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Il mullah: «Giù le mani dall’Afghanistan»

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Il manifesto di Giuliano Battiston – 23 luglio 2015

Afghanistan. Dopo l’accordo nucleare iraniano, i Talebani avvallano i colloqui: per difendersi dall’avanzata del Califfato e dal cambiamento degli equilibri regionali.

«Fre­niamo gli entu­sia­smi», «per ora nes­suna svolta», «vedremo nelle pros­sime set­ti­mane», «dei Tale­bani non mi fido». Dall’Afghanistan arri­vano mes­saggi chiari: qual­siasi entu­sia­smo è pre­ma­turo. È vero, il comu­ni­cato con cui il mul­lah Omar, il lea­der della guer­ri­glia tale­bana, ha dichia­rato che il nego­ziato è legit­timo è un pas­sag­gio impor­tante. Segna una svolta. Avalla i col­lo­qui infor­mali e non che si sono svolti negli ultimi mesi.

E si somma alla noti­zia, con­fer­mata nei giorni scorsi dal Con­si­gliere per la sicu­rezza nazio­nale, Hanif Atmar, che il secondo incon­tro uffi­ciale tra i rap­pre­sen­tanti del governo e quelli dei bar­buti si terrà il 30 luglio. Ma prima che gli incon­tri e le dichia­ra­zioni pro­du­cano i loro effetti sul ter­reno di bat­ta­glia ci vorrà del tempo. I tempi della diplo­ma­zia. Lun­ghi in ogni caso. E par­ti­co­lar­mente in quello afghano, dove sia il fronte gover­na­tivo sia quello anti-governativo sono fram­men­tati. Qual­cuno a Kabul azzarda let­ture per­fino meno otti­mi­sti­che: il mes­sag­gio dell’Amir-ul-Momineem, il «coman­dante dei cre­denti», non sarebbe tanto un segno di forza, quanto un sin­tomo di debo­lezza. Una rea­zione, più che una deci­sione vera e pro­pria. L’ultimo ten­ta­tivo della vec­chia guar­dia dei Tale­bani, la shura di Quetta, il con­si­glio legato all’Emirato isla­mico d’Afghanistan (il governo rove­sciato dagli ame­ri­cani nel 2001), di rima­nere in sella. Di con­ti­nuare a eser­ci­tare ege­mo­nia poli­tica all’interno di una galas­sia sem­pre meno coesa. E di rispon­dere alle insi­die rap­pre­sen­tate dalla pre­senza in Afgha­ni­stan degli uomini dello Stato islamico.

La disputa in atto
La disputa tra Tale­bani e Stato isla­mico non riguarda tanto le que­stioni ideo­lo­gi­che o dot­tri­na­rie (le dif­fe­renze ci sono, rile­vanti), ma il denaro. Gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi arri­vano con soldi veri, «pesanti». Quelli che i paesi del Golfo hanno deciso di tagliare ai Tale­bani, un inve­sti­mento poco pro­dut­tivo, e di dirot­tare sul Califfo, un mar­chio in espansione.

 

Nel paese cen­troa­sia­tico i seguaci del Califfo — pochi per ora — hanno com­prato alcuni coman­danti tale­bani. Sono arri­vate le sco­mu­ni­che, i com­bat­ti­menti, gli scon­tri feroci. E i comu­ni­cati. Il 16 giu­gno mul­lah Akh­tar Moham­mad Man­sour, il vice del mul­lah Omar, l’uomo che in assenza del gran capo guida il Con­si­glio della lea­der­ship, ha reso pub­blica una let­tera in cui si rivol­geva al Califfo.

Toni pacati, mes­sag­gio chiaro: «giù le mani dall’Afghanistan», «non por­tate divi­sione nella guer­ri­glia», «il fronte rimanga unico». Poi è arri­vato il comu­ni­cato del mul­lah Omar. Con un mes­sag­gio ancora una volta rivolto ad al-Baghdadi, in modo impli­cito ma evi­dente: «abbiamo sol­le­ci­tato tutti i nostri muja­hed­din a pre­ser­vare la loro unità e a pre­ve­nire ener­gi­ca­mente tutti que­gli ele­menti che pro­vano a creare dif­fe­renze, dan­neg­giare il jihad, disper­dere i muja­hed­din». Un mul­lah Omar in difesa dun­que. Che chiama a rac­colta i suoi mili­tanti. Che respinge i ten­ta­tivi di infil­tra­zione dello Stato islamico.

Una mossa obbligata
Che prova a dimo­strare che alla guida del jihad in Afgha­ni­stan c’è lui, e solo lui. E soprat­tutto che è ancora vivo. Una mossa obbli­gata: nelle ultime set­ti­mane gli uomini dello Stato isla­mico e delle fazioni tale­bane anta­go­ni­ste hanno messo in piedi una vera e pro­pria cam­pa­gna media­tica. Obiet­tivo, dimo­strare che il mul­lah Omar è morto. O che non conta più nulla, per­ché nelle mani dei ser­vizi pakistani.

Nei social net­work dei mili­tanti isla­mi­sti si sono mol­ti­pli­cati gli appelli: «se ci sei, batti un colpo». Mul­lah Omar (molto più pro­ba­bil­mente chi per lui) si è fatto vivo. Non con un mes­sag­gio audio o video, che avrebbe potuto dimo­strare che dav­vero è ancora vivo, ma con il solito comu­ni­cato, scritto in occa­sione dell’avvicinarsi della fine del Rama­dan. Il risul­tato? Uscendo allo sco­perto, mul­lah Omar ras­si­cura i coman­danti più fedeli, ma con­ferma para­dos­sal­mente la pro­pria debo­lezza. Quella di chi non detta l’agenda, ma è costretto a inse­guire. Una debo­lezza che peserà molto sul tavolo nego­ziale. Quando diven­te­ranno evi­denti le spac­ca­ture interne al movi­mento talebano.

Le stesse esplose alla vigi­lia delle ele­zioni pre­si­den­ziali dello scorso anno. Quando i bar­buti si sono spac­cati tra quanti (i duri e puri alla Haq­qani) pen­sa­vano sol­tanto a sabo­tare il pro­cesso elet­to­rale con atten­tati effe­rati; il gruppo pronto a soste­nere il can­di­dato pash­tun Ash­raf Ghani; coloro che rite­ne­vano invece che la vit­to­ria del can­di­dato tagiko Abdul­lah Abdul­lah avrebbe favo­rito la mobi­li­ta­zione dei pash­tun, incre­men­tando le fila dei com­bat­tenti. All’epoca, il movi­mento è uscito dall’impasse con le ossa un po’ rotte, ma con una mossa prag­ma­tica: soste­gno indi­retto a Ghani, con­si­de­rato un inter­lo­cu­tore più mal­lea­bile in vista del nego­ziato di pace. Oggi quel nego­ziato si avvicina.

È il momento della caparra
I Tale­bani pro­vano a riscuo­tere la «caparra» ver­sata in quell’occasione. E il mes­sag­gio del mul­lah Omar fini­sce per raf­for­zare pro­prio il governo di Kabul. Para­liz­zato dall’antagonismo tra il pre­si­dente Ghani e il quasi «primo mini­stro» Abdul­lah, lon­tano dal sod­di­sfare le aspet­ta­tive che aveva susci­tato all’inizio, il governo afghano potrà ven­dere l’apertura di Omar al dia­logo come un pro­prio suc­cesso. Uno dei pochi, finora. Ma sul tavolo riman­gono molti aspetti cri­tici, oltre alle divi­sioni interne ai due fronti. Tra que­sti, pro­prio il «dop­pio passo» — com­bat­ti­menti e insieme nego­ziato — riven­di­cato dal mul­lah Omar. Senza un ces­sate il fuoco imme­diato — chie­sto la scorsa set­ti­mana da Muta­sim Agha, già mini­stro delle Finanze tale­bane — si rischia che aumenti lo stil­li­ci­dio della popo­la­zione civile.

Per­ché più si pic­chia sul campo di bat­ta­glia — così pensa una delle fazioni dei bar­buti — più si ottiene al tavolo nego­ziale. Nelle ultime set­ti­mane nel paese c’è stato un incre­mento note­vole degli attac­chi, degli scon­tri, delle vit­time civili. In almeno 26 delle 34 pro­vince del paese. Dal nord a sud, da est a ovest.

Tra gli attac­chi più san­gui­nosi, quello del 12 luglio a Khost. Un atten­tato sui­cida con­tro un chec­k­point della poli­zia, fuori Camp Cha­p­man, la base mili­tare che ospita alcune unità delle Forze spe­ciali degli Stati Uniti. L’obiettivo non era casuale: quel chec­k­point è gestito dagli uomini della Khost Pro­tec­tion Force, un’unità mili­tare che, adde­strata dalla Cia, ha la respon­sa­bi­lità delle ope­ra­zioni di contro-terrorismo lungo il con­fine paki­stano. Il con­fine più poroso del paese, lungo il quale viag­giano mili­tanti, armi, soldi, droga.

Il con­fine più poroso
Fin dal primo jihad con­tro gli inva­sori sovie­tici, è sem­pre stato fon­da­men­tale nella par­tita afghana. Oggi lo è ancora di più. I rifugi dei tale­bani afghani in Paki­stan, nel Wazi­ri­stan del nord e del sud, non sono più così sicuri come una volta. Per due ragioni. La prima è che il governo paki­stano — pre­oc­cu­pato del mostro incon­trol­la­bile che ha nutrito finora, una minac­cia per la stessa sta­bi­lità interna — vuol dar segno di aver archi­viato la tra­di­zio­nale poli­tica di soste­gno ai bar­buti isla­mi­sti, e ogni tanto invia truppe spe­ciali e unità d’assalto. La seconda è che alcune frange dei Tale­bani afghani guar­dano con sospetto a Isla­ma­bad. Sanno di poter essere ven­dute. I più radi­cali riten­gono inol­tre che il nego­ziato di pace non possa por­tare nulla di buono.

Per que­sto hanno comin­ciato a tra­sfe­rire uomini e armi dai vec­chi rifugi paki­stani alle pro­vince orien­tali dell’Afghanistan. È un segnale di una ten­denza più gene­rale: i rap­porti tra i Tale­bani e i tra­di­zio­nali spon­sor regio­nali sono cam­biati. Se una parte dell’establishment paki­stano ha cam­biato orien­ta­mento, i cinesi hanno smesso di finan­ziare i Tale­bani. I paesi del Golfo – come abbiamo visto – hanno dirot­tato i soldi verso lo Stato islamico.

Gli ira­niani ne hanno preso il posto, ma solo in parte e con pru­denza. I Tale­bani sono a secco, o quasi. Nel suo comu­ni­cato il mul­lah Omar ha chie­sto «a tutti i musul­mani del mondo e spe­cial­mente alle pie masse afghane di aumen­tare il soste­gno fisico e finan­zia­rio ai muja­hed­din». La guerra sarà pure santa, ma gli uomini – incluso l’Amir-ul-Momineem, mul­lah Omar — riman­gono dei grandi peccatori.

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