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Afghanistan, le prime mosse di Trump e il ruolo dell’Italia.

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Lookout news, di Rocco Bellantone, 25 aprile 2917

Il presidente riprende in mano il dossier afghano dopo la fallimentare exit strategy di Obama. Verrà chiesto un nuovo sforzo anche al nostro paese?

Il 23 marzo la perdita di Sangin, nella strategica provincia meridionale di Helmand, situata al confine con il Pakistan e dove si concentra oltre il 40% della produzione mondiale di oppio. Il 22 aprile l’attacco alla base militare di Mazar-e Sharif, nella provincia settentrionale di Balkh con oltre 150 soldati afghani uccisi. Ieri, lunedì 24 aprile, l’attentato con autobomba all’ingresso di Camp Chapman, nella provincia orientale di Khost.

Con queste tre azioni condotte nell’ultimo mese i talebani hanno certificato la loro costante ascesa in Afghanistan. All’ombra dei tentativi dello Stato Islamico di dare concretezza al progetto dell’emirato islamico del Khorasan (ISIS Wilayat Khorasan), l’organizzazione oggi guidata dal mullah Haibatullah Akhundzada sta continuando a recuperare terreno. Secondo una stima degli Stati Uniti datata novembre 2016, allo stato attuale il governo di Kabul controlla in modo pressoché totale solo il 57% del paese rispetto al 72% del 2015. È il massimo livello di espansione territoriale dei talebani dall’arrivo delle truppe americane nel 2001.

La mattanza di Mazar-e Sharif non poteva non avere conseguenze sui vertici della Difesa afghana. La vergogna del massacro, compiuto da un gruppo di insorti che hanno potuto colpire indisturbati perché indossavano uniformi delle forze armate afghane, ha portato alle dimissioni del ministro della Difesa, Abdullah Habibi, e del capo dello stato maggiore dell’esercito, Qadam Shah Shaheem.

La strategia di Trump in Afghanistan
L’ufficializzazione del loro passo indietro è arrivata ieri nelle stesse ore in cui a Kabul è atterrato Jim Mattis (nella foto in apertura), segretario della Difesa americano, al termine di un tour di visite che negli ultimi giorni lo aveva portato in Arabia Saudita, Egitto, Israele, Qatar e Gibuti.

 

Il suo arrivo nella capitale afghana nel momento di massima difficoltà del fragile governo del presidente Ashraf Ghani non è casuale. Dopo mesi di silenzio, gli USA sembrano infatti intenzionati a riprendere seriamente in mano il dossier afghano. Mattis ha pertanto voluto avere rassicurazioni di persona sulle prossime figure che assumeranno gli incarichi di ministro della Difesa e di capo di stato maggiore dell’esercito afghano. Mentre nel faccia a faccia con il capo del comando USFOR-A (U.S. Forces-Afghanistan), il generale John Campbell, ha valutato la gamma di opzioni che presenterà a Trump al suo ritorno a Washington.

Allo stato attuale sono circa 8.400 i soldati americani in Afghanistan, di cui circa 6.400 impiegati nell’ambito della missione NATO Resolute Support, iniziata il primo gennaio del 2015 in sostituzione della missione ISAF (International Security Assistance Force).

Dopo settimane di apparente immobilismo, Trump ha iniziato a muovere qualche pedina in Afghanistan, ben prima del lancio della bomba Gbu-43/B MOAB (Massime Ordnance Air Blast, conosciuta come la “madre di tutte le bombe”) nella provincia di Nangahar, al confine con il Pakistan, con cui sono stati eliminati oltre 90 miliziani jihadisti dello Stato Islamico e distrutta una fitta rete di tunnel. Da mesi, infatti, la CIA ha avviato una nuova campagna di attacchi con droni in tutto il paese. Alla fine di febbraio, in un raid nella provincia di Kunduz nel nord dell’Afghanistan è stato ucciso il mullah Abdul Salaam Akhund, tra i principali capi militari dell’organizzazione. Altre offensive aeree sono state lanciate a marzo nel centro e nel sud-est e nel mirino sono finiti in particolare elementi di spicco degli Haqqani.

In parallelo Trump ha dato ordine sia a Mattis che al capo del consiglio di sicurezza nazionale Herbert R. McMaster di far rientrare Washington nei negoziati che contano in corso tra l’Afghanistan e il Pakistan, in cui a parlarsi sono i potenti servizi segreti pakistani dell’ISI (Inter-Services Intelligence), la leadership talebana, la Russia e l’Iran. Mosca e Teheran sono le due potenze che più di altre hanno sfruttato i vuoti lasciati in Afghanistan dall’exit strategy americana, annunciata anni fa da Barack Obama ma nei fatti lasciata a metà. Adesso Trump punta a colmare quei vuoti facendo pressione soprattutto sulla Russia. Non a caso Mattis nella sua visita a Kabul ha alzato il tiro contro il Cremlino e nell’incontro avuto con lui John Nicholson, comandante di Resolute Support, ha dichiarato che non ci sono dubbi che in questi anni i talebani abbiano ricevuto armi proprio dalla Russia.

Il ruolo dell’Italia

Le prossime mosse degli USA in Afghanistan interessano direttamente anche l’Italia. Il nostro paese è infatti tra i più esposti sul piano militare nella guerra contro i talebani con circa 1.037 militari, suddivisi tra Kabul ed Herat (900 unità), che svolgono compiti di addestramento, consulenza e assistenza delle forze armate afghane. Gli USA considerano l’Italia «un alleato chiave nella lotta al terrorismo» come detto da Trump nell’incontro avuto con il premier Paolo Gentiloni alla Casa Bianca lo scorso 20 aprile.

Sul destino dell’impegno italiano in Afghanistan indiscrezioni sono riprese a rincorrersi lo scorso 9 febbraio, dopo che il generale John Nicholson, comandante di Resolute Support, parlando di fronte alla commissione Forze armate del Senato americano aveva parlato della necessità di ricevere «diverse migliaia di soldati» dai paesi alleati per eliminare definitivamente la minaccia talebana.

Dopo aver accettato di prolungare la permanenza dei nostri contingenti in Afghanistan fino al 31 dicembre 2016, a seguito della richiesta rivolta da Obama all’ex premier Matteo Renzi, adesso all’Italia potrebbe essere chiesto un nuovo sforzo. Al netto dell’importanza strategica di questo scacchiere e della centralità dell’alleanza con gli Stati Uniti, la domanda che tutti tornano a porsi è sempre la stessa: la stabilizzazione dell’Afghanistan rappresenta davvero una priorità per l’Italia? O ci sono altre aree, come il Mediterraneo, che meriterebbero non solo un nostro impegno maggiore ma anche un contributo più significativo e determinato da parte dei nostri alleati?

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