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Shaheen, afghana: “per lavorare rischio la vita ogni giorno, ma non mollo”

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Repubblica.it – DI CHIARA DAINA – 4 giugno 2015

155554716 5cdeb7b0 0878 4cd1 bfdf 0ec2da934cf7Shaheen Poya ha 24 anni, è afghana e fa la giornalista freelance. Un mestiere quasi tabù per le donne del suo Paese. “Ogni mattina esco di casa e so che potrei morire” ci racconta spiegandoci le difficoltà che le donne vivono nel suo Paese e perché lei non si arrende.

“Ogni mattina esco di casa e so che potrei morire”. Shaheen Poya ha 24 anni, due occhi scuri come la notte e una coda di boccoli neri. La sentiamo su Skype. La sua voce vivace buca lo schermo del computer. È afghana, della provincia di Herat, e fa la giornalista freelance. Un mestiere quasi tabù per le donne del suo Paese, di cui l’87% è analfabeta, non ha diritti e rischia la pelle.

“Lungo la strada gli uomini ti possono derubare, rapire, violentare o sparare. Non ho paura, devo lottare, se sto ferma le cose non cambieranno mai”. Le parole di Shaheen si rincorrono veloci come la luce.
“Denuncio gli abusi sulle donne, quelle stuprate dai soldati, picchiate dai mariti, quelle che si bruciano le mani e il volto in segno di protesta. Entro in casa loro, le intervisto, giro dei video e fotografo le facce tumefatte”. Shaheen lavora per diverse organizzazioni umanitarie non governative.

Una di queste è Hawca (Humanitarian assistance for the women and children of Afghanistan), si occupa della difesa dei diritti delle donne e dei bambini. Un’altra si chiama Wisa (Women’s International solidarity Australia), nata in Australia, promuove l’emancipazione femminile in giro per il mondo.

Quando non è in casa o in ufficio, si infila un abito lungo fino ai piedi e si avvolge il chador alla testa. Almeno una volta al mese si sposta nella provincia di Kabul e di Farah, oltre alle città, visita i villaggi di campagna, i più pericolosi. Riceve minacce di continuo. “Da parte di sconosciuti, mi chiamano al telefono e mi dicono di smetterla di fare inchieste altrimenti mi ammazzano. Se rispondono i miei genitori lo ripetono anche a loro. Ma non mollo, non gliela do vinta, mi assumo il rischio di morire. La mia famiglia mi sostiene”.

Shaheen ha chiesto di entrare nella redazione di un giornale. Impossibile. “Assumono per lo più uomini, una o due donne al massimo. Se sgarri, ti licenziano subito. La stampa ha il bavaglio, non si può attaccare il governo, ultra corrotto, o i Talebani perché ti fanno saltare in aria”. Ha un account su Facebook.

 

“Non pubblico foto mie, se mi riconoscono mi fanno fuori”. Nell’album ci sono fotografie di combattenti curde che lottano per l’indipendenza della loro terra. “Voglio che siano un modello per le donne afghane”. Lei ce la sta mettendo tutta: “L’unico modo per raccontare la verità è come faccio io, tramite le ong”. In passato, durante l’università, per un paio di anni ha condotto due programmi alla radio dedicati alle donne. Nel primo spiegava come farsi rispettare tra le mura domestiche; nel secondo, con l’aiuto di medici e psicologi, affrontava i motivi che spingono le donne a darsi fuoco. “Soffrono e non si sfogano con nessuno. La radio è un mezzo diffuso, non serve saper leggere, può essere di aiuto”.

Shaheen sa di essere fortunata. Suo padre e sua madre le hanno permesso di andare a scuola e inseguire i suoi sogni. “Hanno una mentalità aperta, sono un’eccezione qui. Ho tre fratelli e quattro sorelle. Mia madre è casalinga, non sa leggere, né scrivere. Forse ha 50 anni, i miei nonni sono analfabeti e non l’hanno registrata alla nascita. Anche mio padre non sa quanti anni ha, forse 60. Lui ha studiato e insegna la storia dell’Afghanistan a domicilio, la guerra, le nostre radici, cosa possiamo fare per migliorare la situazione”. Sotto il potere talebano è scappata in Pakistan con la famiglia. Caduto il regime, è tornata indietro.

A Herat ha frequentato le superiori e l’università. Nel 2011 è stata selezionata insieme a cinque colleghi per un corso di formazione in Italia nell’ambito del progetto “Women to be”, voluto dall’Università Cattolica di Milano e quella di Herat. Un mese, tra Roma e Milano, nelle principali redazioni nazionali, per imparare a usare la telecamera e fare un reportage. “Nella nostra università non avevamo strumenti, facevamo solo lezioni teoriche”. Fariha Khorsand, una di loro, è dovuta fuggire in Germania durante la guerra. Non sa se riuscirà a fare la giornalista anche da lì, il tedesco per ora è una barriera.

Shaheen da poco ha preso la patente, ma guida solo in città perché nelle zone rurali, controllate dai talebani, è proibito. “Lì le donne indossano il burqa, escono di casa solo scortate dagli uomini, non mangiano e non bevono fuori, non possono gestire un negozio, anche l’estetista è un’attività a domicilio”. Le donne più libere vivono nei grandi centri: Herat, Kabul, Mazr-i Sharif, Kandahar, Jalallabad.

“Entro le sei del pomeriggio c’è il coprifuoco per noi. Di sera l’unica cosa che puoi fare è sederti davanti alla tv. Abbiamo più di 60 canali che mandano in onda film, talk show, musica”. Il sistema sanitario cade a pezzi e la gente, se può, va a farsi curare in Pakistan. “Anche se gli ospedali – dice – ti fanno pagare di più perché sei straniero e i medici non sono molto bravi. Mi hanno prescritto una cura ormonale sbagliata, ora mi tocca ritornarci”. Chi è povero, se va bene si affida alle ong, oppure “vende i figli malati ai ricchi per farli curare”.

La missione Isaf della Nato si è chiusa a dicembre. Ma sul territorio afghano rimarranno 13mila soldati, quasi tutti americani, per altri dieci anni. “Molte donne ci raccontano che di notte i soldati fanno irruzione negli appartamenti e le forzano a rapporti sessuali. Rubano l’argenteria, ori e oggetti preziosi. Tutti sanno queste cose ma nessuno interviene. I reati sono impuniti. Il governo di Ashraf Ghani protegge gli americani. Dobbiamo costruirci la democrazia da soli. Se non cresciamo noi per primi, nessuno potrà farlo al posto nostro”

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