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L’Afghanistan ieri e oggi. Un paese in cerca di pace.

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Oltremedia news – di di Giulia de Nardis – 23 settembre 2015

Afghanistan 473x300Gli episodi di feroce violenza che hanno costellato l’Afghanistan negli ultimi anni non sembrano prossimi ad una conclusione. Domenica scorsa nel distretto di Daman, nella regione di Kandahar, una macchina è stata fatta esplodere contro un checkpoint sorvegliato dalla polizia nazionale. L’attacco ha ferito una ventina di persone. Nella stessa giornata, nella provincia di Kunar, una bomba è esplosa accanto ad una stazione elettrica, ferendo almeno 16 civili.

L’annuncio della morte del leader dei Talebani Mullah Omar, nella scorsa estate, accompagnato dai nuovi orientamenti del Presidente della Repubblica Mohammad Ghani in materia di politica interna ed estera, contribuisce ad aprire nuovi scenari per il futuro del tormentato Paese. Per esaminarli, è utile ripercorrere brevemente le complesse vicende di cui Kabul è stata protagonista (e spesso, vittima) a partire dal secondo dopoguerra.

Nel 1933 l’Afghanistan è governato dalla monarchia di Zahir Shah, insediatosi al trono all’età di soli 19 anni. Coadiuvato dagli zii paterni nei primi decenni del suo regno, Zahir Shah tiene il Paese lontano dalla partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, cercando piuttosto di rafforzarne la posizione internazionale attraverso l’ingresso nella Società delle Nazioni.

Nei primi anni Quaranta riconosce la necessità di una modernizzazione della società, accogliendo foreign advisers e rafforzando i legami commerciali e culturali con l’Europa. Sotto il suo regno Kabul gode di una certa stabilità, e nonostante le sotterranee fazioni politiche avversarie, Zahir Shah può promulgare una nuova costituzione nel 1964; essa prevede una implementazione dei diritti delle donne (vietando l’utilizzo del burqa afgano), l’introduzione del suffragio universale, l’istituzione di un Parlamento e di libere elezioni, il principio della separazione dei poteri. Sembrano passi decisivi per la trasformazione dell’Afghanistan in un Paese democratico e più attento ai diritti civili dei suoi cittadini.

 

Tuttavia, nel 1973 la situazione inizia ad inasprirsi. Attraverso un incruento colpo di stato, infatti, il principe Mohammed Daoud (cugino del sovrano e più volte primo ministro del Paese) depone Zahir Shah, approfittando di un suo viaggio in Italia per motivi di salute. La leadership di Daoud alla guida della neonata repubblica afghana dura appena cinque anni.

Nel 1978 infatti, un secondo e violento colpo di stato rovescia il Presidente e pone al governo il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, di ispirazione marxista e sotto la leadership di Noor Mohammed Taraki. Taraki intende portare a termine una politica di riforme radicali sotto la protezione sovietica, inclusa una riforma del sistema di proprietà terriere di orientamento socialista che provoca forti malcontenti tra la popolazione locale.

Nel frattempo, il numero due del suo stesso partito, Hafizullah Amin, coltiva rapporti amichevoli con l’ambasciata statunitense a Kabul. Proprio l’ambigua figura di Amin è guardata con grande sospetto dal capo del KGB, Yuri Andropov, che teme una defezione del ministro afghano in favore di Washington. Lo scontro frontale tra Taraki ed Amin ha luogo nell’autunno del 1979, e si risolve con la morte del primo e la presa del potere da parte del secondo.

Questo rovesciamento di governo convince Mosca ad intervenire. L’obiettivo è riportare sotto il pieno controllo sovietico un Paese limitrofo che rischia di allontanarsi dall’area socialista; si tratta, del resto, di un Paese dall’importanza geopolitica non indifferente, essendo un territorio che collega l’Asia Centrale (e le sue ingenti risorse energetiche) alle regioni meridionali ed orientali del continente. Non è un caso che, già nel corso dell’Ottocento, l’attuale Afghanistan fosse stato al centro delle mire, da un lato, della stessa Russia, desiderosa di consolidare la sua presenza nel subcontinente asiatico; e dall’altro, della Gran Bretagna, interessata ad impedire che altre potenze potessero influenzare la vita politica e la stabilità di Paesi vicini, quali l’India e l’attuale Pakistan. Il risultato dell’invasione sovietica, che comincia a ridosso del Natale del 1979, è l’inizio di una serie di feroci conflitti da cui Kabul non è ancora uscita.

Per giustificare al pubblico internazionale l’ingresso nei confini afghani di un corpo di spedizione di 75.000 uomini (che sarebbero diventati 115.000 nel giro di pochi anni) Mosca fa riferimento ad una richiesta di aiuto lanciata da Babrak Karmal, esponente della corrente minoritaria del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan e che in quel momento si trova in esilio in Repubblica Ceca, protetto dall’U.R.S.S. . Questa debole giustificazione non è sufficiente ad evitare una pesante reazione internazionale. Washington, leader del blocco occidentale, non può tollerare un intervento armato sovietico in un Paese che, sebbene in orbita russa sin dalla presa del potere del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, è formalmente parte del Movimento dei Non Allineati dal 1961.

La reazione del Presidente americano Jimmy Carter, pertanto, non tarda ad arrivare: richiama l’ambasciatore in Unione Sovietica, Thomas J. Watson, per “consultazioni”; chiede al Senato di rinviare indefinitamente la ratifica del complesso trattato SALT II, relativo alla limitazione della costruzione di armi strategiche da parte delle due superpotenze; riduce le esportazioni di grano verso l’U.R.S.S.; annuncia che gli Stati Uniti non parteciperanno alle Olimpiadi di Mosca nell’estate del 1980 (accanto a loro, boicotteranno i Giochi altre 64 nazioni).

Questo riacutizzarsi della tensione tra Stati Uniti ed Unione Sovietica si riverbera sulla situazione afghana. L’aggressione straniera alimenta lo spirito nazionalista dei guerriglieri locali, che si organizzano in gruppi di resistenza regionali noti come mujahideen (dall’arabo mujāhidūn, “coloro che combattono per la jihad”). Questi gruppi sono dapprima suddivisi in vari settori, ognuno dei quali riconosce come proprio leader un diverso signore della guerra; a partire dai primi anni Ottanta, tuttavia, i sette gruppi più influenti e meglio equipaggiati iniziano a collaborare tra loro, sotto il nome di Unità Islamica dei Mujahideen dell’Afghanistan. Ciò avviene anche grazie alle pressioni di alcuni attori esterni, interessati, per ragioni diverse, a non concedere a Mosca una facile vittoria e ad impegnarla in una guerra logorante: il Pakistan, l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti.

La resistenza contro l’invasore sovietico, che di fatto impedirà all’Armata Rossa il controllo del Paese, presto richiama una consistente partecipazione da tutto il mondo musulmano, con volontari che si offrono come veri e propri combattenti o forniscono supporto logistico ed economico attraverso la frontiera con il Pakistan. Tra questi ultimi, un ruolo importante è svolto da un esponente di una facoltosa famiglia saudita, Osama bin Laden, che concede denaro ed armi attraverso un’associazione da lui fondata, Maktab al-Khidamat (nota semplicemente come MAK), primo esperimento di quella che diventerà al-Qaeda.

Nelle file dei mujahideen combatte anche un personaggio determinante per le sorti dell’Afghanistan nei successivi trent’anni: Mohammed Omar Mujahid, noto semplicemente come Mullah Omar. A differenza di Osama bin Laden, che si dedica prevalentemente al finanziamento ed al reclutamento di nuovi combattenti, il Mullah Omar partecipa attivamente ai combattimenti contro i sovietici. La sua personalità schiva e sfuggente ed un evidente segno di battaglia sul volto (la perdita dell’occhio destro) contribuiscono a circondarlo di un aurea di mistero.

Molte sono le incertezze sulla sua vita (a partire dalla data di nascita), e secondo alcune fonti (in primo luogo, secondo un suo celebre biografo, Bette Dam) dovrebbe considerarsi incerto anche l’effettivo ruolo di comando esercitato dal Mullah negli anni a venire. Resta il fatto che, nel corso del tempo, diventa una figura quasi leggendaria; Richard Hollbroke, inviato speciale degli Stati Uniti in Afghanistan durante l’operazione Enduring Freedom, lo definirà significativamente “the Ho Chi Min of the war”.

Ritiro sovietico e caos politico. L’occupazione dell’Afghanistan si rivela ben presto un grave errore per l’U.R.S.S., che perde in dieci anni circa 15.000 uomini e non riesce a risolvere in proprio favore gli aspri combattimenti. Nel maggio del 1986, i sovietici sostituiscono Babrak Karmal, che avevano posto alla guida del Partito Popolare Democratico dell’Afghanistan, con Mohammad Najibullah, che l’anno successivo diviene Presidente della Repubblica. Nonostante gli energici tentativi, Najibullah non riesce a recuperare il controllo del Paese. Le forze militari ufficiali afghane, che combattono al fianco dei sovietici contro i mujahideen, soffrono perdite e diserzioni, passando dalle 105.000 truppe del 1978 alle circa 25.000 unità del 1987.

In un clima sempre più esasperato, complice anche il difficile momento che l’U.R.S.S. attraversa e che presto la condurrà alla disgregazione, il Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico, Mikhail Gorbacev, non può che accettare il ritiro dei propri uomini. Nel febbraio del 1989 gli ultimi soldati russi lasciano il territorio afghano.

Si apre un nuovo periodo di violenze ed incertezza. Non trascorre molto tempo prima che le diverse fazioni di mujahideen entrino in conflitto tra loro, provocando tensioni inter-etniche e scontrandosi per il controllo del territorio. Queste divisioni tra i combattenti mujahideen permettono al Presidente filo-sovietico Najibullah di mantenersi alla guida del Paese per alcuni anni; tuttavia, il crollo dell’U.R.S.S. (che aveva continuato a sostenere economicamente il governo di Kabul) costringe il Presidente afghano, dietro pressioni interne ed internazionali, a rassegnare le proprie dimissioni.m Di fatto, nella prima metà degli anni Novanta, l’Afghanistan diviene uno Stato governato da decine di signori locali, che guidano proprie milizie e controllano porzioni più o meno ampie di territorio.

È in questo contesto che, nella provincia meridionale di Kandahar, emerge il movimento dei Talebani (dal persiano Ṭālebān, “studenti”). Si tratta di una fazione islamica ultra-conservatrice che gode di popolarità presso l’etnia Pashtun (gruppo etnico predominante in Afghanistan: circa 12 milioni di persone su una popolazione totale di circa 32 milioni) e di assistenza dall’estero (militare da parte del Pakistan, economica da parte di alcune famiglie saudite). Alla guida di questa fazione, che nel 1996 entra a Kabul ed instaura un proprio regime, l’enigmatico ed ormai celebre Mullah Omar.

Dal governo dei Talebani alla democrazia. Il nuovo governo afghano viene riconosciuto unicamente da tre Paesi della comunità internazionale: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed il vicino Pakistan. Numerose sono invece le condanne al fondamentalismo talebano, particolarmente lesivo dei diritti umani. Enorme risonanza ha, nel mondo occidentale, il drammatico aggravarsi della condizione delle donne: ad esse viene impedito non solo di utilizzare cosmetici, indossare tacchi alti, ridere ad alta voce, essere fotografate, usare bagni pubblici; ma persino di esercitare qualsiasi professione (ad esclusione di dottoresse ed infermiere) o di poter frequentare scuole ed istituti educativi di qualsiasi natura[1]. Grande clamore suscita anche la distruzione di opere d’arte pre-islamiche, in particolare quelle rappresentative di figure umane (vietate, secondo una esegesi sunnita del Corano richiamata dai Talebani); si pensi alle due statue del Budda di Bamiyan, scolpite tra il 507 d.C.ed il 554 d.C. e fatte esplodere nel Marzo del 2001.

Infine, una energica condanna internazionale al regime talebano arriva nella seconda metà del 2001, quando, a seguito degli attacchi terroristici portati a termine da membri di al-Qaeda in territorio statunitense, il governo di Kabul rifiuta l’estradizione di Osama bin Laden (che si era stabilito tra Jalalabad e Kandahar dal 1996) in assenza di prove di un suo coinvolgimento negli attentati. L’occasione non sfugge al Presidente americano G.W. Bush, desideroso di tradurre in azione i suoi progetti di politica estera, basata essenzialmente su un hard power[2] (eventualmente unilaterale e preventivo) contro qualsiasi Paese che possa costituire una minaccia, anche meramente potenziale, alla sicurezza degli Stati Uniti. Il 7 ottobre le forze statunitensi, con l’appoggio britannico, entrano in azione, dando avvio alla controversa operazione Enduring Freedom.

Per la seconda volta in appena un ventennio l’Afghanistan è oggetto di invasione straniera. In meno di tre mesi, dopo una intensiva campagna di bombardamenti (in cui non sono risparmiate le vite dei civili) i Talebani cedono il controllo della loro ultima e più importante base operativa, la città di Kandahar. Molti membri del movimento si rifugiano in Pakistan, tra loro probabilmente gli stessi Mullah Omar ed Osama bin Laden (ucciso ad Abbottad nel 2011). La perdita del governo, comunque, non coincide affatto con una resa. Da allora, infatti, i Talebani (coadiuvati da al-Qaeda) continuano a combattere attraverso una strategia di guerriglie, dispositivi esplosivi improvvisati ed attacchi suicidi diretti contro l’attuale governo legittimo, le forze militari afghane e straniere, il personale diplomatico e civile.

Nel dicembre del 2001 viene formato a Bonn (Germania) un governo afghano provvisorio, in attesa della stesura di una Costituzione e di libere elezioni; alla guida viene posto Hamid Karzai, che nel 2004 verrà eletto Presidente della neo-nata Repubblica Islamica dell’Afghanistan. A partire dal 2003, le Nazioni Unite autorizzano inoltre la formazione di una coalizione internazionale (International Security Assistance Force) che, affidata alla guida della NATO, garantisce la sicurezza di Kabul e del governo ad interim. Le forze dell’Alleanza Atlantica resteranno complessivamente quattordici anni in territorio afghano, trasferendo gradualmente la responsabilità per la sicurezza del territorio alle forze locali a partire dal 2011.

Secondo le stime del Watson Institute for International and Public Affairs, alla data del Gennaio 2015 almeno 26.000 civili afghani hanno perso la vita in ragione della guerra lanciata da Washington. A questi si uniscono circa 65.000 militari afghani uccisi nei combattimenti e circa 100.000 persone ferite a partire dal 2001. A queste cifre si aggiungono gli effetti indiretti creati da una situazione di belligeranza tanto lunga, tra cui la mancanza di acqua potabile, malnutrizione, mancanza di accesso alla sanità, degrado ambientale; e si aggiunge altresì il dato fornito nel 2009 dal Ministro della Sanità afghano, Sayed Mohammad Amin Fatimi, secondo cui i due terzi della popolazione soffrirebbe di problemi psicologici gravi.[3]

La situazione oggi a Kabul è molto delicata. Da un lato, non è chiara la direzione che prenderanno i Talebani (che contano circa 30.000 effettivi) dopo il travagliato annuncio della morte del Mullah Omar. Il rischio è che, in mancanza di un elemento unificante come la leggendaria figura del loro fondatore, il movimento possa scindersi in diversi gruppi in lotta tra loro. A questo scopo il nuovo e contestato leader, il Mullah Mansoor, ha fatto un appello all’unità ed alla coesione lo scorso 20 settembre. Nemmeno il gruppo al-Qaeda vive un momento semplice. L’attuale capo del movimento, Ayman al-Zawahiri, sebbene vanti un passato glorioso da combattente anti-sovietico, non sembra capace di rinnovare il movimento ed attrarre nuovi seguaci. Da un punto di vista mediatico la scena è dominata piuttosto dal cosiddetto Stato Islamico (ISIS), nato proprio da una costola di al-Qaeda ed oggi suo rivale.

Il governo legittimo afghano, invece, vede alla guida Mohammad Ashraf Ghani, vincitore delle elezioni nel 2014. Al fine di restituire la pace al Paese, Ghani ha mostrato di privilegiare una soluzione politica con i Talebani, ipotesi sul tavolo fin dal 2010. Del resto, gli ultimi trent’anni di storia insegnano che sopprimere con le armi le logoranti insurrezioni del gruppo fondamentalista islamico è un obiettivo al limite dell’utopia. Si tratta di una guerra che non può essere vinta sul piano militare. Pertanto, Ghani porta avanti una strategia di dialogo accompagnata da relazioni più amichevoli con Islamabad. Il beneplacito del Pakistan, che ha un rapporto ambiguo con i Talebani, è necessario affinchè si possa giungere ad un’intesa. Da un lato, Ghani ritiene che un Afghanistan stabile e sicuro possa essere un miglior vicino per i pakistani; d’altro lato, tuttavia, Islamabad potrebbe preferire ad un governo afghano legittimo ed indipendente un movimento talebano forte e non diviso, per poter continuare ad esercitare una forte influenza su Kabul ed impedire un avvicinamento fra l’Afghanistan e l’acerrimo nemico di sempre, l’India.

In questa mosaico bisogna infine tenere in considerazione un nuovo attore, che potrebbe fungere da mediatore tra i due Paesi. Si tratta della Cina, la cui neutralità in politica estera le garantisce un ruolo super partes. Pechino gode di buone relazioni con il Pakistan ed è stata la meta di una delle prime visite ufficiali del Presidente Ghani. Una pacificazione della zona le consentirebbe di accelerare i suoi progetti di espansione economica e commerciale verso occidente, seguendo le nuove vie della seta; inoltre, il raggiungimento di un’intesa scongiurerebbe la possibile espansione dell’estremismo islamico alla regione musulmana Xinjiang.
In un quadro tanto variegato e mutevole è difficile fare previsioni sull’esito delle trattative. Mentre queste proseguono, la situazione nel Paese resta molto tesa, e l’Afghanistan permane stretto in una morsa di violenza il cui epilogo sembra ancora lontano.

[1] Per maggiori dettagli sulla condizione delle donne afghane ieri ed oggi, si veda http://www.rawa.org/rules.htm (Revolutionary Association of the Woman in Afghanistan)

[2] Affermazione della potenza mediante l’uso della forza.

[3] https://watson.brown.edu/costsofwar/costs/human/civilians/afghan

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