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Afghanistan, papaveri e oppio.

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The Bottom UP di Angela Caporale – 21 luglio 2016

oppio afghanistan 1“Sono partito per l’Afghanistan nel 2003, lavoravo come giornalista per Emergency e mi aspettavo di raccontare la vita in un paese martoriato da decenni di guerre. Mai avrei immaginato che i miei dieci anni di viaggi, mi portassero ad occuparmi di oppio, eroina e coltivazioni di papaveri”.

Questa è invece la realtà che ha incontrato nella regione di Helmand Enrico Piovesana, giornalista e scrittore, autore del libro Afghanistan 2001-2016: la nuova guerra dell’Oppio (Arianna Edizioni). La regione, nel sud del paese, non lontana dal confine con il Pakistan è, a tutti gli effetti, la capitale mondiale dell’Oppio: produzione, commercio, consumo coinvolgono in maniera trasversale l’intera popolazione.

Fino al 2001 la coltivazione era proibita su editto del Mullah Omar, tuttavia l’incertezza politica e l’instabilità nell’area hanno fatto sì che l’attività riprendesse floridamente, tanto che la regione è diventata un campo di battaglia per la conquista del potere su più livelli. “Tutti hanno a che fare con l’oppio – racconta Piovesana – e questo coinvolgimento è vissuto come una cosa normale”. Gli attori sul campo sono molti: la NATO, presente nell’area con contingenti prevalentemente statunitensi, britannici e canadesi, il governo, l’ex Presidente Karzai, i potenti locali, i clan con le loro milizie private, i Talebani, la DEA e le altre agenzie anti-droga internazionali.

L’obiettivo comune e conteso è la supremazia nel controllo del commercio, il cui valore ha raggiunto i 3 miliardi di dollari nel 2013, contro i 2 miliardi di dollari del 2012. Secondo un rapporto del Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, riportato da Jason Koebler su Motherboard, a fronte di un investimento USA di 7,6 miliardi di dollari per debellare la coltivazione di papaveri, il terreno utilizzato per l’attività è cresciuto dai 193.000 ettari del 2007 ai 209.000 ettari del 2013. Per immaginare come queste cifre si traducano in guadagni effettivi, basti considerare che ogni ettaro di terra coltivato a papaveri frutta al contadino 200 dollari ogni 18 kg di oppio. Un kg di fagioli, coltura alternativa ai papaveri, frutta al contadino un dollaro.

 

Nel 2014, l’Afghanistan ha prodotto il 90 per cento del fabbisogno di “oppiacei illeciti al mondo” (UN Office on drugs). Le avverse condizioni climatiche hanno fatto registrare un calo del 19% nel 2015, ma per l’anno in corso le previsioni prospettano un ulteriore aumento del 50%. Si tratta di un business che, secondo quanto denunciano le istituzioni internazionali, va a finanziare principalmente i Talebani che, da anni, controllano la regione di Helmand. Il sistema si regge su una fitta rete di scambi, tasse e mazzette che assicurano ai contadini la sicurezza del raccolto. Tuttavia non sono rari i casi di ripercussioni e sequestri da parte delle autorità governative o taliban. “Vengono colpiti soprattutto – spiega Piovesana – quelli che non hanno pagato la ‘decima’ al Governo. Ciò accade, solitamente, per due ragioni: c’è chi non ha soldi per pagarla e chi si trova a vivere in zone controllate dai Talebani e quindi è a loro che va la tassa”. Il risultato è un clima di guerriglia costante per il controllo economico della produzione dell’area.

“Ciò che, anche oggi a ripensarci, mi stupisce – racconta ancora Enrico Piovesana presentando il suo libro – è come tutto ciò accadesse alla luce del sole. Anche nei mercati, nessuno si stupiva della presenza di bianchi. Un dettaglio che mi ha fatto pensare che i militari dei vari contingenti dislocati nella zona fossero presenze abituali”. I tentativi di indagine del giornalista si sono scontrati con il silenzio. Antonio Maria Costa, responsabile per l’ONU delle questioni legate alla lotta al traffico di droga, Yuri Fedotov, Executive Director of the United Nations Office on Drugs and Crime, Fabio Mini, comandante della missione Nato in Kosovo concordano, secondo quanto riportato dal giornalista: tutti sanno, ma non si può dire nulla, la questione è troppo delicata.
A farne le spese sono, ancora una volta, i civili. Gli stessi che, dopo anni di guerra e violenza, cercano ogni giorno di ricostruire. I soldi degli Stati Uniti per bruciare i campi di papaveri sono finiti da un pezzo e le nuove tecnologie rendono l’agricoltura più semplice anche in luoghi meno accessibili. La priorità del governo, strutturalmente debole più ci si allontana da Kabul, resta assicurare la sicurezza interna al Paese. Un obiettivo per il quale vengono sacrificati molti altri fattori fondamentali a garantire uno state building efficace: stato sociale, lotta a criminalità e corruzione, diritti umani sono scesi nell’agenda politica lasciando un grande vuoto in cima dove logiche da realpolitik fanno da padrone. Non stupisce allora la crescita del commercio di oppio ed eroina e il ruolo fondamentale che, di fatto, questo si è ritagliato anche nella vita quotidiana degli afgani.

È l’ennesimo fallimento di una strategia internazionale, guidata dagli Stati Uniti, che non va a colpire né il terrorismo (sono in molti, al contrario, a temere che una situazione speculare a quello afgana emergerà in Siria), né il traffico di droga. Del resto, come racconta Muhammad Nabi – uno degli anziani di un clan di Marja: “Se l’anno prossimo loro [il governo e i suoi alleati] ci offriranno sicurezza, programmi di ricostruzione e di lavoro, allora noi garantiremo loro che non coltiveremo più papaveri.”

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