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Intervista «Io, regista donna in Afghanistan, il Paese dove la cultura non conta nulla»

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L’Espresso – Marco Consoli – 30 maggio 2016

imageIntervista:

“Mi arrabbio quando guardo i film che parlano del mio Paese, l’Afghanistan, e non importa che siano girati da registi stranieri o da miei connazionali, perché il modo in cui viene dipinto, con i cliché sulla guerra o i talebani, è completamente diverso da quello che ho sperimentato io”.

Così Shahrbanoo Sadat, 26 anni, spiega i motivi che l’hanno spinta a realizzare “Wolf and Sheep”, il suo primo lungometraggio presentato alla Quinzaine al festival di Cannes, e in cui si racconta la vita in un villaggio di pastori sperduto tra le montagne afghane: a condurre le pecore al pascolo sono i ragazzini, divisi rigorosamente tra maschi e femmine, e mentre i primi sono impegnati ad imparare l’arte di costruire e usare la fionda per difendere il gregge dai possibili assalti dei lupi, le seconde passano il tempo a scambiarsi pettegolezzi.

Alcuni di questi riguardano una bambina, Sediqa, che viene segretamente dileggiata perché apparentemente maledetta, anche se un maschio, Qodrat, sarà abbastanza coraggioso da avvicinarla durante la lunga e noiosa attività del pascolo.

“Questa storia ricorda esattamente la mia”, spiega Sadat, “perché anche io sono arrivata in Afghanistan in un paesino molto simile a quello raccontato nel film dall’Iran, dove i miei genitori si erano rifugiati, prima di decidere di ritornare a casa dopo gli attentati dell’11 settembre. In Iran ci trattavano come in America trattano i “negri”, col massimo disprezzo possibile e così siamo scappati. Ma comunque per me, che ero abituata a vivere nella città di Teheran, è stato uno shock trasferirmi bambina nel mezzo del nulla: all’improvviso non avevo più elettricità, acqua corrente e tutto il resto, e oltretutto non parlavo quel particolare dialetto della zona.

Mi sono sentita molto sola, ma ho cercato di fermarmi a guardare cosa accadeva intorno a me, per tentare di capire. Il mio film cerca di recuperare un’immagine dell’Afghanistan che si basa più sull’osservazione che sul commento realizzato facendo ricerche su Google e costruendo storie basandosi sulle notizie di cronaca del momento”.

Questo vuol dire che non le considera rilevanti?

Non voglio né posso dire che il mio Paese non sia dilaniato dai conflitti, ma spesso quando guardo uno di questi film trovo che ci sia una mancanza di verità, per esempio nel modo in cui la gente si esprime o viene rappresentata.

 

Quanto le pesa essere l’unica regista donna del cinema afghano?

Le donne nel mio Paese sono totalmente invisibili, ma il problema dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo non è una questione che va affrontata solo nel mio Paese. Certo per i media è facile dipingere l’Afghanistan come un posto così distante dal mondo occidentale perché le donne indossano il burqa, ma anche questo è un cliché: anche io indosso il burqa, se viaggio da Kabul verso il villaggio dove abitano i miei genitori, ma il problema non è nel vestiario, in una sciarpa, ma nel fatto di sentirsi liberi nella testa e di poter dire ciò che si vuole.

Lei si sente libera?

Il fatto che sia riuscita a girare il film e che rimanga nel mio Paese dimostra che lo sono. Finanziare una pellicola è una sfida in qualsiasi parte del mondo, ma in una nazione come l’Afghanistan dove non ci sono sale cinematografiche, è ancora più arduo e questo riguarda uomini e donne. Semmai il problema è un altro…

Quale?

Che la maggior parte dei registi, anche afghani, preferisce raccontare storie che coincidono con l’idea preconcetta che la gente ha del mio Paese. E così facendo si alimentano i cliché e si riduce lo spazio per chi vuole raccontare altro. Qualcuno coinvolto nel finanziamento del mio film mi ha chiesto: dov’è la descrizione dell’Afghanistan nel tuo film? Mi fa così male pensare che siamo intrappolati in questa rappresentazione: siamo un Paese ricco di storie che rischiano di non essere mai raccontate.

Lei ha deciso di rimanere a Kabul. Qual è la situazione?

A Kabul abbiamo diverse esplosioni ogni giorno, almeno quattro o cinque simili a quelle accadute a Parigi: ma chi ne parla? I media sono annoiati di questa tragica routine. E il numero di persone che vengono ferite e uccise è enorme, e tutti siamo in pericolo. E molte persone, non solo filmmaker, sono fuggite, perché dopo le elezioni del 2014, sapendo che le forze militari internazionali avrebbero iniziato a lasciare il Paese, molti hanno perso la speranza. Io sono rimasta chiusa in casa per 10 mesi, perché è stato un periodo terribile.

Avete incontrato difficoltà nel girare il film?

Avrei voluto girare nel mio villaggio, ma non è stato possibile perché non potevo garantire la sicurezza della troupe internazionale, così ci siamo dovuti trasferire in Tagikistan, tra montagne che assomigliavano a quelle tra cui sono cresciuta. Anche se gli attori provengono tutti dal mio villaggio.

Come sono cambiate le cose lì rispetto a quando lei era bambina?

All’epoca si viveva del tutto isolati, si sapeva poco anche della guerra, ma poi dopo l’arrivo delle truppe internazionali sono arrivati anche le comodità, la tv, i telefoni cellulari e le persone hanno iniziato ad essere informate. Ma non è cambiato nulla, non solo per loro, ma per gli afghani in genere. Ovviamente se vai a Kabul tutti parlano di politica, ma quello che accade non li tocca: le notizie gli entrano da un orecchio e gli escono dall’altro. Fondamentalmente non pensano, discutono e non agiscono. Le persone se non sono fisicamente in pericolo non agiscono. Per me la società afghana è come uno stupido gregge di pecore che segue il pastore e i nostri leader approfittano di questo.

Crede nel processo di pace che è stato più volte promesso?

Il nostro Paese è corrotto, non credo nei nostri governanti, che non fanno che abbindolare le persone con un mucchio di stronzate: è solo un circo e non ci credo. Credo solo nei giovani che hanno la voglia di cambiare le cose, come spero di fare io attraverso i miei film.

Ha paura ad esporsi con queste dichiarazioni?

No, io non conto niente, il cinema e la cultura non contano nulla nel mio Paese. E io penso ogni giorno di andarmene, ma resisto. Perché odio l’Afghanistan, eppure lo amo profondamente.

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