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«Io ho portato la bara di Farkhunda Nessuno se l’aspettava da noi afghane»

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La 27ventisettesima Ora – Iblog del Corriere della sera – 16 aprile 2015, di Viviana Mazza

farkhunda funeral 655x422 471x250“Una ragazza uccisa dalla folla, le donne protagoniste al suo funerale. Ora parla una di loro, Munera Yousufzada, 30 anni e una figlia di 10: “Abbiamo violato le regole della tradizione e della religione perché sono state dirottate dagli uomini”

Sono stati gli uomini ad attaccare Farkhunda e a guardare senza far nulla per salvarla. Nella nostra cultura e nella nostra religione, non è permesso alle donne di portare la bara al funerale. Questo perché la religione è stata dirottata dagli uomini, che l’hanno usata come strumento per raggiungere obiettivi egoistici.

Per mostrare che non accettiamo più queste strumentalizzazioni, ci siamo caricate il feretro sulle spalle. D’altra parte, se l’avessero trasportato gli uomini, il caso sarebbe stato dimenticato in fretta. Invece, per rendere questa storia immortale e mostrare che questi atti di violenza non sono più accettati, abbiamo fatto una cosa che nessuno si aspettava in Afghanistan.

Parla Munera Yousufzada, che ha 30 anni e una figlia di dieci: è una delle donne di Kabul che hanno portato fino alla tomba il corpo di una giovane uccisa e bruciata dalla folla lo scorso mese nella capitale afghana.

Un gesto ribelle di cui abbiamo scritto sul Corriere della Sera e in questo blog, ma quelle donne che gridavano «oggi è toccato a lei, domani toccherà a noi», erano anonime. «Farkhunda è stata uccisa con l’accusa di aver bruciato il Corano – racconta ora Munera – Ma dall’inchiesta, che non si è ancora chiusa, è emerso che aveva litigato con una persona che stava scrivendo degli amuleti nel nome della religione. Sono maghi cui la gente analfabeta si rivolge perché risolvano i problemi. Poiché Farkhunda aveva criticato uno di loro, lui l’ha accusata di aver bruciato il Corano».

 

Munera è laureata in Scienze Politiche, ha lavorato per aiutare i bambini di strada, ha collaborato con il governo e tiene un blog di poesia e prosa. Ha aperto l’anno scorso a Kabul con i propri soldi la galleria d’arte Shamama, intesa non solo come spazio espositivo ma come «luogo per aumentare la tolleranza della gente». Crede che le donne afghane debbano lavorare insieme per riformare la società e la cultura. «Shamama» è il nome dato dagli afghani a uno dei Buddha di Bamyan, risalente al 1° secolo d.C. e distrutto dai talebani: è una statua femminile, il nome significa «regina madre». Queste sono le idee che ha condiviso via email con noi:

La cosa interessante è che non era una cosa pianificata. Sapevo che in Turchia era successo qualcosa del genere, ma non sono sicura che le mie compagne afghane ne fossero consapevoli. Non ci siamo ispirate alle donne turche, che comunque ammiro molto. Semplicemente, le donne afghane hanno deciso di trasportare la bara di Farkhunda sul momento, dal profondo del cuore.

L’Afghanistan è considerato il Paese peggiore per le donne. La domanda qui non è quali siano i problemi delle donne. Piuttosto bisogna chiedere: qual è il problema più grave che le donne affrontano ogni giorno in questo Paese? Il problema principale oggi è che le donne non hanno alcuna sicurezza psicologica. Le donne non vengono prese seriamente quando perseguono i propri obiettivi. Perciò alla fine fanno un passo indietro e accettano che la violazione dei diritti faccia parte del loro destino. Secondo: in una società in cui la maggioranza della popolazione è costituita da «fondamentalisti religiosi» – cioè da gente conservatrice, analfabeta, povera, patriarcale e che non accetta il cambiamento – ogni tipo di instabilità politica ed economica, ogni problema di sicurezza, ogni crisi culturale e sociale ha gravi conseguenze per la condizione delle donne.

Il mio obiettivo principale è di riformare la cultura infrangendo il silenzio. Per esempio, ho aperto la Galleria d’arte Shamama, per visualizzare i mali della società attraverso diversi generi artistici – dipinti, fotografia, e così via. In più lavoro su progetti per le donne attraverso l’Organizzazione di supporto Bena per l’Afghanistan, che ho creato io stessa. E poi scrivo molto sui social media e sui mass media, per aumentare la consapevolezza nella società. Mi considero una femminista e ci credo davvero. Ci credo perché ho visto le diseguaglianze di questa società per tutta la vita.

Ho visto la performance di di Kubra Khademi sui social media. La ammiro per il suo coraggio e per il suo impegno nel lottare contro le molestie, però credo anche che il suo approccio non sia stato molto utile e che abbia portato al contrario molta gente a opporsi ai diritti delle donne. Prima di tutto, la maggioranza degli afghani soffre di paranoia: pensano che queste proteste siano progetti finanziati da donatori. Secondo: la maggior parte degli afghani crede che le organizzazioni della società civile siano state create per lavorare contro l’Islam. Terzo: le persone sono per lo più religiose e queste azioni li rendono ancor più fondamentalisti. Perciò azioni come quella finiscono con il rendere le donne più vulnerabili alla violenza e le famiglie non permettono loro di partecipare ai movimenti civili. Dal punto di vista dell’efficacia, quella performance è stata un fallimento totale in un luogo come l’Afghanistan.

Le pratiche tradizionali e religiose in Afghanistan hanno reso gli uomini così repressi sessualmente che, qualunque cosa una donna indossi, la vedono comunque nella propria mente come uno strumento per soddisfare i propri desideri. E questo è evidente da diversi casi di cui si è parlato nei media: lo stupro di una bambina di due anni nella provincia di Herat; lo stupro di gruppo di una pecoraia nella provincia di Bamyan; il caso di un uomo filmato mentre faceva sesso con una mucca. Questo mostra chiaramente che in questo Paese bisogna liberare gli uomini dalle catene della privazione sessuale, riformando la cultura e rendendo il matrimonio più facile e accessibile anche economicamente per i giovani.

Noi non ci aspettiamo che gli uomini ci aiutino nei nostri sforzi, ma ci siano comunque alcuni uomini che credono veramente nel femminismo e che hanno appoggiato le attiviste in vari modi. Speriamo che un giorno tutti gli uomini in Afghanistan sostengano e promuovano i nostri diritti.

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