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Afghanistan: le occasioni perdute e le minacce per il futuro. Intervista a Thomas Ruttig.

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eastonline – Daniele Grassi – 14 Maggio 2015

610x397xthomas ruttig.jpg.pagespeed.ic.hbPmtGEEYmDopo oltre un anno dalle elezioni, in Afghanistan si è finalmente riusciti a formare un governo. Intervistiamo Thomas Ruttig, co-fondatore dell’Afghanistan Analysts Network, sulla situazione del Paese e sulle prospettive che il nuovo esecutivo può offrire alla risoluzione dei drammatici problemi nazionali e della regione.

Dopo un’attesa di oltre sei mesi, Ghani e Abdullah sono infine riusciti a completare la formazione della loro compagine di governo, sebbene il ministero della Difesa sia ancora vacante. Qual è la sua opinione sull’esecutivo e quali le sue aspettative circa la capacità del governo di soddisfare le enormi esigenze della popolazione afghana?

È ​​troppo presto per dirlo, il governo è appena stato creato ed è composto quasi interamente da volti nuovi. Dobbiamo quindi concedergli almeno il beneficio del dubbio e vedere che cosa può fare. Ci sono alcuni ministri che hanno esperienza pregressa di governo e ciò lascia supporre un certo livello di professionalità.
Ma ci è voluto molto tempo per comporre l’esecutivo e ciò ha deluso molti Afghani, tra cui molti degli elettori e anche le persone che appartengono allo schieramento del Presidente, che avevano sperato in un processo più rapido, così che il governo potesse cominciare presto a lavorare per il Paese.

Le difficoltà nella formazione dell’esecutivo potrebbero essere state dettate anche dalla complicata coabitazione tra Ghani e Abdullah. Lei crede che questo governo sia destinato a durare?

Quel che credo è che questa forma di coabitazione, nata come scorciatoia per risolvere problemi che nessuno dei due schieramenti era in grado di superare nemmeno con l’aiuto della comunità internazionale, continuerà. Non tanto per le due personalità ai vertici del governo, quanto per come si è configurato il sistema politico afghano negli ultimi 12/13 anni, in particolare sotto il Presidente Karzai. Mi riferisco, in particolare, a come le reti clientelari sono state radicate nella vita politica afghana, mentre le istituzioni formali rimangono tuttora molto deboli. Nel Paese vi sono molte personalità potenti, dotate di armi, milizie e denaro, almeno in parte provenienti da attività illecite. Entrambi i gruppi hanno mobilitato queste persone e queste reti per accaparrarsi voti durante le elezioni, anche in questo caso sia con mezzi legali sia per vie illegali, e in questo modo Ghani e Abdullah si sono resi dipendenti da queste persone.
E ciò sta funzionando, almeno secondo gli standard afghani. Il problema è che queste persone ora chiedono una ricompensa, sotto forma di posizioni influenti, per l’aiuto fornito durante le elezioni. Questo contraddice non solo ciò che in particolare il Presidente Ghani e anche Abdullah hanno affermato, vale a dire che intendono mettere fine a questo sistema clientelare, ma finisce anche per minare la professionalità e le nomine basate sul merito.

 

Crede che questa situazione potesse essere evitata? Non pensa fosse troppo prematuro affidare la gestione delle elezioni all’Afghanistan?

Sono pienamente d’accordo con te. Penso fosse troppo presto per gli Afghani per organizzare buone elezioni. C’era solo un problema: il governo afghano ha insistito per organizzarle e la comunità internazionale si è lavata troppo presto le mani da ogni responsabilità politica. Ma ancora una volta, penso che ciò rispecchiasse la realtà dei fatti. Inoltre, ritengo che ciò abbia avuto a che fare anche con il fatto che i politici afghani avevano imparato durante le elezioni precedenti che, organizzando in prima persona le votazioni e controllando o manipolando il sistema, le elezioni è possibile vincerle. Avevamo due campi concorrenti entrambi molto forti e non c’è alcun dubbio che delle irregolarità siano state commesse da tutti e due gli schieramenti. E il fatto che oggi non sia possibile accordarsi su un risultato e non si abbia un responso finale ufficiale con dei dati certi è anche un segno di quello che ho detto in precedenza, ovvero che le istituzioni sono molto deboli e che le reti clientelari sono più forti di esse.

Occupiamoci ora della situazione regionale. Sin dalla sua elezione, il Presidente Ghani ha cercato di ristabilire buoni rapporti sia con Stati Uniti e, soprattutto, con il Pakistan. Lei crede che scommettere sul Pakistan sia stata una buona scelta?

Fino ad oggi, almeno su uno dei principali punti –ovvero i negoziati con i Taliban – Ghani non ha ottenuto nulla. Il Pakistan, infatti, non ha sinora mantenuto la promessa di portare i Taliban al tavolo dei negoziati (l’incontro preliminare che si è tenuto di recente in Qatar, coinvolgendo – a titolo personale – vari esponenti dei Taliban e di altri gruppi politici e sociali afghani non è stato un’iniziativa del governo di Kabul – ndr). Non so se si è trattato di una scelta giusta o sbagliata, ma si tratta certamente di una scelta rischiosa, anche se comprensibile, poiché il Pakistan svolge un ruolo molto importante nel sostegno ai Taliban, sia a livello logistico che politico. Pertanto, la principale strada per una soluzione politica passa attraverso Islamabad. Tuttavia, nonostante alcune aperture, non c’è stato ancora nulla di concreto.

Lei crede che le autorità pakistane siano sincere quando affermano di voler collaborare con il governo afghano nei negoziati con i Taliban? O forse questa è solo una strategia utile a influenzare la situazione, senza, tuttavia, fornire alcunché di concreto?

Sì, sembra sia questo il caso. Credo che l’interesse nazionale del Pakistan, così come è definito dall’establishment militare, sia quello di conservare per quanto possibile la propria influenza in Afghanistan, continuando ad utilizzare i Taliban come principale strumento. Sebbene ci siano state rassicurazioni circa la volontà di voltare pagina, non abbiamo visto sinora risultati concreti. Quindi si deve essere per ora diffidenti circa la posizione del Pakistan. Io personalmente sono scettico, anche se vorrei che ciò mutasse e che il governo afghano riuscisse a convincere il Pakistan che è anche nel suo interesse porre fine alla guerra in Afghanistan.

Ritiene che i negoziati con i Taliban siano l’unico modo per dare all’Afghanistan una reale possibilità di pace?

Certo, io non vedo come si possa raggiungere una soluzione politica senza coinvolgere i talebani. Bisogna tenere a mente che una soluzione di tipo militare non ha funzionato ed è, inoltre, non auspicabile, visti i costi umani ed economici di questi lunghi anni di combattimenti. Basti vedere come l’Afghanistan è stato distrutto, senza che si sia riusciti a porre fine all’insorgenza, quindi non esiste un’alternativa ai negoziati con i Taliban. Il Presidente Ghani ne è ben consapevole, e credo che il supporto del Pakistan e anche della Cina sarebbe a questo proposito molto utile.

Secondo lei, le divisioni esistenti all’interno del movimento talebano possono favorire i negoziati, oppure rappresentano un ostacolo?

Credo che rappresentino un ostacolo per almeno due ragioni: la prima è che se davvero ci fossero importanti frange armate contrarie ai negoziati, queste potrebbero naturalmente tentare di sabotarli; la seconda è che, anche in caso di accordo, sarebbe difficile fermare i combattimenti su tutta la linea, anche se personalmente ho sempre sostenuto e continuerò a sostenere che anche una riduzione, diciamo, del 50% della violenza sarebbe una cosa positiva per l’Afghanistan. Ovviamente, però, sarebbe meglio raggiungere una soluzione politica complessiva, che includa almeno una grande maggioranza degli insorti.

Quanto profonde sono in realtà queste divisioni?

È molto difficile da dire. Questa discussione è anche parte di una guerra psicologica che deriva dalla logica del divide et impera adottata da alcuni alleati occidentali e in parte anche dall’apparato di sicurezza afghano. La loro convinzione è che le divisioni tra i Taliban possano favorire una loro vittoria, cosa di cui personalmente dubito.

Non teme che tali divisioni possano consentire allo Stato Islamico di rafforzare la loro presenza in Afghanistan?

Beh, se le divisioni non sono poi così profonde come alcuni commentatori o analisti affermano, allora è anche più difficile per lo Stato Islamico rafforzare la sua presenza nel Paese. Quando guardiamo a quello che è accaduto finora, si è fatto un gran parlare di Stato Islamico e dell’uso dei simboli, senza che davvero si sappia se queste persone sono realmente schierate con il gruppo di al-Baghdadi. In realtà, in molti casi, come evidenziato dagli studi condotti dalla mia organizzazione, sussistono fondati dubbi. Penso che le presunte affiliazioni allo Stato Islamico siano utilizzate da certi gruppi marginali come uno strumento per spaventare la gente, perché la gente in questo momento teme più lo Stato Islamico che i Taliban. I gruppi criminali hanno fatto la stessa cosa quando si spacciavano per Taliban.
Io però penso che i Taliban siano ancora il gruppo armato più forte e il principale problema per l’Afghanistan. Naturalmente, però, qualora vi fossero divisioni e alcuni elementi decidessero di lasciare il movimento talebano, oggi troverebbero nello Stato Islamico un’alternativa che prima non esisteva. Tuttavia, devo dire che trovo i Taliban piuttosto centralizzati come movimento, anche in ragione della legittimazione religiosa esercitata dal Mullah Omar, in qualità di Amir al-Mu’minin. È dunque estremamente complicato per un gruppo di Taliban lasciare il movimento, poiché perderebbe ogni tipo di legittimazione. Ciò non sta funzionando con lo Stato Islamico, almeno non in Afghanistan.

Secondo il suo parere, qual è la principale minaccia per il futuro dell’Afghanistan?

Ce ne sono due: la guerra e la situazione economica disastrosa. Dal mio punto di vista, la guerra ha due motivi principali. Uno è l’insurrezione, che è in parte dovuta a fattori esterni, ma dall’altra è favorita anche dalle carenze, per usare un eufemismo, del governo afghano. Il ritorno dei Taliban come un potente movimento di insorgenza armata è stato possibile grazie ai limiti della strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati, poiché la loro lotta contro ciò che definivano i resti dei Taliban è stata portata avanti senza fare alcuna distinzione tra i Taliban e Al Qaeda, gruppi che invece hanno finalità diverse e talvolta contraddittorie; e anche grazie alla corruzione del governo e all’esclusione, talvolta violenta, dal governo di interi gruppi sociali, politici, etnici o tribali, almeno nei primi anni dopo il 2001.
Ciò ha consentito ai Taliban di acquisire nuovo vigore. In secondo luogo, l’Afghanistan è uno dei paesi più poveri del mondo, con un crescente divario sociale e circa 100.000 giovani provenienti ogni anno da scuole e università, senza la possibilità di trovare un lavoro. Allo stesso tempo, l’economia afghana si sta ulteriormente indebolendo, gli aiuti internazionali (e l’attenzione) sono in calo e il nuovo governo non è stato finora in grado di bloccare il calo delle entrate statali. Ciò potrebbe molto facilmente generare un forte conflitto a livello sociale, anche qualora l’insorgenza terminasse.

Lei crede che invitando i Taliban alla Conferenza di Bonn del 2001 si sarebbe potuta evitare la guerra, assicurando all’Afghanistan un futuro migliore?

È molto difficile da dire. Ero nel team delle Nazioni Unite a quel tempo. Quello che ho visto è che non è stato possibile invitare i Taliban a Bonn. Gli USA, altri Paesi e gli ex-mujaheddin afghani erano assolutamente contrari a questa ipotesi. Quel che mi preme sottolineare è che dopo Bonn ci sono state varie possibilità di coinvolgere i Taliban in una soluzione politica, ad esempio durante la Loya Jirga di emergenza indetta nel 2002 o ancora nel 2007/2008, quando c’era un fortissimo dibattito interno ai Taliban circa l’opportunità di incrementare gli attacchi suicidi, nello specifico se tale strategia fosse o meno conforme ai dettami dell’Islam.
C’era allora una maggioranza che riteneva che non fosse quello il modo di procedere. Tuttavia, la decisione americana di intensificare le operazioni armate mise i Taliban in una posizione difensiva e li ‘costrinse’ a reagire, e ciò ebbe come risultato quello di rafforzare l’ala ‘militarista’. Ciò ha probabilmente compromesso la più grande chance di raggiungere una soluzione di carattere politico.

Thomas Ruttig è co-fondatore dell’Afghanistan Analysts Network. Ha prestato servizio come diplomatico presso l’Ambasciata della DDR a Kabul (1988-1989) e in seguito ha lavorato come funzionario degli affari politici per due missioni delle Nazioni Unite in Afghanistan (2000-03). Ciò ha incluso incarichi come capo dell’ufficio di Kabul per la Missione Speciale in Afghanistan delle Nazioni Unite, consigliere della Commissione indipendente per la Loya Jirga e capo dell’ufficio di Islamabad per la missione UNAMA. In seguito ha lavorato come vice-Rappresentante speciale dell’UE per l’Afghanistan (2003-04) e come consigliere politico presso l’ambasciata tedesca a Kabul (2004-06). Thomas parla fluentemente pashtu e dari.

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