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«Voglio essere felice»: i disegni delle donne afghane.

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Viviana Mazza – Corriere.it – 17 dicembre 2016

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 A fine ottobre, quindici anni dopo l’inizio della guerra in Afghanistan, ho trascorso otto giorni a Kabul. Volevamo raccontare la situazione delle donne nel Paese. L’intervento nel 2001 fu una risposta agli attentati dell’11 settembre ma fu presentato anche come un’opportunità per aiutare le donne afghane oppresse dai talebani. Sul Corriere della Sera abbiamo dato voce a otto di loro, supportate dall’associazione italiana «Cospe».

Ci hanno raccontato una realtà dove le leggi, sulla carta, garantiscono oggi parecchi diritti, ma di fatto la violenza — dentro casa e fuori — è rimasta parte integrante della quotidianità. I disegni che pubblichiamo in questo post lo spiegano molto bene. Li abbiamo trovati nella stanza da letto di una casa rifugio gestita da «Hawca», storica organizzazione femminile afghana che collabora con «Cospe». Li hanno fatti donne che si nascondono qui perché sono scappate da mariti che le picchiavano o da padri che volevano costringerle a sposarsi. In questi luoghi segreti trovano protezione, ma si tratta anche di un limbo, perché una volta lasciata la famiglia è «come se fossero morte» — spiegava una di loro —: nei casi migliori non le rivogliono indietro, nei casi peggiori tentano di ucciderle per «onore».

Quel che ai miei occhi rende preziosi questi disegni realizzati dalle donne per se stesse, per esprimersi, è che mostrano di essere ben consapevoli dei propri diritti, anche se nella società vengono negati. Alcune di loro sognano una vita indipendente, anche se è quasi impossibile in Afghanistan (di fatto potranno uscire dalla case rifugio solo se la famiglia le riaccoglie oppure se trovano marito). «Violazioni contro le donne» c’è scritto in dari nell’immagine che apre questo post. «Ero a casa di mio padre, andavo a scuola ogni giorno — racconta qui sotto un’altra donna —. A casa di mio marito, venivo minacciata e costretta a fare lavori pesanti, tutti mi picchiavano. Sono andata a fare l’insegnante. Mi hanno costretta invece a portare le pecore al pascolo, allora me ne sono andata».

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«Costringere le bambine a sposarsi è illegale», dice un altro disegno (qui sotto).

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E ancora, in basso: «Vorrei avere una bella famiglia come quella che ho disegnato, avere una vita piena di felicità e senza violenza. Ero sola e mi guardavo intorno. Mio padre mi ha minacciata e mi ha costretta a fidanzarmi con un uomo anche se non volevo. Stavo male, soffrivo di giorno e di notte, mi chiedevo perché questo fosse capitato a me, piangevo».

La mancanza di sicurezza a Kabul (per non parlare delle province, controllate al 30% dai talebani) riguarda tutti. Il rombo degli elicotteri militari è continuo, le barriere di cemento sono sempre più alte intorno alla «zona verde». I diplomatici restano all’interno, non escono quasi mai; volano, anziché guidare, anche per andare in aeroporto. Le truppe della Nato sono ridotte a 13mila, l’atmosfera è da fine di un’era. Passavo la notte nella zona verde nell’ufficio di «Cospe», e ogni giorno uscivo insieme a Rohina Bawer, una giovane attivista locale che lavora per «Hawca», per fare le mie interviste. Giravamo in un’anonima auto verde, vestite con abiti lunghi e con il velo sulla testa come molte donne a Kabul.

Alla guida della nostra auto c’era un autista afghano di fiducia e non avevamo guardie armate per evitare di attirare l’attenzione su di noi. Una mattina siamo rimaste imbottigliate a lungo nel traffico vicino al quartiere hazara dove sono frequenti le autobomba e le «sticker bomb» che certe volte vengono attaccate ai fianchi dell’auto da bambini che chiedono l’elemosina (i miliziani li pagano per farlo). La mancanza di sicurezza riguarda tutti, ma in momenti come quello pensavo alle donne che ho incontrato — ragazze qualunque scappate di casa, ma anche politiche, generali, avvocate, attiviste dei diritti umani — che affrontano non solo i rischi di tutti i giorni ma anche la consapevolezza che qualcuno le vuole morte, le prende di mira e che né loro né le loro famiglia hanno la protezione adeguata. Rischiano tutto. C’è una cosa sola di cui nessuno potrà privarle, la consapevolezza dei propri diritti.

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