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FRONTIERE CHIUSE E DIRITTI VIOLATI PER GLI AFGANI.

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Ghigliottina.it – di Angela Caporale – 2 marzo 2016.

La tensioni al confine greco-macedone colpiscono per primi gli afgani, cui viene sbarrata la porta dell’Europa. Tuttavia, la situazione in Afghanistan non è sicura e il flusso di migranti è in costante crescita.

Marianna Karakoulaki è una giornalista freelance greca che, da più di un anno, si occupa di immigrazione a Idomeni, il piccolissimo villaggio di confine tra Grecia e Macedonia salito agli onori delle cronache poiché è l’unico passaggio che collega i due paesi sulla rotta balcanica percorsa incessantemente dai migranti. Karakoulaki da giorni racconta su Twitter ciò che sta accadendo dopo che l’Austria ha deciso di ridurre il numero di richiedenti asilo che è disposta ad accogliere.

Se già prima si stava configurando una distinzione di fatto tra richiedenti asilo di varie nazionalità – giuridicamente infondata – oggi la situazione è precipitata. La polizia macedone ha chiuso la porta, migliaia di persone sono bloccate in campi fatiscenti, gli scontri con le forze dell’ordine sono ormai giornalieri e vedono l’utilizzo anche di lacrimogeni per respingere i migranti.

All’origine di questa crisi nella crisi, la decisione congiunta delle polizie di Austria, Croazia, Macedonia, Slovenia e Serbia: esse lavoreranno insieme per identificare i migranti nel campo di Gevgelija per poi organizzare insieme il trasporto direttamente verso il confine austriaco, che sarà valicabile soltanto per 3.200 persone al giorno provenienti da “paesi in guerra”. La prima conseguenza è stata la chiusura delle frontiere per gli afgani.

 

Tuttavia è lecito considerare l’Afghanistan un paese sicuro? Fermo restando che il diritto di asilo appartiene a ciascuno in quanto essere umano e che uno stato non può deliberatamente privarne la titolarità ad un gruppo sulla base della nazionalità – echeggia in queste parole il concetto di discriminazione -, Goran Bilic, responsabile del team di Save the Children per la risposta all’emergenza nell’area balcanica, ha dichiarato a MeltingPot che “Siamo molto preoccupati per le recente decisione dell’Europa di chiudere le proprie porte ai rifugiati afgani, specialmente in questo periodo in cui il numero delle vittime civili in Afghanistan ha raggiunto livelli altissimi. Nel solo 2015 un quarto dei civili che hanno perso la vita nel conflitto erano bambini”. Secondo dati diffusi dalle Nazioni Unite, inoltre, nel 2015 le violenze interne al paese sono cresciute del 4% rispetto all’anno precedente e hanno causato danni diretti a circa 11.000 civili, dei quali 7.547 feriti e 3.545 morti.

Soltanto la scorsa settimana un doppio attacco suicida rivendicato da gruppi talebani, ha colpito la città di Asadabad, uccidendo una decina di persone – soprattutto bambini che giocavano al parco – , e la capitale, Kabul. Secondo quanto riportato dal New York Times, i Talebani hanno conquistato una parte del territorio afgano superiore a quello controllato nel 2001. La stessa missione dell’ONU per l’assistenza nel paese ha richiesto lo smantellamento di tre uffici regionali per ragioni di sicurezza. Basti poi pensare alle oltre 120.000 persone (fonte UNHCR) che hanno lasciato l’area di Kunduz, dove un bombardamento statunitense lo scorso ottobre ha colpito e distrutto un ospedale di Medici Senza Frontiere.

Nel 2015, gli afgani hanno rappresentato il 14% degli arrivi via mare in Europa. Più di 170.000 di essi hanno presentato domanda di asilo o protezione internazionale, una cifra altissima se comparata non solo al 2012 (30.405), ma anche al 2003 (13.705). Le domande ricevute in Italia sono 3.570, distribuite in maniera omogenea in tutto il paese, non ci sono però dati riguardanti le risposte che le Commissioni territoriali hanno fornito in questi casi. Susanna Svaluto Moreolo, volontaria dell’associazione Ospiti in Arrivo particolarmente attiva in Friuli Venezia Giulia, spiega che, in generale, il tasso di dinieghi è piuttosto basso e che quasi a tutti richiedenti asilo afgani viene riconosciuta una forma di tutela.

La condizione di insicurezza che molti governi europei vorrebbero ignorare è, tuttavia, parzialmente conseguenza un approccio quasi esclusivamente militare al problema di uno Stato fallito che non può che creare uno Stato militare come soluzione. Ecco allora che l’economia, le politiche sociali, i diritti umani finiscono in fondo alla lista delle priorità di policy-making. Il mantenimento della sicurezza è l’obiettivo primario, ma la crescita del numero degli attacchi e delle vittime civili dimostra che siamo ancora lontani da una soluzione stabile. E finché le persone rischieranno di morire, non resta loro altra soluzione che cercare una qualche forma di tutela altrove. L’Europa chiuderà gli occhi ancora una volta?

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