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AFRIN: LE VOCI DEI PROFUGHI E DEI COMBATTENTI

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Uikionlus – 17 luglio 2018

afrin2 700x325 599x275In una stanza della guest house di Kobane un uomo mi racconta della città da cui è dovuto andarsene, Afrin.

«Non mettere il mio nome. La mia famiglia, i miei genitori e fratelli, sono ancora là. Gli islamisti e i turchi arrestano tutti coloro che sostengono l’autonomia democratica del Rojava e i loro parenti, li torturano e li uccidono».

Le notizie degli omicidi, degli stupri e delle torture escono dalla sua bocca una dopo l’altra. Un elenco dell’orrore che sembra non finire mai.
«I jhiadisti hanno costretto una ragazzina di dodici anni a sposare uno di loro».

«Gli abitanti dei villaggi yezidi di Arsh Kabor, Fakyr e Fatyran sono stati convertiti a forza all’Islam».

«Il sito archeologico di Andare è stato bombardato e poi distrutto».

«Nel villaggio di Arin Mirkan hanno bruciato gli ulivi per cacciare i contadini».

«A Shara hanno cacciato molta gente per far posto agli islamisti e alle loro famiglie venute dalla Ghouta».

Annuisco. La “pulizia” etnico-religiosa è in corso ovunque in Siria tranne che in Rojava, un’isola di convivenza in un mare di barbarie incrociate. Assad uccide o caccia gli arabi sunniti sostenitori dei ribelli, gli islamisti cacciano o uccidono curdi, cristiani, yezidi o sciiti. La gente di Afrin, come quella di tutto il Rojava, aveva accolto centinaia di migliaia di profughi senza chiedere loro di che religione o etnia fossero. Ora i carri armati e le bombe di Erdogan hanno costretto alla fuga circa la metà di quanti si trovavano nella zona, profughi o autoctoni che fossero. Sono più di 300.000 gli sfollati di Afrin nelle tendopoli della regione di Sheba.

Al loro posto gli islamisti siriani al soldo di Erdogan insediano famiglie provenienti da Ghouta, in fuga da Assad perché parenti degli islamisti o semplicemente perché non volevano morire sotto i bombardamenti.

«Non tutti sono islamisti» dice il mio testimone. «Molti vorrebbero tornarsene a Ghouta ma i soldati turchi li tengono ad Afrin con la forza».

Per chi si trova ad Afrin la vita è identica a quella provata dagli abitanti di Raqqa sotto l’Isis. Le donne sono il principale bersaglio dell’occupazione turca e jihadista. Donne come quelle che a Kobane vedo fare le insegnanti, le amministratrici, le comandanti militari o le organizzatrici delle comuni e delle associazioni. Donne che sono il motore di questa rivoluzione e che per Erdogan, e per quelli che l’occidente chiama “ribelli moderati” (in realtà ex membri dell’isis), sono “infedeli” da punire.

«A Shie il 13 giugno hanno picchiato le donne che protestavano contro l’obbligo di portare il burqua. Le prendono e le bastonano sotto la pianta dei piedi».

La falaka, una pratica comune nelle galere turche ai tempi del regime militare degli anni ’80 che Erdogan ha riportato in auge.

«Nel villaggio di Kukhan tutte le donne sono state riunite in una casa e gli uomini in un altra vicina. Le hanno violentate mentre i loro padri, fratelli e mariti erano costretti a sentire le loro urla».

Io ascolto e vorrei potermi illudere che questa sia, almeno in parte, propaganda curda. Ma l’uomo che mi parla dice “mio fratello”, “la mia città”. No, non è propaganda.

Ciò che dice è identico a quanto mi ha già raccontato un profugo cristiano di Afrin, che a differenza del mio testimone non faceva parte del movimento rivoluzionario. La colpa di essere cristiani è più che sufficiente per morire ad Afrin sotto l’occupazione turca.

«Hanno sterminato intere famiglie, anche i bambini. Ci rubano tutto e distruggono le chiese. Tutti i cristiani hanno dovuto fuggire. Io sono qui a Kobane ma molti sono nei campi profughi a Shahba». No, non è propaganda.

Incontro anche i feriti della battaglia di Afrin, combattenti Ypg e Ypj, cioè ragazzini che in Italia sarebbero tra i banchi delle superiori. Per due mesi in un territorio appena collinare, che sarà la metà di una media provincia italiana, hanno fermato gli aerei e i carri armati del secondo esercito NATO con i loro vecchi Khalasnikov e con i loro corpi, coprendo la fuga di centinaia di migliaia di civili. Altri ragazzi e ragazze come loro in questo momento continuano la guerriglia dietro le linee nemiche. Gli invasori non possono dormire sonni tranquilli ad Afrin.

Qualcuno dei feriti che ho davanti zoppica, qualcuno ha un braccio fasciato. Ad una ragazza piccola e sorridente mancano una mano e un piede. No, non è propaganda.

Ci chiedono di raccontare in Europa quello che accade qui. Dicono che loro combattono per tutti i popoli e per tutti gli oppressi. Che tutti i popoli dovrebbero aiutarli. Ci dicono di fare di più perché questo accada.

E io vorrei davvero sapere come fare per far sentire all’Italia e all’Europa intera la vergogna che provo io ora, la vergogna di non fare mai abbastanza, di non essere in grado di restituire a questa gente anche solo una piccola parte di ciò che loro hanno dato all’umanità intera affrontando il volto peggiore della barbarie del nostro tempo.

di Tommaso Baldo, GlobalProject.

Baldo ha fatto parte della delegazione di Fondazione Museo storico del Trentino e Docenti Senza Frontiere che, in collaborazione con UIKI (Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia), si è recata a Kobane tra il 13 ed il 20 giugno per monitorare la costruzione di “l’arcobaleno di Alan”, uno spazio abitativo e didattico destinato agli orfani della città e finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento. In questo articolo alcune riflessioni e scorci di vita quotidiana scaturiti da questa esperienza.

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