Ubaid (Solidarity Party) “L’unione del popolo afghano può garantire un futuro contro il governo del terrore”
Enrico Campofreda – 19 ottobre 2015 – dal suo Blog
Obama ha ordinato ai reparti americani di restare in Afghanistan per tutto il 2016. Cosa ne pensa il vostro partito?
Siamo coscienti che gli americani resteranno sulla nostra terra, hanno interessi geostrategici ed economici. Basti pensare che le nuove basi sorgono in aree che loro hanno affittato da privati o dallo Stato per novant’anni. Se dovesse andar male le prossime tre-quattro generazioni di miei compatrioti dovranno fare i conti con questo panorama.
Qual è la valutazione che Hambastagi dà dell’anno di presidenza Ghani cogestita con Adbullah?
Nonostante Kerry (il Segretario di Stato Usa che s’è speso per questa soluzione, ndr) lo definisca un governo di unità nazionale, l’attuale è un governo fantoccio, come i due precedenti di Karzai. Non può privarsi del sostegno finanziario e militare occidentale. Noi lo definiamo “governo del terrore” perché negli ultimi mesi la situazione della sicurezza è peggiorata con lo stillicidio di attentati, la crescente aggressività talebana cui s’aggiunge quella dell’Isis. L’economia è inesistente, la povertà aumenta e soprattutto i giovani non vedono futuro. A loro diciamo: uniamoci per inseguire un programma di pace e democrazia.
Ma unirsi a chi?
C’è poco all’orizzonte. Per un progetto comune si devono rispettare almeno tre obiettivi: opporsi all’occupazione straniera, lottare contro il fondamentalismo politico e religioso, ottenere diritti. So che nel contesto afghano questa sembra una folle utopia, eppure la nostra piccola esperienza è indicativa. Il partito Hambastagi è sorto undici anni fa per iniziativa di attivisti rivoluzionari e intellettuali. Eravamo in seicento concentrati a Kabul e Jalalabad. Pochi, pochissimi. Oggi contiamo trentamila militanti presenti in venti province. Riusciamo a organizzare manifestazioni contro l’occupazione cui, nonostante il timore di attentati, partecipano migliaia di persone. L’informazione che forniamo sul web è seguitissima, risultiamo 16^ di una graduatoria afghana ma ci precedono solo i grossi motori di ricerca come Google, Yahoo, You Tube oppure social network alla Facebook. Sono fiducioso.
I talebani sono più presenti di voi, operano in 24 delle 34 province del Paese
Sì, anzi ultimamente in venticinque. S’allargano sempre più e rappresentano l’altra proposta rivolta ai giovani. Gli chiedono di combattere al loro fianco per una società tradizionale e confessionale. Ecco, l’odierno Afghanistan è di fronte a questo bivio: accettare passivamente l’occupazione e lo sfruttamento occidentali o finire fra le braccia dell’insorgenza talebana. Noi diciamo di cercare un’alternativa laica e democratica a entrambi questi progetti disfattisti.
Temete più i talib dissidenti del Khorasan che guardano al Daesh, oppure il gruppo storico ora gestito da Mansour o ancora i vecchi fondamentalisti come Sayyaf ed Hekmatyar?
Sono tutti pericolosi nella loro essenza fondamentalista. Magari possono risultare differenti alcuni metodi più o meno efferati con cui seviziano le vittime, penso alle decapitazioni attuate dai miliziani del Daesh che mentre sgozzano filmano i loro crimini. Di recente ci sono stati allentamenti sul comportamento oppressivo rivolto alle donne che talvolta vengono lasciate circolare anche da sole (nell’ultimo biennio lo stesso governo dava ampio spazio a costumi restrittivi, ndr). Si tratta comunque di mosse create ad arte per illudere la popolazione sulla bontà dell’attuale approccio fondamentalista. Sayyaf ed Hekmatyar rappresentano un’enorme minaccia non per l’intera regione. Tanti degli attuali miliziani dell’Isis, dentro e fuori l’Afghanistan, provengono da esperienze fatte coi due signori della guerra e i loro partiti (Islamic Party, Hezbi-e Islami, ndr). Ora anche il Daesh è presente nella nostra vita quotidiana: il governatore della provincia di Ghazni ha acconsentito che l’Isis aprisse un ufficio nella zona per fare proselitismo. Da Kabul non sono sopraggiunte reazioni.
Parlando di politica del terrore, cosa ci dite di gruppi paramilitari come i Marg, di cui s’è scritto nei mesi scorsi?
Fortunatamente non li ho visti in azione, ne ho sentito parlare. Sono elementi ben addestrati che lanciano attacchi all’Isis e anche alle forze talebane. Marg in persiano significa morte, e costoro non fanno sconti ai nemici. Chi sia a finanziarli non è chiaro, quando le cose sfumano in genere ci son dietro le Intelligence, se pakistana o d’altra sponda non mi sento di dirlo.
Sicurezza, economia, giustizia, diritti: le promesse tradite delle missioni Nato; quali settori sono maggiormente mascherati e manipolati dalla politica e dall’informazione locali?
Tutti i settori elencati sono peggiorati negli ultimi anni: continuiamo a subire occupazione, oppressione e morte, i talebani sono presenti in 25 province e creano enormi problemi di sicurezza, la corruzione è una piaga endemica cui contribuisce la politica occidentale che offre patenti democratiche ai gaglioffi che ci governano, abbiamo politici peggiori di quelli italiani (ride). Ma l’aspetto che viene maggiormente manipolato è la questione femminile, offerta ai media stranieri con un volto migliorativo e tranquillizzante, che invece è un falso assoluto. La vulgata afferma che da noi le donne possono lavorare e studiare. Bugie. La realtà è quella apparsa nella vicenda di Farkhunda, massacrata in strada per tre ore di seguito senza che nessuno la difendesse.
L’emancipazione politica afghana è bloccata più dalla presenza militare statunitense o dal business del sottosuolo cinese e occidentale?
L’occupazione americana è l’ostacolo maggiore; nonostante dicano di offrire un fondamentale contributo al nostro domani, gli Stati Uniti non hanno mai creato alcun servizio. Non costruiscono strade, né case, né dighe, né ospedali, e distruggono quelli realizzati da altri, com’è accaduto alla struttura di Medici senza frontiere. Non conosciamo fabbriche né università create da Usa e Unione Europea, i cui politici visitano i propri militari e le leadership locali. Hanno costruito e reso operativo solo quello di cui hanno bisogno: basi aeree per controllare e bombardare.
I vostri campi d’azione – con la preziosa attività rivolta alla gente tramite scuole, orfanotrofi, rifugi – si sono ristretti. Il rapporto con la popolazione ne risente?
Sì, purtroppo la crescente situazione di conflitto limita parte del lavoro sociale, per motivi di sicurezza. Ma, come ho detto, i riscontri organizzativi del partito sono lusinghieri, ormai veniamo ben identificati dalla gente. Anche i media prestano attenzione alle nostre iniziative, non parlano più di generiche proteste di cittadini, citano la nostra organizzazione. Ci viene anche richiesta una presenza nei dibattiti televisivi, perché su taluni problemi non si può ignorare il lavoro che facciamo. Ci auguriamo di poter continuare.
Siete impegnati contro l’imperialismo statunitense, siete solidali coi kurdi di Kobanê per l’affermazione d’una nuova soggettività politica basata sull’autodeterminazione, ma qualcuno vi accusa d’essere anticomunisti. Come rispondete?
E’ strano ascoltare questo. Il governo afghano, i fondamentalisti, i militari Nato ci chiamano comunisti. Certo noi non ci definiamo tali, ci collochiamo in un’area democratico-progressista. Se un giorno ci accorgeremo che il riferimento ideologico marxista può adattarsi alla lotta e agli obiettivi che ci poniamo, potremo inserire questo termine nel programma. Sicuramente non ci consideriamo anticomunisti, è la prima volta che lo sento in Europa! I contatti internazionali con la sinistra europea (Die Linke, l’italiano Sel, comunisti olandesi e svedesi) ci fanno bollare come sovversivi. Gli unici ad aver usato quest’espressione sono dei fuoriusciti afghani risiedenti in Canada che ci accusano di opportunismo. A loro diciamo di venire a lavorare politicamente in Afghanistan anziché esprimersi sui computer a migliaia di chilometri di distanza.
Ma i partiti della sinistra vi offrono qualche sostegno?
Economico no. Questo lo riceviamo solo da talune Ong di vero volontariato. Otteniamo solidarietà politica, che in alcuni casi può risultare utilissima. Quando nel 2012 Karzai aveva bloccato la nostra registrazione come forza politica, tutte le lettere di protesta inviate a lui e all’Onu da varie organizzazioni (della sinistra e comuniste) tedesche, spagnole, italiane, pakistane sono servite per farlo recedere dall’iniziativa. Anche questo è un aiuto alla nostra causa.
Ahmed Ubaid, è nato a Kabul 32 anni fa. Durante il periodo della guerra civile afghana è riparato coi familiari in Pakistan. Ha trascorso alcuni anni nel campo profughi di Peshawar. Rientrato nel suo Paese dopo il governo talebano s’è dovuto misurare con l’occupazione occidentale. Ha lavorato a lungo con Hawca, ong afghana impegnata nella creazione di rifugi per donne violentate e maltrattate, diventandone vicepresidente. Da due anni ha abbracciato ufficialmente la politica entrando nel direttivo del Partito della Solidarietà, di cui è membro. Per quest’impegno pubblico nel 2014 è stato anche arrestato dall’allora amministrazione Karzai.
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