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Turchia al voto sull’orlo della guerra civile.

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CORE Circuiti Organizzati Resistenze Editoriali – Glocal – pubblicato da Fabio Ferrari – 31 ottobre 2015

A Roma manifestazione in solidarietà con il popolo curdo, per la pace in Turchia e in Siria, dalle ore 15 in Piazza dell’Esquilino.

Le elezioni di domenica 1° novembre saranno un importantissimo passaggio nella storia della Turchia democratica. Dai risultati dell’imminente tornata elettorale scaturiranno conseguenze irreversibili sugli equilibri politici interni del paese, i cui effetti sono destinati a produrre anche profondi riflessi sul futuro dai paesi ai confini di Ankara, in Siria prima di tutto.

Che la posta in gioco sia altissima, lo testimoniano le tante mobilitazioni internazionali in favore della pace. La manifestazione romana di oggi, convocata con un appello alla pace e alla democrazia in Turchia e in Siria, è l’ulteriore e non ultimo tassello di una lunga campagna di solidarietà con il popolo curdo a cui i movimenti, in Italia come in altri paesi d’Europa, hanno dato vita da ormai oltre un anno a questa parte.

Rojava Calling, nata con l’obiettivo di aiutare la ricostruzione di Kobane, è diventata un utile strumento per approfondire la conoscenza di una realtà politica esistente e resistente, da ormai oltre un biennio, in quella porzione del settentrione siriano abitato dai curdi altresì conosciuto come regione autonoma del Rojava.

 

In questo territorio è in costruzione un nuovo modello di società che, partendo dal superamento dello stato nazione, si vuole basato sui principi del comunitarismo e della partecipazione diretta alle decisioni politiche. Concetti espressi nel binomio del confederalismo democratico, un complesso di idee che, come anche raccontato dagli stessi protagonisti della sua realizzazione e difesa, in visita a Roma, non trova conforto in un modello teorico pre-confezionato ma che con determinazione vuole esprimere l’ambizione di cambiare la storia dell’uomo per creare un’umanità senza sfruttamento. E che in Rojava è già realtà.

Partendo da tali presupposti, “l’anomalia” curda costituirebbe un pericolo, soprattutto in una regione dove si vuole far trionfare il settarismo su base confessionale, destino verso cui sembrerebbe rovinosamente dirigersi la Siria. Ma la minaccia più forte la percepisce chi, come il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, vuole continuare a fondare il suo potere sull’identitarismo escludente del nazionalismo etnico turco.

Mentre i curdi seminavano pace e democrazia – cessate al fuoco unilaterale del Pkk nell’ultimo triennio e crescita di consensi, anche al di fuori della comunità curda, per il partito Hdp – al leader del Akp (il partito di governo) è bastato un anno per trasformare la Turchia da paese stabile in campo di battaglia. Dopo una colpevole indifferenza all’emergenza umanitaria causata dalla pulizia etnica dell’Isis nel nord della Siria, Erdogan ha fatto di tutto per ostacolare gli aiuti ai rifugiati.

Oltre a impedire la creazione di un corridoio umanitario con la martirizzata Kobane, rivendicazione ancora oggi presente nelle mobilitazioni internazionali solidali con il Kurdistan, Ankara ha di fatto permesso ai jihadisti di utilizzare il proprio territorio come retrovia, rendendo loro permeabile l’esteso confine che la separa a sud con la Siria.

Un comportamento di basso profilo che però ha subito, dopo le elezioni dello scorso 7 giugno, un’improvvisa accelerazione trascinando il paese in una spirale di violenza. Gli scrutini hanno infatti decretato la perdita, per la prima volta dopo 13 anni, della maggioranza assoluta sinora detenuta dall’Akp. La fine di un’epoca, contando anche l’ingresso di 80 deputati dell’Hdp e la fine della possibilità di riformare la Costituzione turca in senso presidenzialista, obiettivo strategico del sultano.

Per correre ai ripari Erdogan non ha esitato a convocare nuove elezioni e a dichiarare guerra all’Isis, cedendo una base aerea alla coalizione internazionale guidata dagli Usa per poi scatenare un’ondata di repressione principalmente diretta, però, contro i curdi.

Dallo scorso luglio, dopo un attentato presso il centro culturale di Soruç che ha visto morire oltre 30 militanti del partito socialista turco per mano di un kamikaze, è ripresa la guerra aperta conrtro il Pkk nell’est della paese. Oltre agli scontri con i guerriglieri l’esercito ha imposto duri coprifuoco e veri e propri assedi alla popolazione civile, cittadini e cittadine turche, in molte città curde (emblematica la vicenda di Cizre), provocando molti morti proprio tra i civili. Di fatto si sono interrotti i colloqui di pace segretamente portati avanti in questi anni con Abdullah Ocalan, leader del Pkk in carcere.

Lo scorso 10 ottobre, durante una manifestazione di protesta contro la guerra tra il governo e il Pkk, organizzata dall’Hdp, oltre 100 persone sono morte nel centro di Ankara a causa di due esplosioni. Questo attentato è più il grave della storia della Turchia.

Da ultimo, giovedì scorso la polizia ha occupato e di fatto chiuso le redazioni di due quotidiani dell’opposizione, esacerbando ulteriormente il già torrido clima pre- elettorale.

Per l’appuntamento con le urne si temono pesanti brogli, al punto che sono moltissime le delegazioni di osservatori internazionali giunte in tutto il paese. Il clima di violenza fomentato dal governo fa intendere che il 1° novembre ci si gioca il tutto per tutto e che dal risultato elettorale la Turchia potrà tornare ad essere un paese nuovamente democratico oppure uno stato avvitato in una vera e propria guerra civile.

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