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DALLA NORVEGIA ALL’AFGHANISTAN, LA STORIA DI MOHAMMAD: «ORA NON VADO PIÙ A SCUOLA»

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Corriere della sera / Esteri di Marta Serafini, 28 ottobre 2018

Mohammad1 kpX U3050686712903CRF 1224x916Corriere Web Sezioni 593x443La testimonianza di un 13enne costretto a rientrare nel suo Paese di origine dopo 6 anni in nord Europa. Il rapporto di Save the Children: «L’Ue faccia cessare i rimpatri forzosi»

«Mi piaceva andare a scuola, mi piacevano i miei insegnanti e i miei compagni di classe in Norvegia». Mohammad (il suo nome è stato modificato per ragioni di privacy e sicurezza), 13 anni, aveva 5 anni quando lui e la sua famiglia sono scappati dalla provincia di Ghazni, in Afghanistan, una delle più colpite dai combattimenti tra esercito e talebani.

Dopo essere passati dall’Iran Mohammad e la sua famiglia sono arrivati in Turchia. Da qui, via mare sono entrati in Grecia e infine in Norvegia dove hanno fatto richiesta di asilo politico. Dopo 4 anni la domanda è stata rifiutata. A Mohammed e la sua famiglia è stato detto che dovevano lasciar il Paese.

Mohammed e la sua famiglia sono rientrati nell’elenco dei cosiddetti rimpatri forzosi verso l’Afghanistan, un Paese ancora in guerra. Non sono tornati a Ghazni, ma a Kabul, nella capitale.

Qui il padre di Mohammed lavora per due dollari al giorno e Mohammad ha smesso di andare a scuola per paura degli attentati. «Vorrei tornare in Norvegia, per vedere i miei compagni e non voglio essere ucciso qui», ha raccontato Mohammad ad un’operatrice di Save the Children il mese scorso. Oltre alla paura della guerra e delle bombe, per la famiglia di Mohammad e per lui stesso tornare non è stato per nulla facile. «Ci hanno caricato su un aereo con pochi soldi. E una volta atterrati abbiamo subito cambiato modo di ragionare, dato che questa è una zona di guerra», ha spiegato Farah, la madre di Mohammad.

 

La storia di Mohammad e della sua famiglia è tristemente simile a quella di altri 9.460 afghani, fin qui rimpatriati sulla base del Joint Way Forward, l’accordo tra Unione europea e le autorità di Kabul per il rimpatrio dei richiedenti asilo afgani. Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3.290 a 9.460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68% del settembre 2015 al 33% del dicembre 2016. Nello stesso periodo, in diverse zone dell’Afghanistan sono aumentati gli attacchi contro i civili, la maggior parte dei quali rivendicati da gruppi armati tra cui i talebani e lo Stato islamico. Secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) nel 2016 sono state uccise o ferite 11.418 persone.

Nei soli primi sei mesi del 2017 le vittime civili documentate da Unama sono state 5.423. Come dire, insomma, che l’Europa sta costringendo esseri umani, anche minori, a tornare in zona di guerra. Come fatto notare da diverse ong, tra cui Amnesty International, in un documento riservato diventato pubblico, le agenzie europee avevano ammesso «il peggioramento della sicurezza e le minacce cui vanno incontro le persone», così come «i livelli record di attacchi terroristici e di vittime civili». Tuttavia, con spietatezza, hanno insistito sul fatto che «potrebbe essere necessario far tornare [in Afghanistan] oltre 80.000 persone nel breve periodo».

In un rapporto pubblicato di recente dal titolo «Europe to Afghanistan» che il Corriere della Sera ha potuto visionare in anteprima, Save the Children basandosi su 53 interviste condotte sul campo, sottolinea come questo accordo e questa pratica costituiscano una violazione dei trattati internazionali sia per quanto riguarda gli adulti ma soprattutto per i minori. Alcuni dei bambini e dei ragazzi intervistati (la maggior parte sono stati costretti a rientrare dalla Norvegia e dalla Svezia) non erano mai stati prima in Afghanistan, alcuni sono nati in Iran, altri nei campi rifugiati in Grecia o in Pakistan. «Molti di questi minori sono stati mandati in un territorio per loro non familiare, in un Paese dove nonostante alcuni progressi,ai bambini ancora viene impedito di andare a scuola e la loro sicurezza e protezione non rappresenta un priorità», sottolinea Onno van Manen, direttore di Save the Children in Afghanistan. Dalle interviste condotte emerge anche come tre quarti dei bambini non si siano sentiti al sicuro durante il processo di rimpatrio e come al loro arrivo non sia stato messo in atto alcun piano di integrazione. Dei 45 minori che andavano a scuola in Europa ora solo 16 fanno lo stesso in Afghanistan. Come Mohammad.

Ed è per questo motivo che ancora una volta una Ong rivolge un appello agli stati membri dell’Ue e alla Norvegia affinché cessino la pratica dei rimpatri forzosi in Afghanistan. Soprattutto per i bambini.

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