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Kabul, uccidere l’informazione

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di Enrico Campofreda, Incertomondoncertomondo – 4 Maggio 2018

kabul 1Nei giorni scorsi l’attentato-trappola di Kabul (due esplosioni nello stesso luogo a distanza di venti minuti) ha privato l’opinione pubblica di nove cine e foto reporter, cronisti coraggiosi che con parole e immagini fissavano la crudelissima realtà d’un popolo da quarant’anni senza pace. Fra le vittime il veterano e artistico Shah Marai, che lavorava per France Presse, dove aveva iniziato come autista accompagnatore di fotografi e giornalisti già in epoca talebana, ed è diventato fotografo egli stesso durante l’occupazione statunitense dell’Enduring Freedom.

Un fotografo straordinario! Fissava scene capaci di raccontare non solo i drammi del conflitto, sapeva cogliere quegli attimi vitali che cercavano spazio in tanto orrore. Con lui piangiamo Ghazi Rasooli, Ali Rajabi, Mohammed Tokhi, Saleem Talash, Ali Saleemi. E ancora Mahram Durani, Abdullah Hananzai e Sabawoon Kakar. Quest’ultimo con un recente scatto a una madre che s’era presentata a una prova per l’ammissione universitaria col suo piccino ed era accovacciata dietro a una sedia a rispondere al test, aveva raggiunto notorietà sul web. Questo genere di cronisti sono pregiatissimi. Ci mostrano un ambiente ostile che mette a repentaglio la loro vita.

 

Non sono eroi, né vogliono diventare martiri. Sono semplicemente fedeli al fine deontologico di chi è impegnato nell’informazione: servire il pubblico. Non privarlo degli strumenti primari per leggere la realtà, sebbene la scenografia delle stragi in quei luoghi sia un copione tristemente noto. Perdere questi indomiti interpreti della comunicazione è un lutto enorme, perché i signori della guerra locali e quelli d’importazione, come sono le truppe Nato, non amano altri narratori che non siano i propri portavoce e propagandisti.

Altro nemico mortale delle verità celate è lo Stato Islamico, insediatosi in Afghanistan dopo la chiusura del fronte iracheno, che da oltre un anno sfida i talebani per la supremazia del terrore. Shah e i suoi colleghi lo sapevano, ma lunedì mattina non potevano astenersi dall’accorrere sull’ennesimo angolo di Kabul diventato cimitero. Purtroppo nelle deflagrazioni ci son finiti dentro. Senza scampo. Accanto alla scia di sangue che li ha portati via, di questi reporter restano testimonianze di enorme impatto emotivo. Quelle ombre di soldati su un muro che marciano davanti ad altri commilitoni, quella goccia di medicinale sospesa a mezz’aria sulle labbra d’una bambina, quel ragazzino che porta sulle spalle l’unico suo bene: un agnello, sono le realistiche opere d’arte che Marai ci regalava. E, dolci o tragiche, ci mancheranno.

Enrico Campofreda

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