trattato Nargis Mosavi, quando l’allora 20enne si è presentata per denunciare un tentato rapimento. Il suo. Era il 2015 e la ragazza, l’unica nel Paese a condurre un programma televisivo, era appena uscita dagli uffici dell’emittente privata afghana TOLOnews. Un’auto nera l’ha affiancata e dalla portiera aperta all’improvviso si sono protese verso di lei delle braccia nel tentativo di trascinarla dentro.

Le sue grida hanno richiamato l’attenzione delle persone circostanti e il tentato sequestro è fallito. Mosavi non è mai venuta a conoscere l’identità dei rapitori, ma da allora viaggia sotto scorta dentro un mezzo blindato fornito dalla sua azienda. Né il Governo, né la polizia hanno fatto niente per aiutarla. «Funziona così in Afghanistan», sorride la giornalista, che abbiamo incontrato nella sede del GdP. La 23enne è stata invitata in Svizzera da Reporters sans frontières per raccontare la situazione del suo Paese, dove infuria ancora la guerra senza quartiere contro talebani e Stato islamico, e delle donne. Durante l’intervista lascia che i lunghi capelli scuri le ricadano liberamente sulle spalle. «Nel mio Paese sono obbligata a portare il velo, ma per me non ha alcun significato, quindi ora che sono qui non lo indosso. Il mio rapporto con l’islam non è così buono», spiega.

 

Quella di Mosavi è una testimonianza importante, perché porta alla luce i problemi e le contraddizioni di un Paese che dai tempi dell’entrata a Kabul dell’Armata rossa sovietica nel 1979 prima, della conquista del potere talebana e dell’invasione da parte degli Stati Uniti poi, ha conosciuto pochi momenti di pace. Essere giornalista, soprattutto donna, non è facile nella Repubblica islamica e Mosavi ha dovuto combattere per intraprendere la professione, nella quale ha mosso i primi passi già a 16 anni. Oggi, nonostante la giovane età, conduce su TOLOnews una trasmissione di carattere economico intitolata “Bazaar”. Ogni sera mostra il suo volto in diretta e questo è per molti insopportabile. «All’inizio lo era anche per la mia famiglia».

Non volevano che tu diventassi giornalista?

No. In generale, l’islam in Afghanistan impedisce a una donna di essere equiparata a un uomo. Nelle moschee si ripete che le donne non devono studiare e non devono uscire di casa a meno che non indossino il velo. La mentalità purtroppo è questa, è una cultura che aiuta i terroristi. Io però ho lavorato duro e ho dimostrato ai miei genitori che potevo farcela, che potevo studiare e lavorare. All’inizio, quando mi vedeva in televisione, mio padre cambiava canale. Oggi però è orgoglioso di me.

È difficile essere una giornalista in Afghanistan?

Ricevo in continuazione minacce da talebani e Stato islamico. Hanno cercato di rapirmi e corro il rischio, oltre che di essere uccisa, anche di essere sfregiata con l’acido. Un modo per punire le donne che mostrano il proprio volto in televisione. Non esco mai, se non per lavoro e la mia emittente mi ha fornito un’auto con guidatore e guardia del corpo per compiere il tragitto.

L’impressione è che USA e Occidente stiano perdendo la guerra. Il Governo di Kabul comanda poco più del 50% del Paese. Il resto è in mano ai talebani o all’ISIS, che compiono attentati a ripetizione.

Io non credo che i talebani potranno mai vincere la guerra, ma godono di un forte sostegno tra la popolazione. La situazione purtroppo peggiora di giorno in giorno e ho l’impressione che gli americani non vogliano fermare questa guerra. Altrimenti l’avrebbero già fatto.

Cosa pensi del processo di pace inaugurato dal presidente Ghani?

Sono scettica. Quando l’anno scorso ha raggiunto un’intesa con il gruppo armato Hezb-e-Islami del signore della guerra Hekmatyar, sembrava che dovesse cambiare tutto. Invece non è cambiato niente. Non ho molta speranza per il futuro.

Di che cosa ha bisogno l’Afghanistan?

Di tre cose: pace, donne, educazione. I temi sono collegati tra loro perché per colpa della guerra le donne non possono studiare né lavorare. È troppo rischioso, eppure potrebbero dare un contributo enorme. In generale, però, bisogna migliorare l’educazione dei giovani. In tanti vogliono andarsene e scappare, più del 30%. Non ci sono però solo aspetti negativi.

Qualcosa sta cambiando?

Sì. Le donne non devono più indossare il burqa per forza e alcune hanno cominciato a lavorare, aprendo piccoli negozi, studiando all’università. A volte il Governo aiuta, anche se le opportunità restano poche. Di lavoro ce n’è poco. Anche per questo in tanti vogliono andarsene.

Tu però sei rimasta.

Il mio Paese ha bisogno di me e io voglio contribuire a costruirlo. Anche se sono consapevole dei rischi che corro.

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