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Afghanistan, Putin ha tre ragioni per allearsi coi talebani

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di Giuliano Battiston –  Pagina 99

Russia taleban 1 150x150Si dice che i russi forniscano le armi ai mujahedin. Per limitare l’arrivo di eroina in patria e di militanti Isis in tutta l’area. E contenere l’influenza Usa in Asia centrale

«Ho visto accatastate sullo stesso aereo bare di zinco che riportavano i morti a casa e valigie piene di pellicce di montone, jeans, mutandine da donna… tè cinese». A parlare è un ex soldato, addetto alle trasmissioni. «Troppo grandi per entrare nei minuscoli alloggi d’epoca chrušcëviana», le bare di zinco sono quelle dei soldati russi deceduti in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, le cui vite sono state raccontate dal premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic nel suo quasi omonimo, splendido reportage narrativo.

Cominciata nel dicembre del 1979 e conclusa nel febbraio del 1989, quell’occupazione – con il corollario di madri disperate, illusioni tradite, bocche piene di sangue, arti amputati e corpi bruciati – ha prodotto una vera e propria «sindrome afghana», per usare la definizione dello studioso russo Vladimir Boyko, che ha dedicato molti lavori al rapporto tra il suo Paese e l’Afghanistan.

Oggi, a quasi vent’anni di distanza dal ritiro delle truppe sovietiche, la sindrome afghana sembra archiviata. E Mosca è sempre più convinta di poter assumere un ruolo da protagonista nel futuro del Paese. Tanto da decidere di parlare perfino con i talebani, eredi – almeno in parte – di quei mujahedin che hanno costretto l’orso russo a ritirarsi nei propri territori. Per capire cosa è successo, si può partire dal 27 dicembre 2016.

Quando a Mosca si è tenuto un incontro trilaterale per discutere di Afghanistan, dentro un più ampio contesto regionale. Al tavolo, i rappresentanti di Russia, Cina e Pakistan. Alla fine dell’incontro Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha tirato le somme invocando «un approccio flessibile per rimuovere alcune figure dalla lista delle sanzioni Onu», come mezzo «per favorire un dialogo di pace tra Kabul e il movimento talebano».

 

Gli studenti coranici hanno incassato con favore quel discorso. Che però non è piaciuto né al governo di Kabul né a quello di Washington. Il primo lamenta di essere stato tagliato fuori dalla discussione. Il secondo ha preoccupazioni maggiori. Teme infatti che i russi non si limitino alle aperture diplomatiche, ma abbiano cominciato a fornire armi, soldi e aiuto logistico agli studenti coranici, quei mujahedin che gli americani continuano a combattere sul terreno, direttamente o sostenendo le forze di sicurezza afghane. Come a dire: i russi ci fanno la guerra attraverso i talebani. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i resoconti giornalistici che segnalano un rapporto privilegiato tra i russi e i barbuti (che in realtà risale ad almeno due anni fa). Alcuni senatori afghani parlano di prove documentate. I giornali locali trasformano le congetture in prove. Le voci e le accuse si accavallano.

C’è chi dice che le armi danneggiate dei talebani vengano riparate da ingegneri russi in Tajikistan, a due passi dal confine settentrionale afghano; che alcuni leader talebani trascorrano più tempo a Tashkent a discutere con i russi che non in Pakistan, nei loro tradizionali santuari. C’è perfino chi è arrivato a sostenere che la momentanea conquista talebana di Kunduz dell’ottobre 2015 sia dipesa dall’aiuto dei russi.

Elementi parziali, rumors non documentati, che hanno comunque portato il generale John Nicholson, a capo delle truppe americane e della missione Nato in Afghanistan, a condannare «l’influenza malevola di attori esterni» nel Paese centro-asiatico, inclusa quella russa. Per Nicholson, il rinnovato protagonismo russo in Afghanistan non è che un mezzo per delegittimare il governo di unità nazionale di Kabul, e dunque gli Stati Uniti.

La nascita di quel governo è stata infatti fortemente voluta dall’ex segretario di Stato John Kerry quando, nel settembre 2014, dopo reciproche accuse di brogli elettorali costrinse i due candidati alla presidenza a formare a un governo bicefalo, ancora paralizzato dal loro antagonismo. Alla dichiarazione di Nicholson è seguita una replica a distanza di Zamir Kabulov. Diplomatico dell’ambasciata sovietica a Kabul al tempo dell’occupazione (e per qualcuno anche agente del Kgb), poi ambasciatore e oggi inviato del presidente Putin in Afghanistan, il 27 dicembre scorso Kabulov ha rilasciato all’agenzia giornalistica turca Anadolu un’intervista che ha destato scalpore. Perché ha parlato senza peli sulla lingua. E ha mostrato quanto sia cambiato il punto di vista di Mosca sugli studenti coranici.

Nel 2000 l’Emirato islamico d’Afghanistan, il governo dei talebani che si era azzardato a riconoscere la richiesta unilaterale di indipendenza della Cecenia, concedendo l’apertura di un’ambasciata dei ribelli a Kabul, era considerato un nemico, un magnete per i terroristi islamisti, una minaccia alla sicurezza della frontiera più esterna dell’impero russo, la cintura delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.

Oggi invece, dice Kabulov, «la maggioranza dei talebani, inclusa la leadership», non è che «una forza locale», «che ha abbandonato l’idea del jihad globale». Dunque un interlocutore legittimo. Utile, in chiave strumentale. L’idea è questa: Mosca convince i talebani a ridurre il traffico di oppio ed eroina verso la Russia, un Paese che si trova lungo la rotta verso l’Europa e che sta pagando pesanti conseguenze dal consumo interno; in cambio i barbuti ricevono una patente di legittimità politica sullo scacchiere internazionale.

Mosca a sua volta incassa altri due risultati: un alleato contro lo Stato islamico in Asia centrale, e qualche leva in più nel condizionare le scelte di Washington. Quanto al primo aspetto, Mosca si dice preoccupata: dalle irrequiete regioni del Caucaso sono partiti migliaia di combattenti per la Siria e l’Iraq. Devoti al Califfo al-Baghdadi, alcuni di questi sono rientrati in patria. Altri lo faranno. Se trovassero un rifugio sicuro in Afghanistan, Mosca pagherebbe un prezzo molto alto. In Afghanistan però ci sono i talebani, che vedono come fumo negli occhi la presenza sul loro territorio degli esponenti dello Stato islamico nel Khorasan.

Divisi da ragioni ideologiche, dottrinali e strategiche, li combattono duramente. Per questo, vengono visti come alleati contro l’espansione del Califfo nelle aree di influenza russa. Ma i talebani possono risultare utili anche per frenare un’altra espansione temuta da Mosca. Quella degli americani in Asia centrale. Dopo essere rimasto perlopiù a guardare, aspettando pazientemente il cadavere della Nato e degli Stati Uniti lungo il fiume, oggi l’orso russo tira fuori la testa. La guerra americana in Afghanistan è persa. La Russia torna a marcare il territorio.

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